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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Chrissie Hynde: una rockeuse con tutti i crismi

Cinque anni, dal '79 all'84: gli anni d’oro dei Pretenders.

Da quasi quarant’anni la stella di Chrissie Hynde ha smesso di brillare. Eppure, prima dei successoni senza sostanza e delle ballate melense c’è stato un tempo in cui questo fiore d’acciaio ha incarnato un superbo modello di nuova cantautrice rock’n’roll.

E le stelle stiamo a guardare

Prima o poi tutti i miti di oggi escono di scena. Toccherà anche a noi che li abbiamo amati, che ne abbiamo avuto le vite cambiate e intanto sopportiamo il peso dei trapassi in un mondo dove l’orizzonte del futuro è sottilissimo e il “qui e ora” somiglia a un incubo. Un mondo dove non ci si abitua alla morte, specialmente quella di chi ha reso la musica popolare qualcosa di significativo, perché è il pop stesso che cristallizza le sue stelle – polari e non – dentro una teca di eterno presente. Purtroppo, anche in una specie di circolo vizioso della mente. In una persistenza della memoria che ha effetti singolari.

Fateci caso: Bob Dylan è stato l’arruffato poeta vestito di jeans e satin, ma adesso sotto i riflettori si muove una persona di ottant’anni. Eppure è la prima delle due immagini a fissarsi in testa ed essere evocata. In barba alla creatività, agli enigmi e alla percezione che abbiamo di loro, gli artisti invecchiano. Sono semidei – hai detto niente, ma il punto qui è un altro – e la chiave della questione sta nel prefisso semi, che racconta un’immortalità irraggiungibile dal punto di vista materiale. Come per la Sehnsucht dei romantici, però, conta il percorso intrapreso per (cercare di) raggiunge quella chimera: il tendere verso un’illusione lasciando tracce che i posteri ricorderanno.

Alla fine, se hai offerto un po’ bellezza, il tempo non l’avrà vinta. Il lato complicato della faccenda è farsi una ragione della nostra provvisorietà. Piaccia o meno, appartiene all’ordine naturale delle cose: tuttavia l’arte scivola negli ingranaggi dell’eternità, aiutandoci ad accettare la senilità degli eroi e delle eroine. Che ciò possa essere all’insegna di grazia e dignità, dipende da loro. Anche se non sempre va così, li vorremmo accanto quanto più a lungo possibile per raccontarci storie che sono pezzi di vita. In caso contrario, ci sono sempre canzoni che durano, qualsiasi cosa succeda. A noi e a chi le ha scritte.

Giusto una a caso.

The great Pretenders

Settanta primavere lo scorso settembre, Christine Ellen Hynde oggi somiglia a una sorella di Lucinda Williams e da troppi anni è imprigionata in un cliché. Se applaudiamo l’impegno nella causa animalista, va altresì rilevato che non pubblica cose davvero degne dal terzo LP dei Pretenders, Learning to Crawl, che vedeva la luce nell’ormai lontanissimo 1984. Resta l’ultimo lavoro da mettersi in casa di una rockeuse che non ha mai temuto di esporre se stessa e le proprie fragilità. Anzi, che attorno a debolezze nelle quali riconoscersi ha scolpito canzoni scintillanti.

Chi non si innamorerebbe di una così? Eppure tanti tendono a dare i Pretenders per scontati, manco fossero dei tappabuchi per il palinsesto di certe stazioni radio. Quando invece la Hynde ha dato una bella spallata agli stereotipi che soffocavano il rock al femminile spianando la strada a un plotone di seguaci, autorevoli e non. Quando, più in generale, la band ha esercitato un’influenza di tutto rispetto non soltanto nell’immediato spegnersi della tempesta del ‘77. Come nel caso dei Blondie, anche per i Pretenders ne cogli gli effetti in un linguaggio alternativo sia all’ortodossia dei tre-accordi-tre che allo sperimentalismo di stampo new wave.

Qualcosa che all’epoca viene percepito come un “nuovo classicismo” e si ispira agli anni ’60 e ai primi ’70 senza scivolare nella banalità. Una rivoluzione nella rivoluzione: freschezza, dinamismo, raffinatezza sono le qualità di un pop (rock) sul serio power che non si nega le ballate e le incursioni nella black. Un linguaggio semplice solo in apparenza, perché è relativamente facile fare musica che piaccia a tanta gente ma farne di buona e duratura rimane un segreto per alchimisti. Parlo di canzoni memorizzabili e memorabili, potenti e sofisticate. Parlo dei primi tre album dei Pretenders, dopo i quali c’è il diluvio. E nell’esatto mezzo, un destino maledetto e da maledire.

Giusto un'altra a caso.

Stairway to success

Cosa buona e giusta partire dall’inizio, ovvero dall’inquinatissima città di Akron, Ohio. È lì che nel 1951 Christine nasce in una famiglia della borghesia medio-piccola e viene su preferendo concerti e dischi ai fidanzati e alle festicciole liceali. Appena può, fugge nella vicina Cleveland ad ammirare Rolling Stones e Stooges, culla sogni di gloria e abbraccia la controcultura. Iscritta alla scuola d’arte della Kent State University, il 4 maggio 1970 vede il fidanzato di un’amica cadere sotto le fucilate della guardia nazionale e prima di terminare gli studi mette su una band amatoriale con Mark Mothersbaugh.

