Nella prima metà degli anni ‘80, i Dire Straits avevano un successo planetario. Molti li chiamavano “the best band in the world”. Ma chi li aveva voluti e creati non amava del tutto quel mondo, e non era per niente un tipo glamour. Mark Knopfler preferiva i vicoli di Glasgow ed Edimburgo, le distese americane e la roots music, e non c’era niente da fare, sapeva che prima o poi sarebbe tornato a quello. Oggi, veterano e ormai seduto sui suoi gusti e capricci, appare più soddisfatto e più vero di quando Brothers in Arms bucava le classifiche Billboard, e più preso che mai dal blues, dal folk, dal country, da violini, flauti e chitarre resofoniche. Il mondo di Mark Knopfler è semplice, caldo, sincero e confortevole.
Il videoclip di What It Is racconta – più che altro allude a – una storia frammentata. A un uomo, che sembra debba prendere un treno per cui è in ritardo, si ferma la macchina. Nella sua corsa, fuori da un pub, travolge una ragazza dallo sguardo penetrante, che incrocia per due secondi. Le chiede scusa e riparte. Per la cronaca, riesce a prendere il treno appena in tempo, e mentre questo lascia il binario ecco in trasparenza gli occhi neri della donna, stile visione mistica. Il filo conduttore sembra essere la cupa atmosfera di Edimburgo, che è in effetti pure al centro delle lyrics, ma in realtà è un musicista cinquantenne che sembra più attempato di quel che è, e che nella sua tranquillità domestica, chitarra acustica in grembo, gioca con la penna, scrive qualche verso di cui accenna il labiale fra sé, suonicchia il riff, sorseggia vino e tè, in quella che dovrebbe essere una simulazione del processo di scrittura. Poi esce in macchina, e rischia fra le altre cose di investire il povero ritardatario, scoccandogli un’occhiata abbastanza torva. It’s what it is.
Per forzato che sembri questo ritratto – in tre minuti di radio edit – di un cantautore, in realtà un po’ tutti gli elementi del video ne raccolgono una parte molto autentica, che è allo stesso tempo sottile, della medesima consistenza dei rimandi, delle connessioni, delle sensazioni e delle immagini su cui gioca la canzone – riflessi nel video stesso, la cui trama di per sé un po’ povera sembra invece fare leva sull’imperscrutabilità di un disegno che sta dietro a eventi, coincidenze e incontri casuali. Circostanze e stimoli che portano un essere umano a imboccare una strada o evitare un vicolo in quel preciso momento, due occhi che restano impressi, un gatto che attraversa la carreggiata, uno sconosciuto che ti viene addosso, un’atmosfera o un umore particolari.
Non è un caso che What It Is sia a tutt’oggi l’incipit di tutte le scalette di Mark Knopfler. Ha un andamento che riesce ad accattivarsi ogni tipo di simpatia fin dal primo secondo, è raffinata ma pure radiofonica, ha un riff che dà alla testa e ogni elemento – la particolare cadenza dell’acustica ritmica, il pedale di basso iniziale, il tocco della batteria, i guizzi del violino – è dosato con il misurino per farne un grande pezzo, un esperimento alchemico che può dirsi fra i più riusciti. Possiede davvero un’aura sottile, è attraversata da una continua allusione e i suoi versi incastrati magicamente e declamati in scioltezza sembrano un enigma da sciogliere, a cui ogni suono risponde con prontezza e compiacimento. Per non parlare poi di cosa può diventare dal vivo se ci aggiungi una band che strizza ancora di più l’occhio alla Scozia – ma quanto diamine è bello l’intermezzo che tutto ferma, per poi aggiungere di nuovo elementi in crescendo, fino a riesplodere di emozione sul finale? – o del fatto che stanca talmente poco che ce la si riascolterebbe in loop per ore, o del realizzare che una strofa inedita può solo migliorarla invece di appesantirla.
Ma soprattutto, in quel cinquantunenne dall’aria grumpy che sembra nato per farsi i cazzi suoi, c’è l’immagine più vera del musicista-Knopfler: star per caso, artigiano per vocazione, cantautore per sentimento, chitarrista per inclinazione e gusto. Che oggi è finalmente diventato quello che voleva essere da giovane: vecchio. Cioè, un certo tipo di vecchio, di quelli che fumano la pipa di mogano davanti al caminetto e sorseggiano bourbon. L’idea più lontana nel mondo da quello che uno si immagina essere uno dei più grandi e classici chitarristi rock – o no?
Eppure, tutti abbiamo (o siamo) quell’amico un po’ boomer, appassionato di classic rock e altrettanto classicamente collezionista di chitarre che millanta essere rare – molto spesso più collezionista di strumenti che musicista – e inesorabilmente costui, prima o poi, finirà per citare i Dire Straits, e il tocco di Mark Knopfler (di solito in tandem con quello di David Gilmour). Se costui aderisce al tipo umano qui evocato, di solito darà anche pochissima importanza al testo e alla brillantezza compositiva, e molta al virtuosismo strumentale. Già, perché non neghiamolo: molti oggi ricordano i Dire Straits per gli interminabili assoli di Mark, uomo la cui volontà ed esuberanza praticamente fagocitava quella di tutti gli altri membri, fratello David compreso. I Dire Straits nascono per volontà di Mark Knopfler, e a tutti gli effetti sono lui, la sua voce, i suoi testi e la sua Fender Stratocaster rossa (ma pure la sua resofonica, a volte).
