Quale è il suono dell’avvenire? E quello delle macchine? Cosa accade se li fondi assieme? Per esempio, che spiani la strada a un plotone di successori commercialmente fortunati e a un certo punto svolti diventando una star.
Il pubblico medio ha poca memoria e gli ingranaggi del pop di consumo ne approfittano spesso e volentieri. Il problema sorge quando artisti di vaglia hanno in carniere una canzone famosissima che è l’unica che la gente ricordi e c’è molto altro da scoprire. Magari già in quel brano celeberrimo che a momenti non riesci più ad ascoltare e forse è diventato una croce per gli stessi artefici.
Un esempio? Eccovi serviti. Se grattiamo sotto lo smalto di una produzione state of the art per il 1981, Don’t You Want Me degli Human League racconta di un pigmalione che non si capacita di essere scaricato dalla sua creatura e perciò un po’ la minaccia e un po’ si strugge. Il dramma metapop perfetto poggia sul cantato lui/lei e su una parte di verità giustappunto meta, visto che Philip Oakey aveva davvero reso famose le adolescenti Susan Ann Sulley e Joanne Catherall invitandole nel suo gruppo. Non lavoravano in un bar e stavano ballando di mercoledì in un locale, tuttavia l’essenza non cambia.
Si tratta comunque di finzione costruita partendo dal reale, perché lei non avrebbe mai mollato una band che tuttora è in circolazione anche se non ha più nulla a spartire con i bei tempi. Se siamo severi con gli Human League, è in ragione di una carriera che da quattro decenni non offre nulla di rilevante e ha conosciuto cadute rovinose. Eppure, quando mescolavano impeto avanguardista e forza comunicativa in un affascinante congegno, questi Devo albionici hanno incarnato un fulgido esempio di musica sintetica.
Per l’uso massiccio dell’elettronica nella new wave, certo, ma anche perché come pochi della loro generazione hanno saputo sintetizzare arte e pop, sentimento e una tecnologia che oggi potrebbe far rima con archeologia. Viceversa, colmando lo spazio dal techno pop all’electroclash, rappresenta un importante tassello di memoria condivisa che mette d’accordo LCD Soundsystem e Nine Inch Nails, Magnetic Fields e Smashing Pumpkins. Tra fumi industriali e aurei orizzonti, è una visione di futuro che non ha smesso di avverarsi. Ascoltare per credere. Ovviamente, senza pregiudizi.
Pare incredibile, ma esiste gente che nega le brutture del capitalismo. Sarebbe una soddisfazione non da poco mostrare loro l’Inghilterra com’era nella seconda metà dell’Ottocento o lungo gli anni Cinquanta, in particolare una città sistemata tra sette colline lontanissima dalla maestosità di Roma. Altro il destino di Sheffield, una macchia di clangori e miasmi incastrata nel South Yorkshire al crocevia tra due fiumi.
Circondata da rilievi ricchi di materie prime, è stata la culla ideale per la produzione dell’acciaio, perfezionata attraverso brevetti come il convertitore Bessemer e l’ideazione dell’inox nel 1912. All’epoca il luogo era un esempio di industrialismo sfrenato da meritare l’inclusione nel saggio sulla classe operaia di Friedrich Engels e figurare tra i maggiori centri di azione sindacale. La vocazione genuinamente socialista di comunanza e cooperazione tra proletari verrà conservata sotto le bombe naziste e durante i primi anni Settanta, quando le acciaierie iniziano a chiudere.
Nel grigiore meccanizzato le vie di fuga sono poche. Attenendoci ai classici di Albione, discrete le compagini calcistiche e poco di rilevante (lontanissimi, ancorché in nuce, Pulp e la Warp) sotto il profilo musicale, tranne Gavin Bryars e Joe Cocker. Sheffield steel, per l’appunto. E nient’altro. Almeno finché la generazione cresciuta a glam, metallurgia ed escapismo sci-fi non inizia ad alzare la voce e – come la Ruhr con il kraut rock prima e Detroit con la techno poi – traspone in musica i panorami inquietanti attorno a sé rivolgendogli contro l’arma del cosiddetto “progresso”.
