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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Il pop adulto dei Belle and Sebastian

Musica leggera, ma non leggerissima.

Può esistere un pop che sia insieme lieve, contemporaneo e che affronti tematiche “mature”? Dopo una carriera trascorsa a raccontare se stesso attraverso gli altri, oggi Stuart Murdoch ci spiega come ha trasformato in realtà un apparente ossimoro.

In che senso, musica leggera?

Sembra incredibile, ma c’è stato un tempo in cui “pop” era una parolaccia, anche se non di quattro lettere. Ci riferiamo a un’epoca nella quale l’ortodossia rockista era dura, pura e rigida da incrinarsi al minimo azzardo. Il problema, per troppe persone, stava nel malinteso in base al quale la musica leggera veniva ritenuta “vacua”, tralasciando del tutto la levità che all’opposto rappresenta una forza propulsiva con la quale osservare il mondo e racchiuderlo in preziosi gioielli da tre-minuti-tre.

Perché, diciamolo tranquillamente e al di là della retorica a buon mercato di certe emittenti radiofoniche, l’autentico “spirito” del rock sta nell’osare, nello sperimentare, nell’uscire dagli schemi con stile. Significa fabbricare regole nuove se quelle che abbiamo a disposizione non funzionano più, e non è forse ciò che il pop di nobile rango va facendo da sempre?

Tornando al punto e a quella sorta di medioevo della mente, il vocabolo – contrazione di popular croccante e gustosa come un 45 giri dei Kinks – era perfino sinonimo di essersi venduti. A chi, a cosa? Di nuovo, ecco un pericoloso equivoco con il quale tuttora facciamo i conti: l’arte è un passatempo e chi la produce campa di astratte soddisfazioni morali. Figurarsi…

Per smentirlo – e smascherare l’ipocrisia e la supponenza che vi stanno a monte – basterebbe citare i Beatles, che hanno dato il via alla giostra e scritto la storia smerciando genialità sin nei più remoti angoli del pianeta, eppure tanti continuano a non capire.

E il proliferare di meme a tema ne è la più tragica testimonianza.

Per fortuna, il panorama inizia a mutare verso la fine degli anni Ottanta: la chiave delle sonorità più interessanti è “contaminazione” e il bellissimo meticcio che ci accompagna dalla metà dei Fifties non la smette di ibridarsi. Di lì a poco ne avremmo viste delle belle: tra svariate altre cose, i muri di una travisata purezza venir giù con un tonfo scandito da chitarre imbracciate da un disagiato del nordovest americano, da sonorità nere che si mischiano alle bianche e viceversa tramite il ritmo, dal rumorismo imbrigliato nella melodia.

Giusto per elencare solo alcune delle rivoluzioni avvenute nell’ultimo annus mirabilis della nostra musica, che passano attraverso la voglia di allargare il campo e puntare verso orizzonti più ampi. Verso una pronunciata sensibilità pop, anche, che nel caso di capisaldi come Blue Lines e Screamadelica si spinge al di là delle forme e consegna mezzi di comunicazione anticonvenzionali e raffinati, organismi melodici che entrano in testa lasciando tracce tanto subliminali quanto indelebili.   

Tanto per non far nomi, come succedeva con Burt Bacharach e Lee Hazlewood o Ray Davies e Lennon & McCartney, però sfruttando un momento in cui espansione fa rima con sperimentazione, in un’altra svolta epocale. Nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti, il pop funziona ancora come una spugna: nasconde la complessità sotto una scorza elementare, assorbe ciò che gli ruota attorno e ne rilascia visioni, epifanie. Non si limita a plasmare lo Zeitgeist, ma vi si intreccia e lo incarna. 

Nel marasma dell’attuale sovrapproduzione, canzoni che compiono quel tipo di miracoli ne esistono. Anche se ogni sfumatura rappresenta un canone consolidato, il pop d’autore non cede alla fossilizzazione né ai luoghi comuni, ma preferisce attingere da un’enorme “banca dati” per espanderla con inventiva e passione. Ebbene sì: un pop (im)puro per gente di oggi matura è possibile. A modo loro, i Belle and Sebastian lo dimostrano.

