Ritrovarsi maturi, di nuovo.
Ovvero: storia di un’ispirazione ritrovata. A Bill Callahan è servito tempo per conquistare un’altra maturità dopo gli Smog, il “paravento” dietro il quale si è nascosto – ma soprattutto distinto – negli anni ‘90 come un Leonard Cohen della Generazione X. Da poeta che racconta l’amore e la vita con occhi pieni di sarcasmo e umorismo senza rinunciare alla dolcezza, si è misurato con la propria consolidata cifra stilistica, facendo i conti con la tradizione lungo una serie di album che nella loro scostante umoralità indicavano una ricerca di sé.
Alla fine, YTILAER (che sta per “reality” al contrario: sempre spiritoso, il nostro uomo) centra il bersaglio recapitando un lavoro in cui ogni ingrediente è dosato con attenzione, con arrangiamenti scarni però puntuali e uno standard compositivo a livelli elevatissimi. Non butti via nulla, qui: non il blues prebellico attualizzato à la Nick Cave, non le ipotesi di un Five Leaves Left trasferito a Nashville, non ballate che trovano la quadra tra Fred Neil, Johnny Cash e Lee Hazlewood, non le canzoni che colmano la distanza tra Lou Reed e Jeff Mangum.
Infine, è un songwriter riconoscibile a imporsi e dimostrare di possedere di nuovo il senso di necessità che dovrebbe sempre legare l’autore ai dischi e la naturalezza e la spontaneità necessarie a renderli importanti. Da un’opera convincente come non ne sentivamo da Wild Love, peschiamo una Lily tanto più travolgente quanto più si porge scarna e confessionale. Bentornato, amico.