Ginnastica indie per allenare il cuore a spezzarsi meno facilmente.
Dana Margolin non si stancherà mai di sottolineare che i Porridge Radio sono diventati qualcosa giusto per sbaglio. Al punto che ora – quando è arrivato sul serio il momento di calare l’asso o abbandonare il tavolo a tasche vuote – non manca di ribadire le distanze dalla lunga, fiorente coda di giovani e ambiziose quanto verbose band britanniche che si prendono a schiaffi per trovare spazio nel calderone post-punk. Lo fa chiamando in causa, come sue principali influenze, arena-pop act come i Coldplay, o combo nu metal dal cuore emo come i Deftones. «Sono cringe come me», dice.
Scherza, ovviamente. Ma fino a un certo punto. Perché, se da un lato continua a valere il saggio consiglio “ricetta che vince non si cambia” dall’altro il sospetto che la loro versione della zuppa d’avena dolce, modulata in frequenza e tirata in faccia a una distesa di gente dentro uno stadio strapieno, funzioni addirittura meglio dell’ormai testata fruizione masturbatoria in cuffia che era toccata alle loro ultime fatiche, causa lockdown.
E allora ecco che gli allegri accordi tintinnanti appena bagnati in distorsioni giusto accennate diventano riff da sparare nell’amplificatore, pronti comunque a essere smentiti in tempo reale da un’anima nera che finisce per strangolarsi e rischiare di soffocare nel proprio sarcasmo. Il resto si materializza a partire da una frammentaria disorganicità lo-fi fino a disegnare forme intriganti di un suono più che personale, abilmente condito di parole e rumore che vanno a creare mantra meme-ready da urlare al vento con il sospetto di un sorriso sulle labbra, ma allo stesso tempo da buttare via prima che vadano a male.
Perché cercare una sorta di gioia attraverso la ripetizione è stata la chiave con cui la band di Brighton ha messo a tacere le proprie (e le nostre) paure fin dall’inizio. E d’altro canto l’indie inglese D.O.C. si è contraddistinto nei secoli dei secoli per un certo tipo di sdolcinato magnetismo, una tristezza a metà che sa esattamente dove tracciare la linea oltre la quale finisci per compatirti troppo, e quindi risultare ridicolo.
In altri termini: l’esistenzialismo è complicato da fare a vent’anni, ma è anche vero che quello è l’unico momento in cui l’esistenzialismo ti può salvare la vita. E soprattuto, vale la pena ricercarlo quando suona bene così. The Rip lo conferma: un cuore in frantumi, che fa male in tutto il resto del corpo, la nostalgia di rifare scelte sbagliate e chili di rabbia da sputacchiare in faccia alle maschere di cartapesta dei tuoi fantasmi. Scappare all’infinito, come su un tapis-roulant, realizzando che correre fa sempre bene, anche dalla parte sbagliata, e che gridare una volta ancora «and now my heart aches» è un atto di coraggio, non solo fonte di sollievo. Perché ogni ritornello è una terapia. O una dichiarazione di guerra. In questo caso, entrambe.