Siamo esseri umani oppure baccelli omologati e in fase di regresso? Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza mentre ci guardiamo attorno, testimoniando un futuro sempre più oscuro, angosciante e disastroso. Un futuro che qualcuno già aveva previsto.
Più per una questione di acutissima lungimiranza che per uno scherzo del destino, il disastro globale nel quale ci troviamo era stato profetizzato nei primi anni Settanta, in un angolo dell’America che il cosiddetto “progresso” prima e la sua decadenza dopo avevano provveduto a rendere un deserto urbano. È dell’Ohio che parliamo e del filo rosso che connette la Cleveland dei Pere Ubu ad Akron e ai Devo.
Un panorama di desolazione che è il risultato del declino di città ricche messe in difficoltà dalla crisi economica, ma soprattutto di un atteggiamento scriteriato che antepone il profitto a ogni cosa e calpesta il rispetto per la natura, l’uomo, la dignità. Poco da stupirsi, se lo smog offusca il cielo e un fiume prende fuoco come se l’inferno si fosse riversato in quella che si vanta di essere la patria della libertà.
Del resto, storia e attualità lo insegnano: l’America è il “grande paese” per eccellenza, che contiene tutto e il suo contrario in un gioco di polarità opposte che inseguono un equilibrio impossibile. Nello specifico di ciò che stiamo per raccontarvi, è anche la culla di un ingannevole benessere e di una brutale industrializzazione, nonché la fedele cartina al tornasole della civiltà occidentale che ha anticipato il teatro del disfacimento e lo sfrenato liberismo da cui siamo circondati.
Tutto quadra, pensando all’incubatrice di Akron, la capitale mondiale della gomma dove la caligine si posa sul terreno e dentro i corpi dei suoi abitanti. Un luogo dove la puzza del biossido di zolfo si confonde con l’odore dei soldi, della malattia, della morte. Dove certe malattie presentano il conto alla svelta e pertanto viene spontaneo immaginare DNA mutanti e osservare l’American dream gettare la maschera per svelare un’evoluzione a rovescio, cioè la de-evoluzione.
Eccoci al punto: solo colà poteva concretizzarsi un progetto che mette insieme singolari teorie sul genere umano – in realtà, apparenti facezie rivelatesi sempre più serie – con un’estetica ben definita e musiche come non le avevamo mai udite. Qualcosa di avveniristico che si è trasformato in moda e in norma, ma che allora portava con sé una critica sociale tanto più incisiva quanto più era camuffata da eccesso satirico.
Dall’umorismo al vetriolo e dallo stridente – a tratti persino sgradevole – surrealismo dei Devo emerge una visione distopica lucida, disturbante e contemporanea, siccome da decenni produciamo, consumiamo e crepiamo preferendo la scelta alla libertà. Da decenni camminiamo in senso inverso e ci ritroveremo per l’appunto allo stadio di patate. Anzi: alcuni già lo sono, mentre altri cercano di resistere e, loro malgrado, sono schiacciati dal peso di un domani che si è dissolto nell’orizzonte insieme a ogni speranza di una vita migliore.
Ed è anche questo ciò che i Devo hanno mostrato al mondo con dovizia di particolari e intelligenza insuperate, prima che un progressivo e inarrestabile declino li riducesse a un guscio vuoto. Inevitabile? Nessuno può affermarlo con certezza, ma di sicuro, se parti da altezze stratosferiche e raggiungi presto i tuoi obiettivi, il rischio latente è che la spinta creativa vada affievolendosi fino a sparire.
A noi, però, è l’attimo di irripetibile fulgore che interessa, fotografato da un 33 giri figlio del suo tempo ma che non conosce tempo. Ci interessa il talento di chi proviene da una città con un nome che ricorda pericolosi pianeti alieni, tuttavia è stata fondata dall’essere più letale che cammini sulla terra. I Devo sono l’America e il nostro “qui e ora”. Proprio per questo, cari social fools, ci spaventano ed esaltano in ugual misura come il primo giorno.
