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Ol’ Dirty Bastard: Brooklyn Zoo
Return to the 36 Chambers: The Dirty Version – 1995

Ol’ Dirty Bastard
Brooklyn Zoo

Frankenstein rap.

Se Method Man è il talento più immediato del Clan, Ol’ Dirty Bastard è sicuramente quello più inafferrabile e imprevedibile. Il suo flow è un Frankenstein deforme di registri continuamente inanellati, senza soluzione di continuità: metriche assurde, urla, gemiti, risate, canti storti, colpi di tosse, cori, sputi e rutti per uno stile ammaliante e vulcanico nella sua grezza bulimia. Attenzione però a non scambiarlo per un semplice istrione da circo: incastri così disparati infilati in sequenza con un’infinità di switch, assecondando un fraseggio che solo lui è in grado di sentire, sono un trattato di talento che nella storia del rap si è sentito raramente.

Il suo esordio arriva nel ’95, un rituffo – esplicitato già nel titolo – nelle atmosfere del debut collettivo di due anni prima. RZA, al solito produttore di quasi tutto, la gioca di intelligenza: nel costruire addirittura un intero disco che possa reggersi sulla follia di ODB, lavora in sottrazione. I beat sono scarni, basati su un’ossatura ritmica di basso e batteria e poco altro, ma di qualità. Intuisce infatti che il palcoscenico vada interamente lasciato alla voce e al flow dello sporco bastardo, così camaleontici e in grado di catalizzare interamente l’attenzione se lasciati liberi di spaziare ovunque gli vada.

Dei due singoli estratti, se Shimmy Shimmy Ya è quello più conosciuto e di successo, Brooklyn Zoo è quello più ruvido e amato: boom bap classicissimo e loop di piano, con un’invettiva di ODB diretta verso un non precisato avversario. Hip hop puro, al suo meglio.

Ol’ Dirty Bastard 

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