Palm Desert caput mundi. Almeno per quel fenomeno che siamo soliti chiamare desert rock. Oppure – ancor più comunemente, quando tiriamo in mezzo un nome ormai quasi mistico come quello dei Kyuss – stoner rock. Rollatevi uno spinello come si deve, stappate una lattina di lager da discount (meglio un six pack, ovviamente) e inspirate forte: qui si parla dell’aria che tirava (o meglio, si fumava) intorno a quelle dune, giusto poco lontane dalle luci di Los Angeles.
Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima. (antico proverbio Tuareg)
Tutto inizia verso la fine degli anni ‘80 a Palm Desert, una cittadina situata nel Sud della California, il cui nome già lascia poco spazio a fraintendimenti, riguardo almeno all’humus in cui sarebbe germogliato il sound di una delle band più seminali degli ultimi cinquant’anni. Il deserto nel DNA, appunto. E l’atmosfera sballata dei mi(s)tici generator parties, vere e proprie jam in cui ci si trovava a suonare in mezzo alle dune con (appunto) i generatori elettrici come unica soluzione per alimentare la strumentazioni, pacchi di alcol a profusione e chili di marijuana per facilitare l’ispirazione. Le cose venivano fuori in maniera diretta, senza il peso, l’incombenza e le regole che il ben più scintillante music business losangelino stava portando avanti poco lontano.
Come tutto ciò sia riuscito a impostare le caratteristiche base di un genere in qualche modo “nuovo” nel suo essere comunque ancestrale sembra chiaro: trio (o quartetto, non di più), zero problemi di volume col vicinato, nessun metronomo a decidere dove si sarebbe andati a finire e i tempi necessari per (e con cui) farlo. Come avrà modo di dire Josh Homme:
Da quelle parti non c’erano club e quindi ti trovavi a suonare davanti a della gente che ti diceva subito quello che pensava di te.
Feedback (in tutti i sensi) spassionati, insomma – che è il modo più diretto per migliorarsi. E poi il blues e l’influenza messicana, che mietevano inevitabilmente vittime in termini di groove, e ancora la psichedelia (nemmeno troppo) latente, alimentata dalle sostanze psicotrope, come scusa giustificata per avvicinarsi allo spirito dei coyote notturni e ad altri strani animali guida.
Deserto e blues in primis, quindi. Ma non solo. A causa, in parte, delle loro radici come band abituata a esibirsi in locali di piccole dimensioni, molti dei gruppi di Palm Desert hanno anche forti elementi da “American bar” nella loro musica e non è un caso che, almeno a livello di contingenza, le cose si siano sviluppate in un certo modo. Pensiamo ad esempio agli Yawning Man (già attivi da quelle parti a fine anni Ottanta) e a come erano riusciti a crearsi un vasto seguito locale esibendosi spesso in baretti e festicciole dentro (e intorno) alle città isolate delle aree desertiche della SoCal. Sabbia e generatori bastavano. Il resto lo facevano alcol ed erba indiana.
Il primo disco vero e proprio del gruppo prende il nome di Sons of Kyuss, anno di grazia 1990, con John Garcia alla voce, Josh Homme alla chitarra, Chris Cockrell al basso, e Brant Bjork alla batteria, cioè tre quarti dei futuri Kyuss, che ufficialmente nascono l’anno successivo, indubbiamente memori della lezione degli Yawning Man di cui sopra.
Solo poco prima, nel 1987 e sotto il moniker Katzenjammer (parola arcaica tedesca per la sbronza, letteralmente “lamento di gatto”), avevano iniziato le prime jammate, ma Brant Bjork non ci mette poi molto a scegliere definitivamente il nome del mostro non morto di Dungeons & Dragons. Sons of Kyuss, distribuito in sole mille copie in vinile verde (ristampato in cd nel 2000 ma non certo di facile reperibilità), contiene, ma in versione assolutamente primordiale, una parte dei brani che prenderanno poi la forma definitiva in Wretch (1991, già con Nick Oliveri al posto di Cockrell al basso), il vero e proprio debutto dei Kyuss.
