Quando il passato è qui ed è ora.
Nella popular music, una legge non scritta stabilisce che si possa giudicare una band dalle cover. Così è per i canadesi Cowboy Junkies, che nella seconda metà degli anni ‘80 debuttavano con un album in cui otto brani su nove erano pescati dal repertorio altrui e, allo stesso tempo, venivano trasfigurati applicando al country e soprattutto al blues un approccio slowcore fino ad allora inaudito. Ricetta che Margo, Michael e Peter Timmins hanno condotto a perfezione nel successivo capolavoro The Trinity Session e da allora hanno mantenuto scansando i clichés.
Lungo il percorso, la loro identità è emersa con forza anche nei momenti in cui si sono confrontati con un passato più o meno recente e prestigioso. Un meccanismo che, a pensarci bene, nel rock esiste dal giorno uno e di ciò i Nostri sono consapevoli. Parliamo pur sempre di chi si cimenta con Lou Reed e Patsy Cline, Vic Chesnutt e Townes Van Zandt e nel 2022 pubblica un disco di rifacimenti intitolato Songs of the Recollection, che non a caso gioca sui concetti – così simili anche nella lingua inglese – di “collezione” e”ricordo”.
Gesto altamente significativo, insomma, che conosce l’apice in un gioiello in cui i Cure camminano in praterie della mente seguendo un passo catatonico e una fascinosa, ruvida post-psichedelia. Un tappeto di meste dissonanze dove un partecipato distacco da ossimoro diventa fulgida realtà e dove il dramma risulta essere più interiorizzato che soffocato. Quella che si chiama una lezione di stile.