Memphis, 29 maggio 1997 – Jeff Buckley, allora trentenne, si butta nel Wolf River (affluente del Mississippi) colto dall’impulso improvviso di farsi una nuotata, completamente vestito e canticchiando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Sparisce nel risucchio creato dal passaggio di un battello, il peso degli stivali lo trascina sul fondo, con come solo testimone il roadie Keith Foti, che lo stava accompagnando in studio – e annega. Il vero racconto di Grace inizia, come spesso accade, da una fine.
Questa storia inizia dove molte altre finiscono.
Era la didascalia di apertura di qualche vecchio racconto a fumetti.
Ecco, la storia di Grace, e del suo successo planetario, comincia dove d’improvviso si conclude quella di Jeffrey Scott Buckley. La sua morte assurda genera un’aura di mito istantaneo, scolpendo il suo profilo accanto a quello degli eroi tragici del rock, morti giovani perché cari agli dèi, e quindi rimasti per sempre belli, perfetti, romantici, incapaci di passi falsi che ne guastino la memoria.
Tuttavia, usciti dall’adolescenza, possiamo anche renderci conto che il quadro non è la cornice, e cominciare ad apprezzarne il valore di per se stesso. Intendiamoci, non c’è niente di male nel farsi sedurre da una narrativa: è per questo che siamo qui, per raccontarci storie. Con il rimpianto di farlo in colpevole ritardo, e possibilmente con la speranza di aver imparato qualcosa da mettere da parte per la prossima volta che incontreremo un nuovo Jeff Buckley, vivo e vegeto, che cercherà di dirci qualcosa di importante – importante quanto Grace, a pieno titolo uno degli ultimi grandi dischi rock.
Un sospiro – una di quelle cose che sembrano finite lì per caso, uno di quei dettagli a decorazione di una mitologia. Tre note nel buio, e poi una progressione placida, suonata con il giusto senso d’importanza, che alla fine si scioglie in un semplice arpeggio – DO/LA minore, con il passaggio del basso in SI – su cui si appoggia la voce. E sai che è iniziato qualcosa.
Lo sai fin dal sospiro in realtà.
Sì, lo so. Là fuori c’è un sacco di gente che ancora oggi cerca su YouTube “Hallelujah Shrek song”, solo perché, appunto, nel film con l’orco verde in CGI c’è una versione di Rufus Vainwright, peraltro anche gradevole. Ed è pieno di giovani talenti prodotti in serie che ne tagliuzzano porzioni da quindici secondi, cercando di infilarci quante più modulazioni possibile per ottenere quattro sì da una giuria di scappati di casa, e che molto probabilmente nulla sanno delle oltre ottanta strofe scritte da Leonard Cohen in una stanza d’albergo, o della struggente interpretazione di John Cale, o di quella sgraziata e comunque potente di Dylan, che in ogni caso restituisce una sua versione di un messaggio che è certamente in grado di capire. Cosa che non si può dire di chi la canta in chiesa, per esempio.
Fottetevene. Torniamo alle origini. Recuperiamo lo stupore della prima volta che l’abbiamo ascoltata. Sarà il tocco sulla Fender Telecaster bianca, sarà il riverbero sacrale della stanza, saranno la voce commossa, lo splendore e i colori del timbro, sarà il fascino che la sua l’intensità riesce a tirar fuori dall’opera di Cohen, sviscerandone il lato carnale e sensuale, ma c’è veramente poco da dire su Hallelujah. La regina di tutte le cover divide in due l’unico album pubblicato in vita sotto il nome Jeff Buckley, ed è da lì che partiamo, a macchia d’olio, per cercare di catturarne la scintilla.