Scegliere le piastrelle senza fartela pesare è un lavoraccio da adulti.

Songwriting e storytelling

Abbiamo chiamato in causa Ray Davies perché incarna il capostipite dei narratori pop “made in U.K.”: la dinastia che con naturalezza ti trasporta dentro mondi in tutti i sensi fantastici. Non c’è differenza tra la finestra dalla quale vediamo Terry e Julie incontrarsi alla stazione di Waterloo e la sensazione quasi materiale di trovarsi per le strade di Glasgow in primavera. A un certo punto capisci che è inverno, sei mollemente adagiato sul divano e nello stereo girano The Boy with the Arab Strap e Something Else by the Kinks.

Il bello è che lo riconosci come un sogno a occhi aperti e va bene così, perché è una magia che fa stare meglio. Perché sai che, in un certo senso, è anche tutto vero quando raccontare storie e scrivere canzoni sono indistinguibili. Quando le vite degli altri diventano la tua e d’un tratto ti senti meno solo. Basta un talento che fabbrica la finzione dal reale e viceversa, tagliando e cucendo finché non ha qualcosa di suo. Qualcosa che poi diventa patrimonio comune trasformando il particolare in universale.

Oltre alla cura e alla pacatezza – quasi un’educata, guardinga ritrosia – con la quale si porgono, la prima cosa che colpisce dei Belle and Sebastian è la capacità di “vivere” l’universo che essi stessi hanno creato. Un luogo verosimile come un desiderio dove in toni pastello si mescolano promesse malinconiche, copert(in)e di Linus memori degli Smiths, vignette alla Charles Schulz, pagine di dignità letteraria. Un immaginario che profuma di intimismo colto tra mattine rinfrescate dalla pioggerella, ragazze della porta accanto che somigliano ad Anna Karina e tu che le saluti incespicando, timido e fischiettante.

Tipo che la gente su Reddit poi ci fa i mash-up.

Se avete pensato a un Ecce Bombo in versione indie girato da Mike Leigh, beh, è proprio lì che intendevamo andare a parare. Quella dei Belle and Sebastian, infatti, è musica squisitamente postmoderna nella maniera in cui è stato possibile concepirla e realizzarla dagli anni Novanta in poi, attingendo da decenni di capolavori ma speziando la ricetta con un pizzico di (auto)ironia e dando importanza e risalto a ogni elemento, dall’impianto compositivo alla profondità testuale, passando per l’apparato grafico, la cura degli arrangiamenti, le citazioni e i rimandi che costituiscono un valore aggiunto.

Nel caso di Stuart Murdoch, ispirazione e classe abbondano e, da materiali estetici ampiamente codificati, forgiano un’originalità che sintetizza il già esistente. Non si tratta di un controsenso: casomai, del segreto di una bellezza che arriva al cuore e al cervello. Incappare in stilemi e copie malriuscite resta comunque un rischio. Non basta volere: bisogna potere. Stuart può, eccome.

Io può.

Può prendere il suono della giovane Scozia – in special modo, il versante elettroacustico melanconico e sognante devoto ai Love e ai Velvet Underground del terzo LP – e donargli un respiro cameristico. Può avvolgerti nelle pieghe della tradizione folk rock dei Sixties, può meditare con i chiaroscuri di Nick Drake e la tavolozza di Donovan, può cimentarsi con glam e northern soul, tecnologia e lounge, bossanova e beat acido.  

Lo ha fatto dipanando un romanzo nato quasi per caso, che trae il nome da una serie di volumi della scrittrice francese Cécile Aubry, attestando una vera e propria vocazione. Fateci caso: i titoli dei brani e degli album dei Belle and Sebastian viene spontaneo immaginarseli sulla carta stampata, ed è non meno azzardato pensare Murdoch seduto dietro una macchina da scrivere Smith-Corona Sterling con in mano una tazza di tè fumante, pronto per spiccare il volo.