Anima ribelle, nel ’73 si trasferisce a Londra e trova lavoro presso un architetto. Otto mesi dopo, grazie al giornalista Nick Kent scrive per il New Musical Express e la scorgi dietro il bancone della boutique Sex, gestita da Malcolm McLaren e Vivienne Westwood. Suonicchia tra Francia e madrepatria, ritornando nella capitale britannica mentre cresce l’ondata punk. Perde l’opportunità di cavalcarla, ma in retrospettiva meglio così: concretizzare l’urgenza espressiva in ritardo sul “fenomeno” le assicura la giusta distanza e un ulteriore quid di personalità.

Non solo dietro il bancone: la riconoscete qua?

Ciò nonostante, Chrissie dovrà faticare tra un tentativo con Mick Jones, la presenza negli embrionali Damned, una comparsata nei Johnny Moped e altre avventure poco rilevanti. Trafila lunga e tortuosa che diviene frustrante quando l’impegno non porta frutti concreti e inevitabilmente affossa l’autostima. La ragazza è sul punto di cedere: tranne lei, tutti quelli che conosce e frequenta stanno in una band. Dopo una crisi di nervi e pianto nella metropolitana, si risolve a tenere duro.

La tempra e la caparbietà premiano quando nel ‘78 un demo capita tra le mani di Dave Hill, il quale ha appena fondato un’etichetta, la Real, che gode della prestigiosa distribuzione Sire e deve quindi ampliare la scuderia. Contatta la ventiseienne e si accorda per un provino in una sala di Denmark Street. Lei si presenta con un bassista e Phil Taylor dei Motörhead dietro tamburi e piatti, esegue qualche brano e Hill ne coglie il buon livello. Soprattutto, percepisce al volo le potenzialità da rockstar dell’autrice.

Rockers of today

Il contratto è firmato a patto di avere un gruppo a tutti gli effetti. Saggia decisione: d’accordo lo charme della capobanda e la forza del collettivo, nondimeno l’ingrediente segreto dei Pretenders sarà un giovanotto di Hereford. James Honeyman-Scott imbraccia la chitarra da quando ha dieci anni, in tasca custodisce i santini di Nick Lowe e Dave Edmunds ed è fantasioso e misurato. Talvolta coautore, conduce la Hynde alle gioie della melodia e l’interazione tra i rispettivi, differenti approcci allo strumento e al ritmo rappresenta una delle basi (le altre: penna sopraffina, voce sensuale con sentimento) di un sound nato dall’equilibrio tra esperienza, istinto e grinta. Un sound a suo modo unico, perciò irripetibile.

Insieme collante e contrappunto, il gioco di intarsio, arpeggi ed effettistica di James farà scuola (fan sfegatato Johnny Marr, il chitarrista inglese più importante degli anni Ottanta che addirittura suonerà per poco nei Pretenders) ed è il perfetto complemento alla ruvida classe dell’americana. Il rapporto viene rispecchiato dalla sezione ritmica, siccome Honeyman-Scott arriva su invito del concittadino bassista Pete Farndon e l’assai più navigato Martin Chambers – altra vecchia conoscenza di Hereford – conclude l’andirivieni di batteristi. Nel luglio 1978 Christine ha la gang dei suoi desideri. Nel frattempo ha masticato un po’ di vita e ne ha fatto e farà materia di canzoni.

Eccoli!

La prima a uscire è però farina del sacco di Ray Davies, una bella rilettura a 45 giri di Stop Your Sobbing supervisionata nel gennaio ‘79 proprio da Nick Lowe. Quando gli offrono di curare l’album, questi passa la mano. Il materiale non manca, tuttavia occorre un produttore all’altezza ed ecco Chris Thomas siglare un altro matrimonio scritto in paradiso. Con un impressionante curriculum che lo ha visto accanto a Beatles, Pink Floyd e Badfinger, si rivela abile nel trattenere l’impatto d’insieme e nell’aggiungere ritocchi e coloriture con gusto e sicurezza. Lo dimostra a inizio 1980 Pretenders, esordio folgorante dall’ampissimo successo di pubblico (primo posto in Inghilterra, nono oltreoceano) e critica in virtù di tre quarti d’ora a dir poco meravigliosi.

Una squisitezza dietro l’altra, sfilano l’irresistibile derapata power pop di Precious e una The Phone Call tutta contorsioni e spigoli à la Buzzcocks, la flessuosa Up the Neck e una Tattooed Love Boys di emozionata nevrosi. Space Invader è strumentale e funkadelica, Stop Your Sobbing troppo azzeccata per non venire ripescata e The Wait uno sprint che lascia affiorare il punk. Non da meno il lato B, illuminato dal singolo Kid al crocevia tra Byrds e Flamin’ Groovies, dall’ombroso reggae candeggiato raccolto da Grace Jones di Private Life, dalla seduzione Brass in Pocket, dall’aura lennoniana di Lovers of Today e dall’orecchiabile martellamento Mystery Achievement. Dopo il quale ricominci da capo, ogni volta stregato come fosse la prima. A proposito di colpi di fulmine: in tour negli Stati Uniti, la Hynde incontra nientemeno che Ray Davies, tra i due scocca la scintilla e si sposano.

