Con tre decenni sulle spalle, Slanted and Enchanted vanta innumerevoli tentativi di imitazione e un fascino inarrivabile per chiunque, inclusi gli stessi Pavement. In occasione della seconda reunion, abbiamo ripercorso la loro storia.
Di questi tempi si fa un po’ troppo in fretta a scrivere parole pesanti come “capolavoro assoluto” e “disco imperdibile” a proposito dell’attualità. Tuttavia la questione è assai complessa, poiché il problema sta tanto nel “qui e ora” quanto nella percezione che ne abbiamo. Di fatto, da più di un decennio la musica popolare vive di una mitologia incentrata su se stessa dalla quale ricava scampoli di ispirazione. Questa specie di loop è uno degli effetti prodotti dell’eterno presente di internet, dove ogni cosa è disponibile a portata di click, eccetto un contesto originario impossibile da ricostruire a posteriori.
Di conseguenza, di infiniti passati a disposizione i più giovani colgono facilmente le forme, ma molto di rado il significato. Assente il nocciolo di presupposti e ricadute che costituisce l’eredità di qualsiasi fenomeno artistico, ne deriva per lo più una ginnastica calligrafica senza anima. In caso contrario, faccende come Squid, Black Midi e Black Country, New Road, interessanti però fredde come – toh! – una realtà virtuale.
In ogni caso, sono sempre segnali di vita di un rock che da vent’anni avanza con passo impercettibile. Eppur si muove, anche se di millimetri e partendo da ciò che lo ha preceduto, perché sin dal giorno uno il rock d’autore si rigenera incessantemente in una serie di contaminazioni. Andate però a spiegarlo a tutti i gruppi che non smettono di tornare assieme nutrendo gli appassionati con cucchiaiate di nostalgia canaglia finché la contemporaneità appare più arida di quanto non sia.
Ditelo per esempio ai Pavement. Più che recidivi, considerando che sono già al secondo “ricominciamo” e – pandemia permettendo – si imbarcheranno in un tour europeo. L’Italia ne è esclusa, ciò nonostante ci sentiamo di dormire sonni tranquilli al riguardo, consci che un’altra endovena di amarcord nulla può aggiungere alla vicenda. Più sensato cogliere l’occasione per ritornare su album mandati a memoria, che tuttora riservano aspetti inediti e pulsano di una classicità viva. Non a caso, le caratteristiche tipiche dei capolavori assoluti e dei dischi imperdibili. Quelli veri.
Chiamateli figli del riflusso oppure slacker, tanto non cambia granché. Parliamo sempre dei nati dal 1965 in poi, troppo piccini per godersi i Fab Sixties e l’onda lunga protrattasi fino all’inizio dei Settanta, infine sballottati negli anni dai quali (forse) non si esce vivi in una centrifuga di edonismo, bombardamento mediatico e crisi di valori. Su questi temi, nel fatidico 1991 Douglas Coupland incentra il romanzo Generazione X, caso letterario dal preveggente sottotitolo Racconti per una cultura accelerata che delinea il collasso del postmoderno e l’alba della nostra caotica, indecifrabile quotidianità.
In maniera simile ai personaggi del libro, anche noi cerchiamo di semplificare l’esistenza e di rifiutare certe responsabilità imposte dall’alto. È uno spartiacque netto, poiché se Jim Morrison cantava di volere il mondo e di volerlo adesso, Kurt Cobain urlava “diniego” a squarciagola e intanto losers consapevoli come Beck spiegavano a chiare lettere che dopo il “no future” sarebbe giunta l’era del “future? boh…”. A gente così non interessa avere il mondo: troppo complicato e faticoso gestire un ruolo del genere, quindi preferiscono osservare la realtà circostante da una bolla di meraviglia adolescenziale.
Malgrado ciò, Sylvia Plath ha insegnato che, se la campana di vetro va in frantumi, qualcuno non sopravvive e altri – meglio equipaggiati o forse solo più fortunati – scivolano tra le pieghe dell’esistenza in un gioco di specchi. Stephen Malkmus e Scott Kannberg non si sono infilati in bocca un fucile perché attorno a loro c’era una barriera di appassionato distacco, mentre Kurt, rinchiuso in un ingranaggio che lo ha stritolato, aveva finito la colla per aggiustare le crepe. Sì, a volte la vita fa schifo. Lo sappiamo bene e, pur non dandolo a vedere, lo sanno anche i Pavement.
