Ritorno alle origini, anzi alle iniziali.
Dopo una seconda stagione di lavori solisti qualitativamente buoni ma che finiscono per saturare il mercato, il Clan decide di tornare alle sue origini: via la magnificenza produttiva (e un po’ autoriferita) di Wu-Tang Forever, via tutto quello che non serve.
Sono anni in cui l’hip hop più radiofonico si contamina maggiormente, incorporando ritmi più ballabili e melodie più cantabili, mentre quello più sperimentale (giro Anticon e simili) tende ad astrarsi. RZA e compagni, dal canto loro, scelgono di asciugare il più possibile e tornare a un minimalismo che si concentri sull’ossatura portante dell’hip hop: basso e batteria, ritmo e flow. Nel farlo si aprono anche a collaborazioni esterne quanto mai prima d’ora. Una virtù che nasce dalla necessità, visto che durante la registrazione dell’album Ol’ Dirty Bastard è in carcere – e così benvenuti Snoop Dogg, Nas, Redman e Busta Rhymes.
Non che il tutto si risolva – in The W – in un mero passatismo nostalgico. I fasti dell’esordio del Clan sono guardati con zero rimpianti e retromania, ma con orgoglio delle proprie origini – come nel contagioso funk di Protect Ya Neck (the Jump off) – e senza rinunciare a guardare il futuro. Basta vedere, ad esempio, gli intriganti glitch su ritmica canonicamente boom bap di un pezzone come Careful (Click, Click), o gli inquietanti archi cinematici di Redbull.