Dopo qualche prova nelle loro camere da letto e in assenza di locali rock per tutte le età in città (Homme all’epoca ha solo 14 anni) si fanno le ossa, appunto, ai generator party intorno a Joshua Tree, organizzati da Mario Lalli, fondatore… indovinate di chi? Sì, sempre degli Yawning Man, che Bjork stesso definirà «la banda del deserto più malata di tutti i tempi». Questa la ricetta: Lalli porta il generatore, altri la birra, barbecue e allucinogeni. Aggiungiamoci falò, nudità occasionali e set lunghi e intensi che vanno andati avanti per tutta la notte.
Qualcuno deve portare le patate, qualcuno deve portare il pane e burro, e i messicani hanno portato l’acido. (Josh Homme)
Comunque, il sound della giovanissima band non è ancora maturo, lascia intravedere soltanto a sprazzi ciò che di lì a poco diverrà il tipico suono stoner, e la qualità dei brani non è certo eccezionale: l’esecuzione manca ancora di alcuni elementi, anche “formali”, che renderanno inimitabili i Kyuss degli album successivi. Wretch rimane il loro lavoro più tipicamente hardrock, nell’accezione classica del termine, e infatti si prende più l’onere che l’onore di rivestire il ruolo di “primo album di cui nessuno si ricorda”.
Se i Kyuss si fossero fermati qua, o avessero continuato con album dello stesso tenore, probabilmente non avrebbero lasciato molte tracce del loro passaggio, e non saremmo qui a parlarne oggi. A ogni modo, come recita la prima canzone del disco, era solo l’inizio di quello che stava lì lì per succedere.
Shakerando quell’hardblues un po’ MC5, un po’ Blue Cheer e un po’ Discharge, con le frustrazioni di una piccola cittadina sud californiana, il risultato in breve tempo è quello di approdare a una sempre maggiore forma jammata e meno “canzone”. Appena la libertà (o la fattanza) prendono il sopravvento – oltre alla non indifferente aggiunta dell’amico della band Nick Oliveri al basso – le cose iniziano a farsi memorabili. E l’alba successiva si presenta con un sole rosso, che si innalza sulle dune vicine. Sono gli anni ‘90 e dalla polvere del deserto alla polvere di stelle è un attimo: di lì a poco i Kyuss inizieranno ad andare in tournée con gruppi affermati come Faith No More, White Zombie, Danzig e – all’inizio del 1993 – la band viene addirittura scelta dai Metallica per aprire nove spettacoli in Australia.
Se Wretch traboccava degli standard hardrock, pur impolverati dalla sabbia, in Blues for the Red Sun vengono creati veri e propri nuovi standard che – anche se prettamente sabbathiani nel midollo – diventeranno luce guida per non poche band che, da lì a poco, verranno illuminate dallo stesso sole. Il cosiddetto desert sound, o stoner, sembra qui raggiungere una maturità e comporsi di una combinazione alchemica figlia dall’astro giusto. Il disco ha il peso schiacciante del doom metal (Molten Universe), il fascino lunatico della musica psichedelica (Mondo Generator), lo sperma del primo punk e un tocco personale tutto suo (50 Million Year Trip), declinato in anthem perfetti (Green Machine), intermezzi psicotici (Caterpillar March) e jam strutturate per colpire nel segno (Freedom Run) – il tutto in poco meno di un’ora.
Un discorso a parte meritano poi la produzione e i suoni: questi saranno le matrici da cui il nome Kyuss inizierà a sorgere e a brillare.
In Wretch non sapevamo neanche cosa volesse dire registrare. L’album ce lo fece un tipo che faceva i jingle per gli spot della Coca Cola. Pensa te. (Nick Oliveri)
Sarà Chris Goss a prendere il suono dei Kyuss e trasformarlo completamente, potendo giocare a proprio piacimento su quattro punk di quartiere che tutto sommato ci sapevano fare – il vero “uomo in più” che, da musicista veterano, stufo probabilmente che gli anni Ottanta avessero solo pensato ai capelli cotonati del rock, riuscirà a intuire come questi scappati di casa del deserto potessero avere nelle loro corde un sound davvero “nuovo”.