E tutti, tutti quanti insisteranno su quello stile particolarissimo, tutto con le dita, e su quel suono quasi pulito, con appena un filo di overdrive. E su quel tocco immediatamente riconoscibile. Tutto giusto, tutto vero: ma perché si parla così poco della vena compositiva, dei testi finemente costruiti, della voce da perfetto storyteller?
Il giovane Knopfler – di ascendenze inglesi e ungheresi e nato a Glasgow (ma presto trasferitosi con la famiglia a Blyth) – amava B.B. King e Bob Dylan, ed era parecchio restio a proporre le canzoni che scriveva di suo pugno. Dopo due anni da giornalista, riprende gli studi a Leeds lavorando in un’azienda agricola, si sposa, divorzia e si sposta a Londra, seguito dal fratello minore. Al suo attivo ci sono un duo folk con una compagna di college e diverse cover band di blues e rock. Fra queste i Café Racers, che una sera lo portano a conoscere il bassista John Illsley, chiamato da David per sostituire quello ufficiale. Arriva Pick Withers a percuotere pelli, e il primo desco arturiano è così formato.
Bisogna però guardarsi intorno: Londra certamente non è Blyth, e le cose succedono, ma è il 1977 e bisogna sgomitare fra la gente che ti urla never mind the bollocks e quella che vive di febbri del sabato sera. In un ambiente in cui il punk nasce, infiamma gli animi e muore (e dalle cui ceneri in tempi rapidissimi si affaccia il post-punk), in cui tutti gli idoli vengono bruciati e nessuno vuole più sentire inutili masturbazioni strumentali, che speranze ha di sfondare un gruppo che vive di espedienti in un appartamento condiviso, che ripropone suoni che risalgono fino al country, al rockabilly e alla roots music, capitanato da uno che finora ha guadagnato qualche soldo solo scrivendo articoli e insegnando inglese a ragazzi difficili?
Tutte le speranze del mondo, in realtà. Ma ancora non lo sanno.
Un demo finisce nelle mani del dj Charlie Gillett, che doveva solo dare un parere tecnico, e invece decide a sorpresa di passare Sultans of Swing. La vicenda di questa band sfigata di dixieland, declamata con verve, colpisce tutti, e ancora di più lo fanno i cantabilissimi ma impressionanti soli di chitarra. Le mitologie iniziano anche così, come nella catena di eventi del videoclip di What It Is.
“Dire straits”, letteralmente “con l’acqua alla gola” – ma evidentemente non tanto da farsi mancare un grammo di ironia. È anche il nome dell’esordio, col suo groove seducente che ne fa quasi un viaggio continuo, navigando sulle acque vivaci di un torrente. «Sweet surrender» sono le prime parole del disco, ed è esattamente il tipo di atteggiamento che si dovrebbe avere nei suoi confronti, come del successivo Communiqué (con l’irresistibile Lady Writer, l’epica Once Upon a Time in the West e la minacciosa Where Do You Think You’re Going?). Un suono che nasce in locali piccoli, dove la gente voleva poter parlare, lontano dal casino, e che conquista passo dopo passo un’audience mondiale, arrivando in America prima che nel vicinato. Dylan, per cui Mark stravedeva, lo vuole fortemente sul suo Slow Train Coming.
E seguendo il copione dei migranti scozzesi del secolo precedente, i Dire Straits balzano oltre l’Atlantico per andare a New York. Qui nasce Making Movies, più pensato, più raffinato: un insieme di cortometraggi in musica più che canzoni. Inevitabilmente, le prime due spiccano. Tunnel of Love è uno spaccato di vita più che una traccia, avvolto dalla consapevolezza lampante di essere un capolavoro in ogni dettaglio (magari qualche dubbio sul videoclip è lecito, ok, ma erano sempre iniziati gli anni ‘80).
E poi c’è Romeo and Juliet, ed è paradossale che un pezzo così strafamoso ed emblematico veda Mark alla dobro più che all’elettrica (un po’ come, per esempio, Aqualung e il suo riff leggendario mancano del flauto iconico di Ian Anderson). Fra l’altro, pur passando come canzone romantica – cosa che almeno in parte è – nasconde sottotesti arguti, e sviscera in maniera subdola un lato ambiguo e sarcastico dell’opera shakespeariana che è entrata nella storia delle storie d’amore. Non che le manchino parole grandiose e disperate (fra l’altro, chi si sofferma mai sulla mancata concordanza di dice, dadi, che è plurale, col verbo singolare? Che Mark voglia dirci che il dado truccato era uno solo?).
Juliet – the dice was loaded from the start
And I bet – and you exploded in my heart
And I forget, I forget the movie song
When you gonna realise it was just that the time was wrong – Juliet?