La maglietta giusta per il matrimonio.

Di lì a un annetto II ribadisce concetti e forme del debutto omaggiando gli Stones nella copertina, tirando a lucido le sonorità e soffrendo lievemente il confronto in termini di effetto sorpresa. Avercene, in ogni caso, di “more of the same” come i vibranti folk-rock metropolitani Talk of the Town, Birds of Paradise e The English Roses, una conturbante The Adultress e un’ansiogena Bad Boys Get Spanked, lo squadrato R&B bianco Message of Love e l’avvolgente amarezza di I Go to Sleep, prelevata ancora dal repertorio kinksiano, l’ipnotica Day After Day e una Pack It Up da suscitare l’invidia di Debbie Harry.

In autunno un giro concertistico oltreoceano è cancellato per un incidente nel quale Chambers si ferisce a una mano. Sfortuna, certo, tuttavia una bazzecola in confronto a quanto sta per cadere addosso ai Pretenders.

Crawling and learning

Che gran farabutto, il destino, quando dopo aver dato in prestito con spilorceria ti presenta un conto salato. Penso a James Honeyman-Scott e mi sale la rabbia per lo spreco di talento. Penso che lasciarci le penne con la droga sia da fessi, ma che ciò avvenga per un infarto causato dall’intolleranza al prodotto più famoso della Colombia sia anche piuttosto beffardo. Era il 16 giugno 1982 e di fronte a sé Jimmy aveva un avvenire radioso e un presente altrettanto. Non fosse che quarantotto ore prima, dopo una sofferta riunione, il gruppo aveva cacciato Pete Farndon, schiavo dell’eroina e nel giro di dieci mesi vittima di un’overdose. In dolce attesa, Chrissie pensa bene di staccare la spina per un po’.

Perdita incommensurabile anche per il marketing delle chitarre Erlewine.

Arriva l’autunno e la dedica a Jimmy di Back on the Chain Gang – gioiello jingle-jangle malinconico come possono esserlo soltanto certi addii – soggiorna nei Top 5 statunitensi per tre settimane consecutive. Riordinate le idee, i Pretenders rientrano in pista con Chambers, la sei corde di Robbie McIntosh e Malcolm Foster al basso. Inevitabile che su Learning to Crawl aleggi lo spirito di chi non c’è più e che i superstiti guardino in faccia il lutto. Con fierezza e a testa alta: riferito di Back on the Chain Gang e di qualche riempitivo peraltro non disprezzabile, piacciono assai il rock bluesato strategicamente sistemato in apertura di Middle of the Road e una Show Me che preconizza gli Smiths, la serrata Time the Avenger e il country-a-billy Thumbelina, la tenera 2000 Miles e l’invettiva My City Was Gone.

Quello stesso anno Chrissie molla Davies per Jim Kerr e di nuovo durerà poco. Svanita per forza di cose l’interazione con Honeyman-Scott, anche Chris Thomas si chiama fuori e la magia svanisce. La formula che ha reso grande la formazione scolora dapprima in trascurabile mestiere e poi in robetta qualunque da parte di una che qualunque non era mai stata. Di conseguenza, preferisco tagliare corto sulla vicenda che vede la sigla trasformarsi nel paravento di una donna troppo sola al comando responsabile di album scadenti, del perenne andirivieni di strumentisti, di (auto)parodie e celebrazioni.

Un accanimento terapeutico di cui avremmo fatto a meno ha prodotto stilemi senza sapore – epitome suprema la ruffianata I’ll Stand by You – del genere che smerci in gran quantità, finché il pubblico medio non si stufa e ti tocca ripiegare nel circuito indie senza che nulla cambi sotto il profilo creativo. A un certo punto la Nostra si rende conto di aver allestito una tribute band di se stessa e nel 2005 lo ammette pubblicamente. All’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame, durante il discorso di prammatica ringrazia James e Pete ricordandoci – e ricordandosi – che senza di loro i Pretenders non sarebbero mai stati lì.

Non proprio un "mea culpa", ma diciamo una presa di (auto)coscienza.

In conclusione, fate finta di niente e fermatevi tranquillamente al 1984: non vi perderete nulla. Il tempo è una risorsa preziosa e va speso bene, ad esempio rispolverando o scoprendo un tris di assi che non ha perso un briciolo di smalto. Per quanto mi riguarda, conservo Chrissie Hynde nel cuore con l’ineffabile sorriso da Gioconda rock’n’roll che, da sotto la frangia corvina scomposta dal vento londinese, mi fulmina con quello sguardo tagliente però dolce. Proprio come i lineamenti del suo viso. Proprio come le sue canzoni.

I found a picture of you oh-oh
Those were the happiest days of my life

Pretenders The Pretenders Chrissie Hynde 

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