Il basso – rigorosamente in DO – diventa sferragliante e sta, arrogante, davanti al mix (a cura dell’altrettanto sagace Joe Barresi), gettando le basi per quello che sarà un must di tutto il successivo filone Kyuss-oriented. Scott Reeder degli Obsessed sostituirà Oliveri poco dopo le registrazioni del disco: sarà lui, da lì in poi, il vero volto del basso dei Kyuss. La voce di Garcia svetta come uno stendardo, già conscia – o forse semplicemente noncurante – del proprio essere: «I don’t need a seance / I don’t read grey lines / I signed it away way long / I hate slow songs». La chitarra di Homme entra direttamente negli ampli di basso e il wah-wah vintage offre un contributo epocale a un immaginario sudato e polveroso. Brant Bjork, infine – ma non per certo in maniera meno determinante – detta i (suoi) tempi, accellerando e svarionando a piacimento, in preda a un’estasi psicotropa.
Eccoci al dunque, insomma: almeno secondo la critica, è nato lo stoner.
C’è un “desert sound” ma non c’è una “desert formula”. Era come una sorta di atmosfera. Chiudi gli occhi e ti sembra di essere nel deserto: una cosa del genere. Ci sono molte cose che anche se non sono propriamente “stoner” penso che mi colleghino con la mente verso la sabbia e il deserto. […] A differenza di Los Angeles, nel deserto si jammava. Tutti jammavano. Non è che intendevano solo mettere in piedi una ricetta standard per una canzone rock’n’roll. (Nick Oliveri)
A causa del comunque lieve successo del loro album precedente, i Kyuss erano stati promossi dalla loro etichetta discografica sussidiaria Dali all’etichetta principale Chameleon Records, che l’11 novembre 1993 chiude i battenti senza preavviso. Il loro partner in joint-venture Elektra riaccoglie rapidamente la band e fissa l’uscita dell’album nel marzo 1994. L’album verrà poi posticipato di altri tre mesi, finendo per essere rilasciato quasi un anno dopo rispetto a quando era stato inizialmente registrato.
Welcome to Sky Valley mitizza ancora di più la terra che ha i dato natali alla band, con quel cartello (oggi ancora meta per qualche turista fanatico) che introduce alla cittadina vicino a Palm Desert, fotografato da Alex Solca (che forse non si aspettava di renderlo così iconico). Un po’ come l’insegna di Twin Peaks, insomma. Dieci canzoni suddivise in tre atti, tre blocchi magmatici che si susseguono senza sosta, tanto che, nelle primissime versioni, le tracce non presentano pause, risultando un continuum narrativo composto da, appunto, tre corpi distinti. Non un concept, come si potrebbe immaginare, soltanto la voglia di sperimentare e di stordire l’ascoltatore. Su CD infatti, Welcome to Sky Valley viene originariamente pubblicato con le sue dieci canzoni totali contenute in tre tracce, con una quarta hidden track aggiuntiva. Il tutto verrà poi riproposto in una versione più “standard”, con le tracce separate una a una come Dio (nel senso del music business) comanda. Tuttavia, la maggior parte delle versioni vendute del compact disc contiene le tre tracce, una configurazione che ha lo scopo di incoraggiare gli ascoltatori a sperimentarlo come un album completo invece che come una raccolta di brani separati. Non a caso le note di copertina dell’album invitano ad “ascoltare senza distrazioni”.
Volevamo semplicemente che fosse un inferno da suonare su un lettore CD. (Josh Homme)
Welcome to Sky Valley è a tutti gli effetti l’opera magna del quartetto di Palm Desert. Siamo nell’anno d’oro di grunge e industrial, e fa uno strano effetto sentire un riff iniziale come quello di Gardenia, in cui i Black Sabbath ritornano cupi e strafatti come ai tempi migliori, unendosi alla potenza dei Pantera. Così come non era certo al tempo una consuetudine ascoltare roba come Asteroid, con un’accelerazione finale che riprende la psichedelia più desertica e fumosa degli anni Settanta («Get back to rollin’ / Get back to motherfucker»), o la sua compagna Supa Scoopa and Mighty Scoop, gioiello di riffing chitarristico, groove basso-batteria e performance vocale. Una triade di pezzi così non solo è lontana dagli schemi (avere un cantante come Garcia e fare uno strumentale come secondo pezzo era – e sarebbe ancora – decisamente osare) ma inizia a dettare quelle che sarebbero state – seppur impoverite poi da molti cloni – le fondamenta di quello che a pieno titolo si continua a chiamare stoner.