Love Over Gold doveva essere più mainstream, ma invece prende una strada tutta sua, schivando il successo facile e flirtando con un approccio quasi progressive rock. Private Investigations diventa un’habituée delle scalette live. Ma in cima, perfettamente descritta dal lampo che squarcia la copertina, c’è la regina di tutte le tracce dei Dire Straits, Telegraph Road. Un racconto epico di pionieri, che segue l’evoluzione e la corruzione di una città fin dalla sua nascita, e che corre per miglia e miglia lungo i cavi del telegrafo. È una sorta di suite organizzata in movimenti, dove la band appare più fresca che mai, i tamburi sono essi stessi una tempesta lucidamente calibrata e liberata nei momenti di emozione più pura, e Mark dà il meglio del meglio di se stesso – mai così compiaciuto della sua capacità narrativa ed espressiva. Ancora oggi non disdegna di regalarla al pubblico (cosa che invece si rifiuta spesso di fare con le hit più famose della sua band).
Il disco del vero, prorompente successo commerciale, invece, è Brothers in Arms, dell’85. Quattro singoli acchiappa-ascolti, dai temi che si imprimono a fuoco nella memoria – a onor del vero, anche quattro belle canzoni – e la magnificente title track, che – oltre a distribuire brividi a manciate per via di un’intensità raramente raggiunta, e a una naturale propensione a diventare un inno pacifista del rock – suona un po’ come un’elegia.
È però qui che Mark inizia a disamorarsi della sua creatura, che produrrà solo più On Every Street, spesso dimenticato. Le classifiche e i tour mondiali gli destano preoccupazione e gli mettono stanchezza e pressione più che soddisfarlo. Non è un Mick Jagger né un Robert Plant, e vuole tornare a essere un local hero.
Colonne sonore di gran classe, collaborazioni con gli idoli di gioventù (che ora lo cercano), la fondazione parallela dei Notting Hillbillies, con cui dedicarsi spudoratamente a blues e country. Mark inizia un lento lavoro di recupero delle radici, anche di quelle celtiche che gli appartengono per diritto di nascita, una manifestazione di intenti che inevitabilmente lo allontana dai Dire Straits (i quali agonizzano fino allo scioglimento ufficiale nel 1995).
Eppure, anche se per il grande pubblico è tutto finito, una seconda vita, più comoda e calda, aspetta il celebrato guitar hero, ormai bisognoso di riposo e di dedicarsi a quello che ama di più. La rinascita arriva con Golden Heart, e ancora di più con Sailing to Philadelphia, un disco pieno di meraviglia, e che la suscita a distanza di più di vent’anni. Il duetto con James Taylor e quello straordinario con Van Morrison, Silvertown Blues, Speedway at Nazareth… c’è un nuovo Knopfler nei solchi di quest’album, di nuovo innamorato della vita, che guarda da una prospettiva rilassata, ed è pronto a gustarsela come vuole lui, forte dei successi di gioventù. Ora faccio quello che mi pare. Eccolo, quello che gli pare: The Ragpicker’s Dream, Shangri-la, Kill to Get Crimson, Get Lucky (impossibile mantenere il piede fermo sugli svolazzi avventurosi di flauto e violino nell’opening Border Reiver).
E chi è, dopotutto, che fa sempre quel che gli pare? I corsari, indubbiamente, che pure si nascondono dietro la licenza della corona inglese (la produzione, il music business?) per saccheggiare, depredare, viaggiare liberi e ammiccare a procaci signorine. Partendo da questa metafora settecentesca Mark imbastisce un doppio album ricco di nuovi tesori e nuove isole da conquistare, il cui tour coinvolge, oltre alla sua solita band blues, violino, arpa celtica, flauto e cornamuse. Una vera festa sul palco, un’esperienza assolutamente da provare.
Mark Knopfler si è seduto. Davanti al caminetto, con un whisky, con la chitarra, che è sempre più misurata nei suoi interventi, e non ha più bisogno di dimostrare nulla. Ultimamente è tornato – per l’ennesima volta – a blues e roots music, e a ballate larghe e commoventi. Di quei Laughs and Jokes and Drinks and Smokes conserva un ricordo affettuoso, e on stage è sempre puntuale nel colpire dritto alle budella – ma mentre la band si fomenta, cosciente delle tempeste che si scatenano sul palco e dell’energia emotiva in ballo, lui è fermo, calmo, al centro, come se suonasse distratto a casa sua. Non si scompone mai, non ha pose, non esagera: Mark suona, canta e scrive, e non accenna a smettere, alla faccia di chi lo vorrebbe sepolto insieme a una delle band più travolgenti del loro tempo – che però è finito.
E diciamocelo, a parità di bravura e mestiere: meglio due note di arpa, meglio una zaffata di violino, una fragranza di flauto, un caldo tocco blues sulle sei corde – e meglio queste storie perfettamente cesellate, che sanno di legno, di vita intensa ma modesta – di quegli impietosi, maledetti rullanti degli Ottanta.