Camere d’infanzia che sanno di deathgaze e ricordi.
Strutturato attorno a una storia scritta dal batterista Sean Lang, Liminal Rite, secondo lavoro degli americani Kardashev, racconta di un uomo anziano – chiamato solo The Lost Man – la cui esistenza quotidiana si sta lentamente allontanando dalla sua realtà, verso un mondo sempre più distante (e paradossalmente simile) al nostro, dove i ricordi e le visioni rimbombano nella sua casa d’infanzia.
«I am a pilgrim and oh, I am lost / The past that I loved has been molded and mossed / A ghost in the window, a ghost on the lawn / And oh, how I miss it when certainty won».
La band è in una forma assolutamente ineccepibile in questo meditabondo e violento album, che brilla sia per i suoi tasselli che per la sua omogeneità tutta. Sostenitori (e come dicono i più sensazionalisti, progenitori) del deathgaze, mescolano death e black, shoegaze e ambient in una miscela inebriante che è muscolosa e aggressiva quanto è aggraziata e quasi dolorosamente bella. Punti di riferimento visibili qua e là ma impossibili da incasellare: gli Opeth, i Rivers of Nihil, i Between the Buried and Me e molti altri, ma poco importa.
Gran parte del merito di questo deve andare al follemente talentuoso frontman Mark Garrett, capace di spaziare dal tipico timbro deathcore a quello più meditabondo dello shoegaze e spingendosi ancora oltre, offrendo un comparto malinconico e straziante al tutto, latrati post-hardcore compresi.
Glass Phantoms, uno dei pezzi più convincenti del disco, si nutre proprio di questo assunto e di questa caratteristica principale per brillare all’interno di un percorso di sicuro impatto (non solo emotivo). Blast beat, riffoni segmentati, atmosfere post-metal: quelle cose lì, insomma, ancora una volta. Ma qui vi sfidiamo a non trovarci dell’eleganza, del senso, del gusto. Musica, questa, che non dimenticheremo facilmente.