In un altro – e, per forza di cose, inevitabile - parallelo con gli spiriti affini Pere Ubu, prima di essere post-punk Mark Mothersbaugh e Gerald “Jerry” Casale sono post-hippie. Ovvero, persone consapevoli che il riflusso scatenato dall’establishment ha demolito la controcultura e che i rimasugli del “pace & amore” sono finiti per sempre il 4 maggio 1970, quando la guardia nazionale dell’Ohio ha sparato contro gli studenti che protestavano alla Kent State University e due loro amici sono stati assassinati.
Il tragico, agghiacciante spartiacque è inoltre il momento in cui Gerald Casale smette i panni dell’hippie e – con i compagni di studi Mothersbaugh e Bob Lewis (che del gruppo sarà per un po’ manager) – sviluppa l’idea della de-evoluzione. Anticonvenzionali da subito, i Devo nascono come “concetto artistico” e solo in un secondo tempo diventano il mezzo con cui veicolarlo, scegliendo il rock in quanto più economico e diretto rispetto ad altre discipline.
Nel 1973 organizzano una band che reagisce alla stagnazione con una proposta originalissima sia in termini stilistici che tematici: in sintesi, il nocciolo della de-evoluzione è che, invece di progredire, l’umanità stia tornando a uno stadio primitivo. Essendo tutto ciò evidente nell’americano medio, i Nostri si ritengono archetipi con l’obbligo di esporre cosa sta accadendo attraverso canzoni, film e pamphlet in bilico tra situazionismo, performance art e beffarda provocazione.
Prendendo spunto dal libro The Beginning Was the End, in cui il folle pseudoscienziato Oscar Maerth afferma che l’uomo discende da una razza di scimmie che mangiano il cervello, applicano la tesi alla società contemporanea, divoratrice di menti che cancella la personalità del singolo e riduce le masse a un purè indistinto. Da qui origina un linguaggio che, sull’ipnotica monotonia del rock, inserisce elettronica in media fedeltà, utilizzandola con criteri impressionistici tra movenze robotiche, ritmi secchi e schizzati, rumorismo, per arrivare a canzoni che posseggono il gusto dell’oggetto trovato.
A completare l’opera contribuiscono le uniformi, i membri del gruppo indistinguibili uno dall’altro, concerti avveniristicamente multimediali, un articolato rapporto tra tecnologia e tribalismo. A farla breve, i Devo sono una band geniale, il cui nucleo ruota attorno a Jerry (musicalmente il più esperto, imbraccia il basso) e alla voce di Mark, che si porta dietro i fratelli Bob (chitarrista) e Jim (a un’artigianale drum machine). Poco dopo quest’ultimo viene rimpiazzato da Alan Myers e un altro Bob, che di cognome fa Casale, si aggiunge all’altra chitarra e alle tastiere.
Per un lungo periodo lavorano sul repertorio, assemblando cocci di Kraftwerk, Captain Beefheart e Roxy Music in composizioni dalla robusta impronta sperimentale. Fantastici, astrusi labirinti che tra ’90 e ’91 vedono la luce su due CD della Ryko intitolati Hardcore, imperdibili cornucopie di incisioni risalenti al periodo ’74-’77 che dispiegano uno stile maturo e ispiratissimo benché più abrasivo.
Facendo un torto al resto, menzione d’obbligo per l’oscura synth-wave Mechanical Man e il funky cibernetico Auto Modown, per il rock’n’roll alla Residents Space Girl Blues e il vizioso cabaret Buttered Beauties, per i Cars sconvolti di Soo Bawls e i Talking Heads altrettanto di Midget. Faccende che ancora lasciano senza parole e idem una Can U Take It? tra circense e industriale, l’incubo Bamboo Bimbo, modernissimi post-blues come The Rope Song, All of Us e I Been Refused, un’ipercinetica Fountain of Filth. Tu chiamali, se vuoi, sensazionali anticipi di ingegno.