Nel frattempo i fan aumentano e il romanzo si mantiene vivo, tratteggiando il ritratto di un Dorian Gray sul cui volto affiorano le rughe. Differenza non da poco, siccome il fascino sta esattamente nel percepire la metamorfosi e non temerla, nello schivare la perfezione immutabile che sa di fasullo e di artefatto. Di conseguenza, le cartoline di giovinezza della trilogia iniziale, dove If You’re Feeling Sinister e The Boy with the Arab Strap si collocano a vertici irripetibili, lasciano spazio a strutture più elaborate.

Senza snaturarsi, il meccanismo ha raccolto esperienze e suggestioni e prosegue il cammino anche se ogni tanto divaga, inciampa, perde qualche pezzo. Siamo umani, sono cose che capitano. Nel frattempo, il pop scandisce e illustra la vita. Meno male: sai che noia, altrimenti.

Tipo questo è stato un pezzo doloroso da perdere, ma tant'è.

Il bello di sentirsi di mezza età

Nonostante tutto, è impossibile restare chiusi in cameretta per sempre. A un certo punto tocca affrontare il mondo, sporcarsi le mani, farsi del male. Questo è uno dei messaggi dell’ultima fatica degli scozzesi, A Bit of Previous, registrata nella città natale a causa della pandemia. Non accadeva dal 1999 e piace pensare che sia un caso solo fino a un certo punto, poiché ci sono momenti in cui hai bisogno di un riparo, di un rifugio, di una casa.

Metaforica o meno, è lei ad aver benedetto il miglior LP dei Belle and Sebastian da una dozzina di stagioni. In ogni caso, la questione è un’altra, ovvero che A Bit of Previous poggia le proprie fondamenta sulla presa di coscienza dello scorrere dei giorni e di ciò che questo comporta, dolori fisici e dell’anima inclusi. Perciò, grazie alla padronanza con la quale il songwriting e lo storytelling di cui sopra si sposano, si fa applaudire per intarsi tra parole e suoni che si sorreggono e commentano a vicenda.

Dopo troppo tempo a casa però il rischio scottatura alla prima vacanza è molto alto.

È l’ennesimo gesto coerente della band guidata da chi ha iniziato a riempire quaderni di canzoni durante un vuoto di sette anni, mentre era affetto dalla sindrome da affaticamento cronico. Dell’uomo che, all’alba del 2022, apre un album con la lucente Young and Stupid, affermando di essere vecchio e con le ossa che scricchiolano. Attenzione, però: non è un’ammissione di decrepitezza e del sentirsi fuori luogo nell’arena di un genere che, di norma e sbagliando, supponiamo condannato a perenni languori adolescenziali. Si tratta semmai di una dichiarazione di intenti.

Prima ancora, del mettersi allo specchio di un artista che guarda attorno a sé e dentro l’animo dell’ascoltatore. Di chi prova nostalgia perché è naturale, specie se nel corso della carriera ha intinto spesso il pennino nella tristallegria. Con estrema onestà intellettuale, Murdoch ha capito che, per essere credibile, doveva frantumare la bolla di vetro della propria comfort zone. Per forza di cose, non può più essere lo stesso ragazzo del 1996 e ne è pienamente consapevole.

E infatti non ne fa mica un dramma.

Del resto, sa benissimo di avere una sola vita a disposizione e che aver superato mezzo secolo (il prossimo agosto compirà cinquantaquattro anni, in grandissima parte spesi con i Belle and Sebastian) rappresenta un traguardo colmo di significati. Per quanto lo riguarda, ha altro da dire. Non è una rockstar, ma uno scrittore di razza e dunque non ti suggerisce di essere attuale. Lo è e basta, esattamente come il pop.

Per questo – e per la freschezza compositiva, l’acume, la levità – i Belle and Sebastian sono un “concetto” invecchiato benissimo. Anzi, non sono invecchiati affatto: conquistata una posizione indenne al tempo, sono diventati adulti e, da esperti acrobati, tengono un piede nel presente e uno nell’eternità. L’augurio è che possano farlo più a lungo possibile. 

Belle and Sebastian Stuart Murdoch Isobel Campbell 

↦ Leggi anche:
Isobel Campbell: Ant Life

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