Un disco può nascere in tantissimi modi. Con alle spalle un percorso tortuoso, due decenni or sono quel bel soggetto di Cody ChesnuTT ci spiegava come una reazione alle avversità può a volte risolversi in una conclamata opera d’arte.
Che splendida età, vent’anni. A maggior ragione per un album che, fin dal momento in cui ci siamo accorti della sua esistenza, ci ha spinto ad applaudirlo subito e senza esitazioni come il capolavoro che è. E un capolavoro lo rimane tuttora, The Headphone Masterpiece, sebbene Cody ChesnuTT non si sia più riproposto a livelli di ispirazione altrettanto elevati, così ragguardevoli da aver in qualche modo condizionato il resto di una carriera parca di pubblicazioni e tuttavia assolutamente impeccabile.
Ebbene sì: a volte siamo schiavi dei pregiudizi e faremmo bene a liberarcene alla svelta, non foss’altro che per rispetto verso l’artista e il percorso che ha deciso di intraprendere. In fondo non è colpa sua se al debutto Cody ci arriva da thirtysomething che ha faticato non poco, portando sotto braccio, a mo’ di risposta alle avversità e per celebrare l’amore che ha fatto ingresso nella sua vita, un mazzo di canzoni strepitose.
Pensare che, in un 2002 discograficamente memorabile, ci sono fior di contendenti: limitandoci allo stretto necessario sfilano Sea Change e Yankee Hotel Foxtrot, Geogaddi e Castaways and Cutouts, Is a Woman e Trust, Neon Golden e Out of Season. Per caso, è spuntata anche nei vostri occhi una lacrimuccia di nostalgia canaglia? Beh, sappiate che siete in ottima e numerosa compagnia.
Tra altri gioielli per comodità definiti indie e un hip hop che se la passa alla grande, in quegli stessi mesi salta fuori (apparentemente dal nulla, ma l’iter è stato piuttosto complesso) un bizzarro tizio di colore. Si presenta con un cognome dalla buffa grafia e un doppio CD lungo quasi cento minuti dal titolo “capolavoro da ascoltare in cuffia”. Ragion per cui, sotto la faccia simpaticamente tosta, i casi sono due: ci è o ci fa. Cody ci è eccome, poiché incarna un esempio di impollinazione incrociata come non lo incontravamo dal miglior Prince.
Paragone non casuale, siccome a quello dell’uomo un tempo conosciuto come Roger Nelson è assai simile lo stile: multiforme e non catalogabile zibaldone che possiede unità di fondo e però sfugge a ogni categoria, svelando così tante facce da risultare tondo come una perfetta “O” di Giotto. Analogo anche il modo di affrontare la materia sonora da parte di un autore che, trafficando con la black, la impasta con un rock di taglio classico che riconosce i pilastri in Beatles e Rolling Stones.
I quali, a loro volta, hanno cominciato idolatrando i maestri del soul e del blues e, scavalcando la filologia, sono approdati a qualcosa di unico ed esemplare. Infine, dato che la popular music è una storia di cerchi concentrici che si chiudono uno sull’altro, il medesimo discorso si applica in direzione opposta per altri numi tutelari condivisi e ricorrenti come Sly & The Family Stone e Funkadelic.
Questa, in sintesi, l’anatomia dello scheletro e della muscolatura di un genio. Questa la differenza tra il talento e il copista, tra Cody ChesnuTT e Lenny Kravitz. Tra chi nei decenni ingigantisce e chi, viceversa, scivola nel macchiettismo. Sì: davvero una splendida età, vent’anni.
Poco sopra accennavamo a una trafila non esattamente facile per chi nasce nell’ottobre 1968 ad Atlanta, Georgia. Il padre di Cody è un manager, perciò sin da giovanissimo il Nostro calca le assi del palco per fungere da spalla ad artisti gestiti dal genitore. Più grandicello, trasloca a Los Angeles lavorando come produttore e compositore per il marchio Death Row, mentre i Crosswalk – formazione capitanata quando già veleggia verso i trenta – firmano un contratto con l’etichetta Hollywood. Il problema è che, con un album già pronto, nel ’97 ai piani alti stracciano l’accordo e la band si scioglie.
Scottato dal lato oscuro dello showbiz, il ragazzo prende nota, impara la lezione e – come Stevie Wonder al conseguimento della maggiore età – decide che da qui in poi farà da sé. Reagisce a testa alta e si chiude nella cameretta di Valley Village, in California, dove ha allestito uno studio che battezza The Sonic Promiseland. Per due anni scrive e registra brani su un quattro tracce come se non ci fosse un domani, finché nel 2002 ritiene di averne a sufficienza.
Eccoci finalmente a The Headphone Masterpiece, tuttavia non crediate che siano rose e fiori. Fiducioso, ChesnuTT prova comunque a fare il giro delle etichette con il prodotto finito, che però viene percepito come un demo e di conseguenza rifiutato. Quando va di lusso, propongono di reinciderlo in maniera più professionale, al che lui si oppone fieramente sostenendo che così andrebbero perduti lo spirito e il significato dell’opera e getterebbe al vento un’esperienza di vita. Non può, ma soprattutto non deve.
