Arthur Lee era un genio in grado di creare e distruggere la bellezza con la medesima nonchalance. Per questo motivo la sua è una storia amara da raccontare. Una storia sbagliata redenta da musiche meravigliose e un capolavoro assoluto.
A volte bisogna mettere le mani avanti e spoilerare. Scusandoci per l’orrido neologismo, nell’ipotesi che per qualcuno Arthur Lee rappresenti un nome poco noto, vi informiamo che lui e Bryan MacLean non escono benissimo dalla vicenda che li lega. In special modo chi - tutt’uno di genio e sregolatezza - dei Love fu fondatore e leader. Recriminazioni, accuse, diatribe, caos, opportunità e talenti gettati, individui che diventano l’ombra di sé stessi sono il retroscena di una musica sublime.
Faccende dure da mandar giù ci ricordano che c’è sempre un lurido prezzo da pagare e che per quei due nulla può più essere fatto, tranne celebrarne le gesta artistiche e chiudere il più possibile un occhio sul resto. A volte sul serio galantuomo, in questo caso il tempo sottolinea l’attualità di uno stile unico, il suo collocarsi fuori da qualsiasi epoca per vantare eccellenti seguaci: Aztec Camera e Belle & Sebastian, Boo Radleys e Orange Juice, Calexico e Mojave 3, Pale Fountains e Stone Roses. Giusto per non fare che qualche nome.
Eppure il mercato non ha premiato i Love, che probabilmente erano e saranno sempre troppo raffinati. Un’assurdità, pensando al prototipo di band multirazziale, a una figura che Jimi Hendrix prenderà a esempio non solo nel look, al rock intinto in folk, jazz e pop con attitudine modernissima e classe suprema. Al contrario, gloria postuma e basta. Per tempismo mancato, malasorte, incapacità nel gestirsi o perché deviare il destino è un’impresa persa in partenza. Però di quelle da affrontare a ogni costo, ché di culti c’è sempre bisogno.
Ci sentiamo rinfrancati sapendo di appartenere al circolo che conosce a memoria Forever Changes e ciò nonostante lo ascolta almeno una volta alla settimana. Del resto l’amore è il sentimento più elevato, segue regole proprie e racchiude in sé qualcosa di molto simile alla trascendenza, suscitando comprensione verso gli esseri umani e le ore buie. Forte, duraturo e disperato, ti persuade che la vita consista in una ricerca di equilibri spesso più mancati che raggiunti. Che sia davvero un eterno mutare.
In retrospettiva, la grandezza dei Love sta in un bandolo di fili differenti – bianco e nero, maschile e femminile (non a caso uniti nella “o” del logo, ideato da William S. Harvey), estasi e angoscia – legati con una magia che dura finché un bianco altoborghese e un ragazzaccio della periferia vanno d’accordo. Spezzata l’interazione, uno si ritirerà a vita privata e l’altro affonderà nell’insicurezza dettata dal sentirsi fuori posto, sudista trapiantato in California e meticcio intrappolato tra il razzismo dei visi pallidi e il sottile disagio provato accanto ai Fratelli.
Non che amasse ingraziarsi il prossimo, il cocciuto e sospettoso accentratore che innalzava muraglie verso chiunque e – la droga a rovinarlo – andrà infine a pezzi. Stiamo però correndo e urge tornare al 7 marzo 1945, quando Arthur Porter Taylor nasce a Memphis in una famiglia che soggiorna nel Tennessee cinque annetti e, nel momento in cui la madre si risposa con un carpentiere che di cognome fa Lee, trasloca in un sobborgo di Los Angeles, dove il Nostro alterna tranquillità e monellerie e per calmarlo lo mandano a lezione di pianoforte.
Mostra subito capacità non indifferenti che sbocciano in ossessione alle superiori, mai terminate giacché riallaccia i contatti con l’amico d’infanzia Johnny Echols, come lui chitarrista appassionato di blues e compagno fedele lungo un apprendistato di complessi che non lasciano traccia fino ad Arthur Lee & The L.A.G.’s, intestatari nell’estate ‘63 di un singolo di soul strumentale. Dopo di che cambiano sezione ritmica (John Fleckenstein al basso, Don Conka alla batteria) e, ispirati dalla British Invasion, si trasformano in American Four per altri fiaschi a 45 giri.