Soprattutto è in questa consapevolezza che ci assomigliano e lo stesso vale per un disincanto un po’ amaro da ragazzi della porta accanto. Eppure, nascosti in un look finto casual scippato ai Feelies, questi romantici autoironici e dolcemente sgangherati hanno riscritto le regole del pop chitarristico e riassunto alcune delle più felici esperienze sonore degli anni ’80 in un modello estetico originale che non smette di sprigionare fascino ed esercitare autorevolezza. Perdenti di successo? Alternativi all’alternative? Semplicemente, Pavement.
Vivere in provincia ha i suoi vantaggi, primi fra tutti il distacco critico e una fierezza che permettono di rielaborare le mode. A metà strada tra San Francisco e Sacramento, Stockton non è però un’altra Athens: il clima è mite e si vive nella quieta noia. Entrambi classe ’66, Stephen e Scott sono amici che dagli incontri sui campi di calcio e di tennis passano a far girare dischi in cameretta. Jimi Hendrix e il folk rock li porta il primo, l’altro – sintonizzato sull’attualità – adora Echo & The Bunnymen e Smiths. A un certo punto, scambiarsi i vinili e le rispettive impressioni diventa un gesto spontaneo quanto buttar giù accordi e pensieri con una chitarra.
Quando Malkmus torna dall’università con una laurea in storia, dalla dialettica caratteriale e artistica scaturisce un progetto che intreccia il post-punk britannico più obliquo, l’arguzia armonica dei R.E.M. e la follia metodicamente imbrigliata nel rumorismo di Pixies e Sonic Youth. I Nostri vantano trascorsi in formazioni cittadine che non sono andate lontano, tuttavia le esperienze frustranti sono utili a definire l’orizzonte e chiarire le idee: ribattezzatisi S.M. e Spiral Stairs, nel 1989 iniziano a costruire un alone di mistero rinunciando ai concerti e alla promozione.
L’unico posto che possono permettersi per concretizzare un pugno di idee è il rustico studio domestico di Gary Young, hippie trentaseienne dal cervello fritto che si entusiasma tanto da sedersi alla batteria, aggiungendo ulteriore eccentricità a un catalogo di soluzioni inconsuete e improvvisi lampi melodici. Il singolo Slay Tracks: (1933-1969) esce in estate, autoprodotto in una tiratura esigua che conquista con gli Wire a nervi scoperti e le folate noise di You’re Killing Me, la space wave Price Yeah!, una Box Elder in cui Thurston Moore indossa i panni di Michael Stipe.
Un annetto dopo Demolition Plot J-7 procede spedito tra risonanze Fall (Forklift), boogie’n’roll da discarica (Spizzle Trunk) e lucido delirio (Recorder Grot, Perfect Depth). Chiude il trittico Perfect Sound Forever, EP che maneggia la compiutezza di chi ha frequentato le lezioni dei Sonic Youth e ribadisce una prima maturità con Debris Slide e Home. Da qualche parte si deve cominciare, insomma, meglio se con il piede giusto.
Passato a una Drag City fresca di fondazione, che nel ’93 recupera l’apprendistato di cui sopra in Westing (by Musket and Sextant), il gruppo inizia a esibirsi con Young e il jolly Bob Nastanovich, ex compagno di studi di Malkmus. Nel 1992 si stabilizza con al basso il fan newyorkese Mark Ibold ed è pronto a consegnare l’album d’esordio, ma siccome in questo racconto le apparenze sono traditrici, lo studio legale Malkmus, Kannberg & Young sarà l’unico responsabile del disco.
Messo su nastro in pochi giorni delle festività natalizie ‘90-‘91, per vederlo nei negozi tocca attendere una migrazione alla Matador e la primavera successiva. In quel lasso di tempo (durante il quale circola tra gli addetti ai lavori sotto forma di cassetta) parecchie cose sono cambiate. I Nirvana hanno rivoluzionato un mercato discografico nel quale le favolose canzoni di Slanted & Enchanted restano in disparte pur facendosi notare per le eccentricità niente affatto gratuite, i volumi abbassati e le strutture più storte rispetto al grunge.