Ha visto giusto, in realtà. Caparbiamente, nell’autunno di venti anni or sono Cody approfitta di internet per rendere disponibile il CD sul proprio sito tramite la griffe Ready, Set, Go! Dopo di che inizia a battere i locali losangelini per promuoverlo ed è esattamente qui la svolta: va in tour con gente del calibro di Macy Gray, Erykah Badu e i Roots, i quali capiscono al volo la bravura di chi hanno di fronte e nel fondamentale Phrenology lo convocano a rileggere il ruvido e ipnotico soul urbano The Seed.
Corredato l’omaggio con un video che MTV apprezza parecchio, The Seed 2.0 sparge la voce e The Headphone Masterpiece riesce a fare capolino nei Top 200 di Billboard alla posizione 128. Niente male per un disco fatto in casa, poco o nulla per qualcosa che sta per conquistare gli annali, ciò nonostante a fine marzo 2003 le copie smerciate sono venticinquemila, si trova una distribuzione in Europa e la critica più attenta spende elogi a raffica. Meritatissimi, dal primo all’ultimo.
Di primo acchito, The Headphone Masterpiece colpisce per l’elevato livello della scrittura – non solo in rapporto alla mole – e per una varietà di linguaggi che non scivola nella confusione. A distanza di tempo la caratura è cresciuta ed è lampante che un riassunto della musica nera di tale portata sia stato possibile grazie a una creatività che, tenendosi stretta la forma canzone, punta contemporaneamente al crossover e a un singolare “enciclopedismo sincretico”.
Il controsenso è solo apparente, poiché muovendosi nel perimetro di un black music indagata dalle origini fino alle più recenti evoluzioni, la scaletta arriva a lambirne i confini e oltrepassarli. Con approccio modernissimo, The Headphone Masterpiece tratta elementi storicizzati alla stregua di un canone, di un’enorme banca dati dalla quale attinge per creare ibridi di spiccata personalità. Dal caleidoscopio di influenze e rimandi emerge l’audacia – non di rado dolce e svagata, da qualche parte tra Beck e Shuggie Otis – con la quale gli ingredienti sono mescolati in un alveo lo-fi spigoloso però curato nei dettagli.
Di nuovo, ciò che in teoria è un ossimoro, nella prassi rappresenta la spinta (retro)futuristica che garantisce profonda intimità, poiché siamo catapultati dentro l’anima di un uomo eclettico, eccentrico e ironico che possiede una visione chiara della sua arte. L’esito è un’opera monumentale in grado di offrire spunti sempre inediti e chiavi di lettura fresche, a cominciare da un’estetica del frammento sviluppata tramite brevi e stralunati siparietti che, funzionali all’economia dell’insieme, sottolineano la vasta gamma di linguaggi affrontata nell’album.
A monte e a sostegno di tutto, canzoni solidissime che centrano un bersaglio dietro l’altro, dalla citata The Seed al trip hop scuro, oppiaceo e venato electro di With Me in Mind, dallo sculettare funk rock à la Jagger & Richards di Upstarts in a Blowout, ai Kraftwerk che si misurano con il protorap di Gil Scott-Heron per Bitch, I’m Broke. Ecco Serve This Royalty porgere un gospel contemporaneo in tentazioni jazz, Boylife in America inzuppare il folk nel soul, Daddy’s Baby cospargerlo di acido lisergico e My Women, My Guitars di blues.
Altrove, Up in the Treehouse profuma del Prince devoto ai Fab Four, Can’t Get No Betta’ trasporta Curtis Mayfield nel nuovo millennio e Family on Blast la imita con Marvin Gaye, laddove al festoso caracollare prossimo a B.B. King di When I Find Time risponde un’irresistibile Look Good in Leather che manda al tappeto Kravitz e Ben Harper, alle She’s Still Here e 6 Seconds scivolate dal versante lennoniano del White Album ribatte la The Band sovraccarica di melanina ed eccitazione di If We Don’t Disagree.
E ancora, con infinito piacere ti imbatti in sbilenchi languori (Smoke and Love, Somebody’s Parent, 5 on a Joyride), seduzioni da manuale (No One Will, Can We Teach Each Other, The Make Up), scintillanti stramberie che immaginano un Beck più nero che mai (Michelle, War Between the Sexes, The World Is Coming to My Party, Juicin’ the Dark). Vi avevamo avvisato che è un capolavoro, no?
Partito con il botto dopo una gavetta travagliata, è nell’ordine naturale delle cose che in seguito Cody adotti cadenze più rallentate. Molto meno che, fregandosene della fama, preferisca le gioie della vita familiare e della paternità al martellare un ferro sufficientemente caldo e inseguire il successo di massa. Anche se la mossa non è premeditata (ma vai a sapere) ben gliene incoglie, ché evita di bruciarsi le ali in un tentativo che non offre certezze.
Quando ormai non ci si sperava quasi più, il silenzio viene interrotto nel 2012 da un Landing on a Hundred che annerisce vistosamente il cocktail, mentre di lì a un lustro My Love Divine Degree conferma che la vera natura di Cody ChesnuTT appartiene al cavallo (pazzo) di razza. E se è vero che l’urgenza espressiva di The Headphone Masterpiece non può tornare, abbiamo in ogni caso un artista onesto che infonde il vissuto nella musica. Oggi come oggi, un’altra rarità.
Per lo stesso motivo, è saggio non abbassare la guardia e pensare di aspettarsi delle sorprese anche in una mezza età per certi versi “normalizzata” rispetto agli esordi, ma pur sempre di classe cristallina. Del resto i capolavori non nascono per caso, che siano o meno perfetti per le cuffie.