Eccoci al 1965. I Beatles hanno stimolato orde di giovanotti a elettrificare il folk, i Rolling Stones reinventano le dodici battute, Dylan suscita le ire dei puristi e la critica coccola i Byrds. Lo scenario di L.A. sta mutando alla svelta, i vecchi club lasciano il posto a locali dai nomi immaginifici dove Lee ed Echols si illuminano davanti a Jim McGuinn e decidono di innestare la formula “folk elettrico e armonie vocali” sul proprio retaggio rhythm & blues.
A quelli che adesso si chiamano Grass Roots manca solo un tassello: diciotto mesi più giovane del leader, Bryan MacLean è cresciuto nel jet set di Beverley Hills a digiuno di rock’n’roll e prediligendo jazz e classica, che si rivelano utili per approdare a un gusto melodico raffinato senza leziosità, smussare certi angoli ruvidi e introdurre climi, cadenze e accordi inusuali.
Universi complementari, per l’appunto. Da par suo, dopo la sbandata per A Hard Day’s Night, Bryan ha salutato la scuola e lavorato come roadie per i Byrds. La circostanza è provvidenziale, siccome Lee vuole un secondo chitarrista per rafforzare l’impatto. Dopo la breve permanenza di Bobby Beausoleil, poi invischiato nella tela di Charles Manson, il “ragazzo copertina” entra in un gruppo che inizia a essere chiacchierato.
Una sera il produttore Lou Adler offre un contratto, ma l’abboccamento termina in litigio e presto nella sua scuderia compaiono altri Grass Roots. Non essendoci denaro per intentare causa, Arthur ribattezza un’ultima volta il quintetto. Tanto per cambiare, c’è da percorrere ancora una strada accidentata di manager poco capaci, demo sfocati e un Don Conka schiavo della droga. La band è in uno stallo che spezzerebbe le gambe a chiunque.
Invece, quando a Fleckenstein subentra Ken Forssi portandosi il batterista Alban “Snoopy” Pfisterer, l’ensemble si compatta e viene notato da Jac Holzman della Elektra. In cerca di nomi per rinfrescare la scuderia, si reca a vedere una ghenga che tutti incensano e non crede ai suoi occhi: un minaccioso nero cavalca con quattro teppistelli una tempesta hard beat intervallata da oasi elettroacustiche. Per scritturarli basta e persino avanza.
Inciso alla fine del gennaio ’66 e fuori in marzo, l’omonimo esordio ha come unico difetto quello di restituire solo in parte la carica sprigionata sul palco. Peccato veniale comunque assente da una strabordante Hey Joe affidata a Bryan e dal sensazionale garage-folk venato R’n’B My Little Red Book, cover di Burt Bacharach dove Echols infila un ingegnoso passaggio da minore a maggiore e il basso, minimale ma implacabile, sostiene la voce di Arthur in un frenetico mulinare chitarristico.
Da applausi anche la fusione tra Who e Stones Can’t Explain e una romantica A Message to Pretty, il flessuoso saliscendi di MacLean Softly to Me e i Byrds chez Motown di No Matter What You Do, la rabbrividente ombra blues Signed D.C. e il mesto incanto Mushroom Clouds, i toni pastello di Colored Balls Falling e l’irruenza stilosa di My Flash on You. Benché sorgano contestazioni sui meriti, Lee si accaparra la quasi totalità della scaletta e l’Elektra crede nei ragazzi al punto da pubblicare l’LP in una copertina colorata che per l’epoca rappresenta un lusso.
Mentre sembra che nulla possa fermare i Love, la line-up è allargata (Pfisterer si sposta alle tastiere ed entra il fiatista di colore Tjay Cantrelli) pur rinunciando a tournée nazionali ed esibizioni televisive. La scelta è pagata in termini di mancata esposizione e vendite allorché spuntano formazioni che hanno raccolto il messaggio di My Little Red Book, tipo i Sons of Adam, cui si offre la scintillante Feathered Fish in cambio del batterista Michael Stuart. Quanto l’evoluzione abbia a che vedere con la comparsa dei Doors, spinti nelle braccia dell’etichetta dallo stesso Lee, non è dato sapere. Certo è che una band più incline ad approfittare dei media sottrae spazio provocando un fatale contraccolpo psicologico.
Nell’autunno ‘66 l’ensemble è in studio con il produttore Paul Rothschild e, anticipato dal raffinato proto-punk Seven & Seven Is, a nove mesi dal debutto Da Capo straccia i pronostici con perle lisergiche, jazz muscolare e suggestioni classicheggianti. Stephanie Knows Who è un valzer tagliente di sax e clavicembalo, Orange Skies si porge con complessa grazia, l’abbagliante Spagna della mente Que Vida! disegna euritmie che Seven & Seven Is spezza e ricompone, spianando la via al fratturato flamenco (a proposito di Doors, confrontatelo con Spanish Caravan) di The Castle e alla delicata, malinconica She Comes in Colors.