La seconda triade di brani contiene forse il pezzo più vicino alla concezione di singolo, 100 Degrees, roboante e letale, i suadenti sette minuti di trip acustico da campfire nel deserto di Space Cadet, che fanno prendere una pausa contemplativa anche al cielo al di sopra di tutta la polvere e sabbia intorno, e il tribalismo ipnotico di Demon Cleaner (uscita effettivamente come singolo dell’album e anche coverizzata dai Tool), impostata sullo sciamanesimo psichedelico heavy.
Il quartetto finale invece – sentito più difficilmente dal vivo – continua con un percorso di pari livello e non pone un momento debole nemmeno per un secondo. Difficile, dopotutto, con quell’alchimia, non riuscire in questa impresa. Non avrebbero sbagliato neanche se il fonico avesse registrato il quartetto che si fumava un cannone dietro la sala d’incisione in cazzeggio più totale – cosa che avviene in effetti nelle ghost track alla fine degli album, con i vari «yeah» di turno. Odissey / Conan Troutman / N.O. (tributo agli Across the River, band di Lalli e Reeder) e l’epica gemma Whitewater rimangono il suggello perfetto a un disco che definirlo simil-perfetto è solo un fatto di modestia.
L’inventiva compositiva di Homme e di Bjork, autori portanti del discorso, si unisce a delle performance perfette di Garcia, una delle voci più importanti nella musica heavy, e Reeder, che copre tutto quanto con uno dei bassi più cazzuti della storia della musica rumorosa. A ciò si unisce il lavoro di Barresi e Goss, che proseguono l’inventiva di Blues for the Red Sun e che riescono a migliorarsi ancora di più.
Welcome to Sky Valley suona potente oggi come allora, senza un minimo accenno a diminuire la sua portata storica e la sua qualità effettiva in fase compositiva e sonora, rimanendo una pietra miliare rock degli anni Novanta.
Come in una triade sacra, …And the Circus Leaves Town pone l’ultimo vessillo sulla carriera dei Kyuss – non con un climax, ma come una coda prolungata che presenta alcune delle zone d’ombra, lasciate solo intuire dal gruppo nel corso della precedente coppia di perle discografiche. L’album infatti non avrà lo stesso successo commerciale o critico dei precedenti. C’è chi attribuisce questo in parte alla mancanza di promozione e allo scioglimento della band, ma osserva anche che:
…And the Circus Leaves Town merita di essere amato tanto quanto i due dischi caldi fusi che sono venuti subito prima. (Dean Brown)
…And the Circus Leaves Town, con quei suoi puntini di sospensione introduttivi, abbastanza indicativi già in partenza della chiusura di un ciclo, è il quarto e ultimo album della band, pubblicato l’11 luglio 1995, quasi un anno prima del suo scioglimento. Il batterista Alfredo Hernández (Yawning Man) sostituisce Brant Bjork, che aveva lasciato la band nel 1993, e con questo lavoro si assopisce in maniera quasi naturale un astro incredibilmente rosseggiante, capace, almeno per un breve periodo, di illuminare ben al di là delle dune del suo deserto.
Se con Hurricane le cose sembrano proprio come le si era lasciate, è con il procedere del disco che le ormai più che acquisite destrezza e maturità regalano momenti radiofonici come One Inch Man, capolavoro di ipnosi desertica che suggella una carriera intera fondata su sabbia e allucinazioni. Con Phototropic i fantasmi dei Grateful Dead ballano un sabba circense insieme agli altri spettri della musica da trip, ma è El Rodeo che ci lascia in eredità i migliori Kyuss. Purtroppo il resto dell’album non è brillante come molti avrebbero sperato. Garcia sembra scarico (vedi Spaceship Landing) e Homme uno che ha finito le idee (ascoltare Catamaran per credere).
L’ultima data live ufficiale della band è il 9 settembre a Reggio Emilia. Il VHS amatoriale che la immortale è un piccolo cimelio, che si sta ancora cercando di editare con contributi online. Quella sera, con loro, c’erano anche White Zombie e Soundgarden.