Sono le travi portanti di un approccio genialmente amatoriale – il cosiddetto lo-fi – che lascia il segno, privilegiando l’espressività e trasformando i limiti in stile. Un valore aggiunto di ellissi trasognate, taglia-e-cuci testuali e stupore cinico avvolge poi l’emotività in un non detto che richiede attenzione. Un sentimento sfuggente, condiviso da chi si apre con ritrosia e usa l’umorismo come scudo, emerge dai moderni Hüsker Dü di Summer Babe e da episodi che incrociano Black Francis, Mark E. Smith e Lee Ranaldo come No Life Singed Her, Loretta’s Scars e Conduit for Sale!, dai Velvet Underground folk di Zurich Is Stained e dal sospeso slowcore Our Singer.
Altrove, il malinconico inno Here è una ballata alla Smiths di bellezza che paralizza, l’ipnotica Trigger Cut / Wounded-Kite at: 17 declina jangle pop di scuola Creation secondo i Pixies, Two States e Jackals, False Grails: The Lonesome Era caracollano dalla Manchester del ‘79. A una Perfume-V, misto di tenerezza e inquietudine, rispondono gli Swell Maps che saldano il debito con i Faust di Fame Throwa e la sferica, tesa ipnosi In the Mouth a Desert. Da qualunque punto lo si osservi, un’autentica pietra miliare.
L’incognita è rappresentata dal pazzo Gary, che ne combina di tutti i colori: passi offrire verdure e purè agli astanti prima del concerto, ma cadere ubriaco dalla batteria è indice di totale inaffidabilità. Dopo una sofferta riunione, viene convinto a gettare la spugna ed è rimpiazzato dal più lineare e solido Steve West. Un capitolo si è appena chiuso.
Con Stephen Malkmus al comando, Crooked Rain, Crooked Rain lima alcuni spigoli portando in risalto un caratteristico e bizzarro concetto di orecchiabilità. Trainato dall’irresistibile Cut Your Hair, vende niente male anche perché il video gira su MTV e la combriccola si ritrova da Jay Leno, nondimeno si tratta più di un consolidamento dello status di stelle underground che l’inizio di chissà quale scalata. Incomprensibili per le major, nell’assenza di stereotipi e aneddotica rockettara i Pavement hanno piena consapevolezza del proprio ruolo, disdegnano i compromessi e non le mandano a dire.
Prova ne sia che l’indie country Range Life schernisce Stone Temple Pilots e Smashing Pumpkins e il musone Billy Corgan se la lega al dito. Accanto ai titoli citati, il trentatré giri strappa l’applauso con l’umorale leggiadria di Silence Kid, il sapiente equilibrio di pieni e vuoti sfoggiato in Stop Breathin e Newark Wilder, l’estatica amarezza di Fillmore Jive. Menzione d’obbligo anche per lo sbilenco pop Gold Soundz, una Elevate Me Later che si appropria dell’inchiostro di Alex Chilton e per la meditativa Heaven Is a Truck.
Centrato al primo colpo un Revolver, i cinque saltano l’ipotetica fase “pepperiana” e, dopo aver contribuito al debutto dell’amico David Berman, recapitano l’equivalente del White Album. In più di un significato, considerando che Wowee Zowee spalma diciotto tracce su un’ora scarsa, offre una tavolozza policroma che riassume ma al contempo guarda altrove e, data la genesi lunga e complessa in cui talvolta i leader incidono separatamente, fotografa una formazione che inizia a sfaldarsi conservando intatte la classe e l’inventiva.
A New York e Memphis una line-up in forma smagliante riporta le lancette dell’orologio all’indole avanguardista degli inizi. I brani nascono da soli, malgrado l’accumulo sia fonte di disaccordo tra le parti: Kannberg crea su canovacci tra le mura dello studio e vorrebbe un disco di canzoni compiute, laddove Stephen – solito arrivare con i pezzi finiti – punta nella direzione opposta. La stampa non coglie un’ambivalenza complementare, resta spiazzata e stronca con severità ingiustificata. A ben sentire, infatti, i bozzetti accusati di poca compiutezza sono argute camere di decompressione incastrate tra un gioiello e l’altro.