Giri il vinile e Revelation concentra in diciannove minuti una policroma jam acid blues che dal vivo lambisce la mezz’ora, decollando da citazioni di Bach verso robusti accenni raga e traiettorie coltraniane per poi tornare al barocco. Tra i primi brani a occupare un’intera facciata, è ampiamente superiore alla Goin’ Home con la quale i Love sono battuti sul filo di lana dai Rolling Stones, ispirati dall’aver visto i californiani in azione. Ennesimo smacco, ma nulla in confronto a ciò che sta per arrivare.
Quando hai toccato il fondo, se ancora non hai iniziato a scavare puoi reagire e trasformare un abisso in splendore. Questa la condizione dei Love in un’estate dell’amore che per loro ha contorni sbiaditi: niente concerti, scarso riscontro commerciale per Da Capo, qualcuno che abbandona (Cantrelli, Pfisterer) e tutti che sono preda di tossici vizi. Rinchiuso in una villa di Mulholland Drive, un capobanda dispotico e bastian contrario rifiuta qualsiasi regola.
Alla fine, però, la negatività genera il capolavoro. Arduo stabilire dove si nasconda la chiave di Forever Changes, e forse è più saggio accettare che esistano svariati livelli di lettura e che non ci sia da capire ma da sentire. Cercando un’interpretazione, è utile considerare la cartella clinica di chi – a differenza di Brian Wilson – il suo Smile lo consegna fatto e finito, perché sa che resta un’ultima carta per immortalare ciò che ha in testa.
Lee e MacLean si incontrano a comporre brani con le chitarre acustiche, nel giugno 1967 iniziano a incidere e gli altri sono così malmessi che Bruce Botnick convoca i membri della Wrecking Crew di Phil Spector. L’umiliazione li porta alle lacrime ma scatena anche un’impennata d’orgoglio: nel giro di qualche settimana arrivano le tracce sulle quali l’arrangiatore David Angel, già con Frank Sinatra, guida l’orchestra seguendo non di rado le partiture cantate da Arthur, per l’occasione deciso ad accantonare l’elettricità.
Non potendo competere con il muro di watt hendrixiano, cambia pelle un’altra volta e Forever Changes entra negli annali con arrangiamenti orchestrali integrati in modo perfetto alla strumentazione rock. Forte di una scrittura epica senza cadere nella retorica e intessuto di umori dall’onirico al teso, l’affresco fa convivere pop e folkedelia, Burt Bacharach e Herb Alpert, archi classici e fiati mariachi in strutture ardite e dense, tuttavia sempre spontanee nell’ideazione e nello sviluppo.
Ogni brano è una gioiello, dalla maestosità sgusciante di The Daily Planet all’eccentricità con metodo di Bummer in the Summer, passando per la ruvida cavalcata A House Is not a Motel e l’inquietante filastrocca The Red Telephone. Se The Good Humor Man He Sees Everything Like This introduce acidi nel corpo di Bo Diddley, Live and Let Live racchiude l’America in cinque minuti di sarcastica oppressione, Andmoreagain è un accorato bagliore e in Maybe the People Would Be the Times la voce rincorre gli ottoni e vi si mescola in un’innodia celestiale.
Alla superba interpretazione vocale di Lee, che associa a ogni composizione un io narrante come farà Marvin Gaye in What’s Going On, MacLean risponde con la magnificenza morriconiana di Alone Again or e il leggiadro folk da Broadway Old Man. A fondo corsa, l’articolata, immane epopea fra tristezza e celebrazione di You Set the Scene sigilla uno straordinario universo magicamente capovolto.
C’è un’ulteriore spiegazione per la sua sapiente alternanza di atmosfere: in alcune interviste, Arthur ha sostenuto che credeva sarebbe morto di lì a poco e che i testi di Forever Changes rappresentassero una specie di testamento spirituale. Non andrà esattamente così, eppure tra parole e musica avverti una distanza che a poco a poco si colma dentro un cristallo di riflessioni acide però lucidissime su una realtà di morte, violenza e oscurità.
