Stordirsi di malinconia.
La “bolla social” talvolta riserva belle sorprese. Spulciando le liste di ascolto degli amici fidati puoi imbatterti in nomi che non conoscevi e provare una gioia simile a quando setacciavi le recensioni sulla tua rivista preferita. Con il vantaggio di non dover attendere settimane per toccare con orecchio, ed ecco che quest’epoca avvilente qualche merito lo ha. Idem come sopra per quanto concerne la (relativamente) recente ondata di cantautrici, un panorama composito dove Sarah Beth Tomberlin – per comodità Tomberlin: nata nel 1995 e domiciliata in quel di Louisville, Kentucky, in epoche lontane tra gli epicentri del post rock – vanta un carattere a sé.
Una personalità autoriale solida e definita, tale da non far scomodare paragoni fastidiosi e, tutto sommato, inutili: più che un’altra Angel Olsen o la nuova Sharon Van Etten, è qualcosa di altro e migliore la ragazza che, al secondo album in quattro anni, esce dal ruolo di promessa tramite un folk scheletrico sul quale incastra con disinvoltura inquieta ambient urbana, lamine di elettronica umanista e spezie jazz.
Non contenta, si premura di scrivere favolose ballate dal retrogusto acido come Stoned: in un’epoca che rinuncia alle emozioni per i giochetti intellettuali, è il tipo di asso che incontri di rado e che impressiona per la profondità mai scontata, per un taglio malinconico sorretto da muscoli e nervi tesi, per la melodia irresistibile e una chitarra che la graffia indossando guanti di velluto. Se vi pare poco…