Come in molti sanno, le ceneri si spargono nelle maniere dettate dal vento. E quello del deserto è un vento che, così come non perdona, è anche capace di trasportare la sua sabbia da un capo all’altro dei suoi confini. Nei primi Duemila le cose sembrarono virare verso una probabile reunion, ma – nonostante la (a quanto pare) ingente somma proposta per far diventare la cosa realtà – qualcuno nella band pensa non sia il caso di riscaldare minestre.
I Kyuss restano una cosa magica. Se a quei tempi ci sei stato bene, altrimenti te li sei persi. (Josh Homme)
Nel 1997 lo stesso Homme forma i Queens of the Stone Age insieme all’ultimo batterista dei Kyuss stessi, Alfredo Hernández. Poi sfoga le sue pulsioni divertendosi proprio alle pelli in prima persona durante la collaborazione con gli Eagles of Death Metal. Quindi, nel 2009, prova a elevare la taratura dei suoi progetti, cofondando i Them Crooked Vultures insieme a nomignoli del calibro di Dave Grohl e John Paul Jones con sui realizza un omonimo disco dall’enorme potenziale artistico, poi però rimasto una perla più unica che rara. E poi ancora Trent Reznor e un mucchio di altre cose.
I Queens of the Stone rimangono oggi, effettivamente, il vero figliol prodigo dei Kyuss e forse Songs for the Deaf resta un album che suona come avrebbero voluto i padri, soltanto un po’ più radiofonico (ma sì, nel senso buono del termine).
John Garcia, negli anni – oltre a una carriera da veterinario a Palm Desert – dona la vita a nuovi progetti fondando gli Slo Burn (con un unico disco di pregevolissima fattura, Amusing the Amazing), gli Unida e gli Hermano, oltre a una miriade di collaborazioni che pian piano lo porteranno a essere considerato LA voce dello stoner, senza però tornare più a brillare come un tempo in nessuno dei suoi progetti, nemmeno – ahinoi – quelli solisti.
Nick Oliveri fonderà i Mondo Generator nel 1997 e collaborerà con i Queens of the Stone Age di Homme dal 1998 al 2003, oltre che immergersi in tonnellate di altre comparsate. Brant Bjork sarà anche lui prima Mondo Generator e a seguire invece con i Fu Manchu per poi darsi a una carriera solista, prolifica ma non particolarmente brillante. Nel 2021, proprio insieme a Oliveri, se ne esce infine con un progetto fantozziano dal temibile nome di STÖNER che fa segnare un pessimo disco di debutto.
Quello che era rimasto dei Kyuss verrà portato avanti per qualche anno dai Kyuss Lives!. Nel 2010, poco prima della semi-reunion, viene infatti annunciato un tour europeo dal nome John Garcia plays Kyuss nella cui scaletta sono presenti canzoni quasi esclusivamente dei Kyuss e da lì a poco il progetto sembra rinascere sotto mentite spoglie – purtroppo senza Homme, sostituito da Bruno Fevery, ma comunque con Reeder / Oliveri al basso e Bjork alla batteria. Le cose non durano molto e i problemi legali (fomentati da Homme e dallo stesso Reeder) portano allo scioglimento del progetto poiché il nome Kyuss, anche con il “Lives!” di fianco, di fatto, non è si è ancora capito a chi spetta per davvero. Sicuramente, a quanto pare, non a Garcia o a Bjork.
L’ultimo parto sono i Vista Chino – chiamati così dal nome di un’altra cittadina dalle parti di Palm Desert – con Garcia, Bjork, Oliveri e Fevery. Pian piano, però, dopo un paio di dischi, effettivamente trascurabili, anche questa operazione svanisce e l’egida del grande padre Kyuss sventola sempre meno veemente, non facendo altro che ricordare che il deserto è tanto spietato quanto un tempo era stato benevolo. L’unico augurio che rimane da fare è che, con qualche preghiera in più in suo favore, il suo vento soffi di nuovo nella direzione giusta, magari rimettendo in circolo un nome che echeggia ancora tra le sue dune. O solo portandone avanti i feedback degli amplificatori.