Ennesimo valore aggiunto di un abbraccio di corde, voci e orchestrazione che trasporta in dimensioni ultraterrene, ineffabili e cangianti (leggete il titolo del disco di seguito al nome della band: avrete un indiscutibile “l’amore muta sempre”). Superfluo annotare che se ne smercino poche copie in patria, laddove il Regno Unito gratifica l’album con la ventiquattresima piazza. Dettagli: quel che conta è l’enorme pezzo del cuore che Forever Changes ci ha rubato. In eterno.
Sommità che spazza via ogni cosa, Forever Changes, compreso un gruppo che da qui in poi diventa il paravento di Lee e assortiti comprimari. Dopo un disastroso tour Bryan sbatte la porta, Echols e Forssi suggeriscono una sterzata hard rock e il capo li licenzia in tronco prima di consegnare Your Mind and We Belong Together / Laughing Stock, stralunato sortilegio a 45 giri che nel settembre ’68 getta un ponte tra i Love che erano e quelli che non saranno. Lo si racconta in parte di un album del quale rimangono il titolo, Gethsemane, e voci di nastri rifiutati e bruciati da Lee.
Mentre costui è un Icaro in caduta libera, Bryan sceglie il fervore religioso e condurrà una vita ordinaria fino al giorno di Natale 1998. Cinicamente, verrebbe da affermare che sia andata peggio all’amico/nemico, un sopravvissuto che può soltanto rincorrere quando aveva costantemente precorso. Eppure all’inizio convince, quando nel ’69 si accasa alla Blue Thumb salutando l’Elektra con il pregevole Four Sail.
L’ultimo guizzo – un sarcastico omofono di for sale: “in vendita” – ispessisce il suono con destrezza (August, Good Times), concede peculiari pastiches beatlesiani (Robert Montgomery, Your Friend and Mine) e Stones macerati nell’LSD (Singing Cowboy), ardenti trasparenze (Always See Your Face) e jazz latino (I’m with You). Al di là dell’esito, che l’uomo si ribattezzi “Arthurly” ne rende appieno il crollo e idem il successivo Out Here, viceversa appesantito da prolissità e brutture tranne per l’acustica Listen to My Song e le folkedeliche Gather Round e Willow Willow.
Una collaborazione con Jimi e Steve Winwood cade nel vuoto e l’unico superstite, l’hard blues Everlasting First, non riesce a salvare False Start dalla piattezza. Mentre Lee insegue un’idea di funk stradaiolo, isolamento e stupefacenti prendono il sopravvento e nel ’72 il passaggio alla A&M si risolve nel manierismo di Vindicator. Sfumata l’occasione di un’etichetta fondata da Rothschild causa immediato fallimento, nell’inverno 1975 si fa avanti la RSO, ma quando l’abortito Black Beauty riaffiora nel pessimo Reel-to-Real è chiaro che un abisso ha inghiottito il genio.
Il dovere di cronaca impone di citare in fretta la decadenza artistica, le pistole puntate in faccia agli amici, Bruce Botnick che sul Sunset Strip urta un barbone ed è Arthur, i pochi dischi nella notte senza fine degli anni ‘80, in cui peraltro il Paisley Underground rispolvera la psichedelia e dei Love si ricomincia a parlare. Per qualche novità tocca aspettare il 1992 e l’apprezzabile Arthur Lee and Love, preludio ad altre follie, a ingiustizie e all’autocelebrazione.
Tutto insieme incoerentemente: i concerti europei in cui si riacquistano verve e lucidità e la cronaca nera. Nel ‘95 Lee tenta di incendiare l’appartamento di una ex, è colto in flagrante ed esce su cauzione. Un anno dopo lo accusano di aver sparato contro un vicino: mai chiarite le circostanze, gli affibbiano dodici anni e, grazie all’appello intentato dalla moglie, ne sconta la metà.
Merito di lunghi giorni per riflettere o della consapevolezza di averne combinate troppe, chissà. Fatto sta che pare quasi rinato chi nel 2002 esegue Forever Changes in giro per il mondo, ragion per cui potresti confidare in una tranquilla vecchiaia. Tuttavia nulla è andato per il verso giusto nella vita di Arthur Lee, che si spegne il 3 agosto 2006 per una grave leucemia.
La cronistoria termina là dove tutto è iniziato, a Memphis. Da leggendario veggente, il Nostro aveva già capito tutto con abbagliante nitidezza in You Set the Scene: «L’unica cosa di cui sono sicuro / è che ogni cosa che vive morirà / e ci saranno sempre persone che si chiederanno perché / e per ogni allegro ciao ci sarà un addio.» Gran mistero la vita, e ogni tanto anche la morte.