Una minima parte del materiale esce su due singoli autoprodotti con il marchio Booji Boy – ennesima trovata concettuale: lo spirito infantile della band interpretato da Mark – che nel ’77 incassano il plauso della critica e, con l’aiuto dell’attività live e del cortometraggio The Truth About De-Evolution girato dall’amico Chuck Statler, mandano in visibilio Neil Young, David Bowie e Iggy Pop.
Con pienissima ragione, dal momento che l’inquietante Jocko Homo saltella isterica in una discarica e in Mongoloid i manichini/robot Ralf & Florian riscoprono le chitarre e diventano zombie, laddove gli spasmi della meccanica (I Can’t Get No) Satisfaction sono un baffo sulla Gioconda dove appropriazione fa rima con decostruzione e Sloppy (I Saw My Baby Gettin’) è Beefheart preso in ostaggio dagli Sparks.
Della ristampa britannica si occupa la Stiff, premurandosi di pubblicare anche un altro 45 giri di livello pressoché pari con la marziale Be Stiff e una trascinante Social Fools che sistema in via definitiva il quintetto sotto i riflettori. A vincere l’asta saranno Warner in madrepatria e Virgin per l’Europa allorché Brian Eno siede a fianco dell’eminenza grigia del kraut Conny Plank nel suo studio poco fuori Colonia, pur incontrando un certo ostracismo da parte del gruppo (che tuttavia se ne pentirà…) plasma un suono lievemente più potabile ma conserva comunque eccentricità e verve.
Stralunato, nevrotico, traboccante tensione e frenesia, ciò che dalla fine dell’estate 1978 ascoltiamo in Q. Are We Not Men? A. We Are Devo! è post-punk allo stato dell’arte figlio di infinite contaminazioni nel quale cogli un’anima avant pop. Come ogni capolavoro che si rispetti, trae forza da una visione condotta a perfezione e dal legame tra opposti tali solo sulla carta: esuberante e controllato, meditato e spontaneo, minimale e curatissimo, scolpisce una pietra miliare con musica nuova non per modo di dire.
Una musica che strapazza e amalgama i propri modelli con disinvoltura e maestria in canzoni strepitose, dall’elastico e allucinato inno all’insegna della psicosi quotidiana Uncontrollable Urge al buco nero che risucchia tutto della conclusiva Shrivel Up. In mezzo sfilano le versioni “Eno-logiche” dei primi due 7”, l’isterica pugnalata al fanatismo religioso Praying Hands, le schegge no wave Too Much Paranoias e Slap Your Mammy, i Neu! che si danno al garage punk post-atomico per Gut Feeling, Space Junk e Come Back Jonee.
Oltre che fantastico, Q. Are We Not Men? A. We Are Devo! si rivela assai profetico. Per noi che ne stiamo vivendo le rivelazioni e per una band che, tranne la solida replica Duty Now for the Future e il più immediato Freedom of Choice, non riuscirà più esprimersi a livelli elevati. Peccato per lo spreco di talento e perché, approfittando dell’innovativo approccio ai video e di una persuasiva svolta techno-pop, i Devo avrebbero potuto intraprendere una carriera da perfette star “trasversali”.
Invece, siccome il successo logora chi non ce l’ha, si tramutano rapidamente in autoparodia lungo un declino di album sempre più fiacchi, scioglimenti, rimpatriate e decessi. Il punto di non ritorno è raggiunto a metà anni Zero con i DEV2.0, allestiti per un manipolo di ragazzini attori a uso e consumo della Disney. Masticati dal sistema, Mothersbaugh e soci sono ormai dei sopravvissuti e, ironia della sorte, esiste un’unica parola in grado di restituirne la condizione. Uomini o de-evoluti? Che domande: dee-eee-viii-ooo.