Secondo una precisa (il)logica, si apre sull’accorato omaggio ai Big Star più raccolti di We Dance per terminare con la scheggia wave funk Western Homes. Nel mezzo di tutto un po’, da una Rattled by the Rush zoppicante e appiccicosa alla neopsichedelia dipanata da Grounded e Pueblo, passando per la peculiare Americana di Father to a Sister of Thought, la cavalcata kraut Half a Canyon, reinterpretazioni di Morrissey e Marr del calibro di Black Out e Grave Architecture. E poi: saggi di isteria contagiosa (Best Friends Arm) e forme slanciate (AT&T, Fight This Generation), narcosi stupefatta (Motion Suggests, Extradition) e moderata esaltazione (Kennel District).
Quanto all’ipotesi di capitalizzare sul clamore suscitato da Crooked Rain, Crooked Rain, i ragazzi dimostrano con i fatti che il gioco non vale la candela. Mai veramente saliti sul treno della popolarità indie “di massa”, con Wowee Zowee abbandonano la stazione. Con il senno di poi, avrebbero dovuto spingersi un passo più in là e separarsi.
Tornando a quei giorni, risulta significativa la scelta di dilatare sul palco le canzoni più note in jam alcoliche stile “prendere o lasciare”. Puntualmente, all’edizione 1995 del Lollapalooza la folla lascia e li allontana con lanci di pietre e fango. Imbarcati malvolentieri su un carrozzone che non li vuole, nel febbraio ’97 i cinque confermano la vocazione per il paradosso sterzando verso un’inattesa potabilità. Nel meccanismo, però, qualcosa si è rotto irrimediabilmente.
Complice l’aiuto in regia di Mitch Easter (già a fianco dei primi R.E.M.) e l’intento – Malkmus dixit – di approfondire un latente profilo classic rock, Brighten the Corners presenta la versione “leggera” dei Pavement. Buono il riscontro commerciale e non potrebbe essere altrimenti, dato che l’insieme, propulso dalle discrete Stereo e Shady Lane, è più scorrevole del solito, ma, tranne un’articolata Transport Is Arranged e la dolente Type Slowly, scivola nel manierismo e in un diffuso senso di stanchezza.
Pessimo anche l’umore allorché il gruppo affronta la mossa successiva. Stephen rispedisce al mittente le composizioni dell’ex amico, gli altri giocano a scarabeo e in due settimane non si combina nulla. Entra in scena Nigel Godrich, l’uomo sbagliato al posto giusto che focalizza l’attenzione su colui che reputa il leader di una band appannata e in disarmo. Ingredienti che rendono Terror Twilight un pastrocchio mal gestito con cui Nigel punta a espandere il bacino d’utenza quando ai diretti interessati non può importargliene meno. Da qui assortiti battibecchi, scrittura e verve al lumicino e una mediocrità tirata a lucido.
L’incubo prosegue nei mesi successivi. In giro per il mondo Malkmus non rivolge la parola ad anima viva e le scalette colme di vecchi brani sottolineano la scarsa fiducia nel materiale recente. Il culmine è raggiunto al Coachella Festival, dove un frontman sempre più riluttante palesa l’autismo tacendo per l’intero spettacolo. La frattura è netta, lo scioglimento inevitabile. Molto meno le modalità con le quali viene reso pubblico: alla londinese Brixton Academy, il 20 novembre 1999 Stephen attacca delle manette all’asta del microfono e spiega la metafora in una piazzata poco dignitosa. Quindici giorni dopo, l’etichetta annuncia una pausa a tempo indeterminato.
Dieci anni, cinque album e un’impronta visibile oltre gli anni Novanta. Come eredità basta eccome, non solo a fronte delle continue ristampe espanse del catalogo e delle trascurabili carriere soliste di Stephen e Scott, il cui rapporto ha finito con il rispecchiare il tira-e-molla di chi non vuole lasciarsi definitivamente e persevera in bisticci e riappacificazioni. Ti domandi cosa glielo faccia fare, scuoti la testa e riascolti per l’ennesima volta Slanted & Enchanted. In quel preciso momento comprendi quanto sia difficile per chiunque mettere in quarantena il passato. Anche sotto la più impenetrabile delle armature si cela pur sempre un essere umano. Di tutto ciò, nel bene e nel male, bisogna farsene una ragione.