L’aura di eroe tragico non gli mancava fin dall’inizio. Figlio di Tim, che a sua volta aveva portato la voce umana a limiti estremi e oltre, traghettando il folk americano degli anni ‘60 verso qualcosa di alieno e mai sentito prima – ma un figlio abbandonato, che dovrà fare i conti per tutta la vita con la rabbia e il vuoto causati dall’assenza del padre (morto di overdose prima di riallacciare i contatti con lui). Una delle prime volte che sale su un palco, Jeff lo fa proprio per un tributo a Tim, cantando Never Asked to Be Your Mountain, che il padre aveva scritto proprio come messaggio per lui, oltre che per la madre, la violoncellista Mary Guibert.
Quel ragazzo, portatore di una bellezza vulnerabile di cui forse non è del tutto consapevole, non sapeva neppure – quantomeno allora – che sarebbe stato più famoso e più amato del padre stesso.
Al Sin-é – Irish pub dell’East Village a New York, nonché live club che ha ospitato Waterboys, Sinéad O’Connor, Shane MacGowan e Marianne Faithfull – Jeff passerà a mettere un altro tassello nel puzzle della sua storia artistica, che ben si presta alla leggenda. Si presenta con la sola chitarra elettrica, la Telecaster bianca che lo accompagnerà nella sua pretesa di entrare a gamba tesa nella storia della musica, e si dà completamente, spellandosi, in una delle performance più fuori, sopra e oltre le righe di sempre.
Inizialmente ne ricava un EP di sole quattro tracce, ma dopo la sua morte ne verranno pubblicate parecchie altre, molte delle quali reinterpretazioni di artisti parecchio distanti fra loro, da Van Morrison a Billie Holiday, da Robert Johnson agli Smiths, da Nusrat Fateh Ali Khan a Bob Dylan – shakerati, manipolati e piegati a una voce e a un suono che scalpitano per uscire in tutta la loro forza selvaggia, mescolando dramma emotivo, puro show e scherzo (basta sentire tutti i piccoli intermezzi parodistici e cabarettistici: evidentemente, con le sue capacità si divertiva anche molto).
Sono una persona ridicola, e per vostra fortuna non avete pagato per vedermi stasera. (Jeff Buckley)
Ogni piccolo rumore d’ambiente passa nel microfono, restituendo il calore di pareti dentro le quali molte storie sono iniziate. Anche questa.
Verso la fine del 1993, il ventiseienne Jeff mette insieme una sezione ritmica – il bassista Mick Grøndahl e il batterista Matt Johnson – e va ai Bearsville Studios, a Woodstock. Ha firmato con la Columbia, la cui attenzione è stata attirata dalle performance esplosive – privilegio di pochi fortunati – dei primi anni, e di quella materia grezza sta per fare un album.
Lo affianca il creativo delle sei corde Gary Lucas, con cui aveva già suonato. Michael Tighe ne presterà altre sei. In quel momento, il brodo primordiale del talento di Jeff ha raggiunto la massima ebollizione. Esperienza, talento e studio non gli mancano, e neppure l’ambizione – diciamo pure l’autocompiacimento, al limite del delirio d’onnipotenza. Ha già dato prova delle sue abilità chitarristiche, che rubano anche dal jazz e dai raga indiani, allontanandosi parecchio dalla logica riff-assolo del rock’n’roll per confluire in un accompagnamento elaboratissimo, vulcanico, spesso imprevedibile e perfettamente tarato sulla sua voce.
Già, la sua voce. Ha già stupito molti con effetti speciali, funambolismi vocali che lui fa sembrare semplicissimi. Ha un timbro pieno, particolare, un vibrato raro, un range che sorprende per estensione e altezza, un controllo privo di sforzo e un mimetismo che lo mantiene a suo agio in qualsiasi registro. Ma soprattutto, sul palco si lascia andare totalmente a se stesso, si fa possedere da spiriti misteriosi ed entra in trance. Qualcuno ha cominciato a voltare la testa, rapito, e ad aprire le orecchie; ma molti, nel pubblico, non si sono ancora resi conto di quello che hanno davanti. Lo chiameranno virtuoso, alieno, genio, angelo – ma soltanto anni dopo.
Dieci tracce, di cui tre cover. Da quell’impeto che sembrava impossibile da imbrigliare Jeff ha tirato fuori una cifra tonda, organizzata, e intrappolato il suo suono in Grace, come con un incantesimo.
Mojo Pin è un abstract ideale. Scritta con Gary Lucas, sono i suoi guizzi effettistici che sembrano lamenti di creature lontane a colorare l’arpeggio in apertura. Il resto lo fa la voce, che mai come qui passa in un niente dal sussurro rassegnato a un’esplosione di rabbia quasi grunge. È un pezzo che accarezza e prende a cazzotti, un saliscendi di marea, che contemporaneamente è in grado di trasportarti subito nella dimensione quasi sacra – anzi, pienamente sacra, e pienamente sensuale e carnale – di tutto l’album.
E subito dopo c’è lei, Grace: Jeff scorda il mi basso a re, scrive 6/8 sulla partitura, e crea la magia.
Le sue melodie e armonie non vanno mai dove ci si aspetterebbe, ma seguendo una ricetta misteriosa riescono a rimanere nello spettro dell’orecchiabilità, persino del radiofonico. E ancora il buon Lucas le circonda di vortici di suono, stoppati che diventano rintocchi d’orologio, dettagli appena distinguibili ma che la coscienza percepisce sotto forma di messaggi subliminali dagli effetti quasi psichedelici. E alla fine del pezzo, che si dipana seguendo un’onda di tensione tutta in salita, arriva – preparata da gemiti di rabbia, dolore e piacere – quella lunghissima nota acuta, prima urlata e poi ammorbidita nel suo meraviglioso vibrato, e la voce di Jeff si scioglie in un orgasmo liberatorio, mentre tutto intorno i palazzi crollano, tutto si rovescia, e il mondo sta certamente precipitando verso la sua fine.
Di fondo, nei testi e nelle atmosfere, c’è un senso di perdita che attraversa l’intero l’album. Tutto è già successo, ed è già finito. Quindi, quale titolo migliore per continuare il viaggio, se non Last Goodbye? Qui Jeff condensa tutta la malinconia e la dolcezza che può, sorretto dal basso tondo di Grøndahl come se surfasse sulle onde incostanti di un oceano, mentre appoggia i gomiti sugli archi strappacuore arrangiati da Karl Berger. La canzone segue percorsi sghembi, e ogni volta che ci si aspetta un chorus da cantare tutti insieme per liberarsi dalla tristezza ecco che arriva un’altra sezione, un altro cambio di progressione, umorale come la voce di Jeff, a cui ogni dettaglio dell’arrangiamento è consacrato, senza lasciare niente di futile o superfluo.
Tanto che in Lilac Wine – prima cover del lotto, scritta da James Shelton e già cantata da Nina Simone, che Jeff adorava – lui è lasciato quasi da solo, con pochi elementi a contorno, a fare i conti con se stesso e con i suoi accordi melliflui appena appoggiati, nonché con la disperazione dolce di un doposbornia che, per quanto uno lo voglia, non fa ritornare magicamente l’amata/o. Quello che fa, però, questa traccia, è mettere i brividi a ogni nota cantata. C’è poco da fare.
So Real, visione allucinata partorita insieme a Michael Tighe e completata da un videoclip piuttosto surreale, chiude idealmente un primo atto. C’è qualcosa che deve succedere lungo tutta la canzone, qualcosa che è nell’aria, mentre i «real» del ritornello virano sempre di più sull’acuto, impennandosi – e sdoppiandosi in sovraincisioni di risposta – fino a far rizzare i peli sulle braccia. Lo sappiamo già, cosa succede: è Hallelujah.
Se stranamente non foste ancora riusciti a farvi avvolgere dall’immensità tragica di questo album, ecco pronto per voi il pezzo più strappabudella di sempre: Lover, You Should’ve Come Over. Jeff non si vergogna né del proprio potenziale espressivo, né delle proprie emozioni, né del proprio talento – e le parole che, cantate da un altro con meno convinzione, potrebbero finire per essere solo un ridicolo patema, lui le rende gloriose, grandiose e scintillanti come un dramma shakespeariano.
It’s never over
My kingdom for a kiss upon her shoulder
It’s never over
All my riches for her smiles when I slept so soft against her
It’s never over
All my blood for the sweetness of her laughter
It’s never over
She’s the tear that hangs inside my soul forever
Incidentalmente, questo incredibile sfoggio di pathos ha anche una struttura raffinata e complessa – chi ha mai provato a suonarla lo sa bene, e non è un caso che non ne esistano molte cover in giro. Ma questo non deve sorprendere. Jeff sa bene come giocare le sue carte, compositive, chitarristiche e – chiaramente – vocali, come non manca di ricordarci sul finale, mentre, sorretto da armonie gospel, vola leggero in territori celesti dove molti altri si inerpicherebbero a forza di spinte strozzate, bruciandosi le ali come Icaro. Ma non è una mera questione di acuti da talent show, ovviamente: la voce di Jeff è straordinaria in ogni sua manifestazione.
E come se non ce l’avesse schiaffato in faccia abbastanza, eccolo rifugiarsi su vette degne della miglior voce bianca in Corpus Christi Carol, sognante e ormai lontano dal mondo. Salvo poi spazzare via tutto facendo detonare Eternal Life, il pezzo più violento e distorto dell’album. L’angelo si è incazzato, ce l’ha con le religioni, e ha deciso di fare il grunge a modo suo e di dimostrare che, se vuole, con le sue note può anche graffiare.
Fuck off, just fuck off! Sixties are bullshit. Seventies, almost BIG BIG bullshit. Eighties… I don’t even need to tell you, except for the Smiths, maybe… Shit’s happening now, it’s all about now, now now now. Bigger, faster, sweatier, skinnier, whiter, blacker, Gracer. (Jeff Buckley, Live in Chicago)
Subito dopo, eccolo ripiombare in un mondo onirico, cullandosi su una ninnananna allucinata. È Dream Brother, che con trucchi degni di un genio della lampada chiude Grace.
Verrà riaperto solo dalla bonus track Forget Her, che inizialmente Jeff aveva voluto lasciare fuori dall’album. E anche se il pezzo è molto, molto bello – e inevitabilmente pieno di strazio e tormento – forse è stato saggio da parte sua mantenere l’integrità di un tale scrigno, lasciandoci dentro solo le sue dieci perfette tracce.
Erano pochi a conoscere la combinazione del forziere, fino al 1997. Grace non ha venduto poi tanto prima della morte di Jeff, e i posti che lo hanno amato di più quando era in vita – l’Irlanda, l’Australia, a tratti la Francia – erano separati dagli Stati Uniti da almeno un oceano, in un’epoca in cui le connessioni non erano ancora istantanee. Jeff è sparito dal mondo prima che la sua fama esplodesse realmente, e in qualche modo è stato lui a farla esplodere, lavorando senza saperlo sul proprio mito.
Il talento quasi soprannaturale, la sua bellezza vulnerabile, il suo istrionismo non sempre capito, e una morte spettacolare e surreale in giovane età hanno fatto il resto.
Bono Vox, retorico come sempre, lo acclamava come «una goccia pura in un oceano di rumore». Jimmy Page lo adora, Bowie si sarebbe portato quest’album su un’isola deserta, Dylan lo ha salutato come uno dei migliori songwriter di sempre, e Thom Yorke – insieme con molto del rock dagli anni ‘90 in poi, anche chi non lo dichiara – gli deve tantissimo. L’onda lunga del suo impatto non si esaurisce, e il doppio (postumo e incompleto) Sketches for My Sweetheart the Drunk testimonia che la vena creativa di Mr. Buckley era ben lontana dall’esaurirsi con un solo album.
Ma Grace rimane in cima a tutto questo mucchio di informazioni – e alla puntuale proliferazione di live rimasterizzati, materiale inedito, b-sides, rarità e bootlegs – come qualcosa di compiuto e brillante, un discorso ineguagliato che racchiude l’essenza di Jeff.