A Sheffield si è sempre andati a letto presto, ma la crisi petrolifera del ’73 ha mutato lo scenario. Un manipolo di nati attorno alla metà dei Fifties rifiuta l’insensato ciclo produci-e-crepa e si aggrega presso il Meatwhistle, circolo artistico ricavato in un palazzone con il beneplacito e i fondi del comune. Lì Ian Craig Marsh forma i Musical Vomit, ensemble aperto propenso a un teatro dell’assurda crudeltà. Sempre lì bazzicano lo studente d’arte devoto a surrealisti e dadaisti Adi Newton, Glenn Gregory e i suoi travestimenti da donna, il glamster terminale Martyn Ware. La gente giusta nel posto giusto, al momento giusto.
Oltre a gestire il Meatwhistle, Ware si procura uno Stylophone con cui produrre suoni senza spaccarsi le dita sulla chitarra, mentre i Musical Vomit accendono la scintilla e i Cabaret Voltaire li seguono. Arriva il ’77 e Ian e Martyn schifano il punk perché, pur riconoscendone il liberatorio “si può fare”, lo ritengono vecchio. Puntano a un futuro autentico e l’ambizione aiuta a superare giornate in ufficio in cui il computer serve a lavorare. E a intascare lo stipendio con cui procurarsi un Korg 770S e un Roland System 100, aggeggi piuttosto efficaci anche senza formazione musicale. Il tutto alla faccia delle pippe di Keith Emerson, Rick Wakeman e compagnia brutta.
Pieni di entusiasmo e idee, si presentano a una festa di compleanno con Adi a manipolare nastri e la ragione sociale Dead Daughters. Eseguono la sigla di Doctor Who spiegando le loro intenzioni e lo stesso dicasi per il nome adottato allorché le cose diventano più serie: The Future. Previdente, se in testa ti ronzano musiche che guardano alla Germania e ai Suicide con personalità e componi testi usando CARLOS, un programma per computer che trasforma William Burroughs in un cyborg. In tasca una manciata di demo, il terzetto va a Londra in cerca di un contratto dopo aver solleticato le major con un enigmatico comunicato realizzato con una stampante ad aghi.
Intrigante, non fosse che Adi ha registrato i brani su due piste di nastri da quattro: quando i capoccia delle case discografiche li suonano, mescolati ai Future ascoltano contemporaneamente canzoni di altri artisti che stanno sulle piste rimanenti, pensano che quegli stramboidi siano scesi dal Nord per prenderli in giro e li cacciano. L’unico interessato è Chris Blackwell della Island, che suggerisce di modellare il taglio innovativo su un canone quel tanto più tradizionale. Il messaggio viene ricevuto, forte e chiaro.
Complesso e vitale, il materiale ripescato nel 2002 da Richard X su The Golden Hour of the Future è in effetti ostico. Ma a dispetto delle atmosfere plumbee e scarne e della caligine cosmica sedimentata sul BBC Radiophonic Workshop, siamo al capolinea. Newton fonda i Clock DVA e gli altri cercano un cantante: indisponibile Gregory, entra in scena Philip Oakey, amico d’infanzia di Martyn che fa il barelliere all’ospedale. Non ha mai cantato in pubblico, però ha il physique du rôle della star, adorava i Future e scrive il bizzarro testo dello spigoloso, robotico funk Being Boiled. Gli Human League sono realtà.
In principio ci sono Ziggy, Roxy Music, Marc Bolan e Gary Glitter, la distopia di Arancia Meccanica (per ovvi motivi di identificazione, sia il romanzo che il film sono idolatrati dalla meglio gioventù di Sheffield) che apre orizzonti sonori con l’album in cui Walter Carlos trasfigura in chiave moderna concetti e forme della musica classica, l’impronta lasciata dalle visioni apocalittiche dei Van Der Graaf Generator.
La miscela tossica figlia del tetro Yorkshire viene leggermente schiarita da echi Motown e propulsa dalla folgorazione di Trans-Europe Express e dal silicio che Giorgio Moroder sparge sul dancefloor con I Feel Love. Se osservate bene, vedrete solidificare una, ehm… lega che mostra un avvenire in cui i tipici arnesi rock non sono contemplati. In cui si preferisce un nuovo sintetizzatore per confezionare i nastri giunti sulla scrivania di Bob Last della Fast Product, piccolo ma pugnace marchio di Edimburgo.
Costui assolda la band seduta stante e nel giugno 1978 Being Boiled esce su 7”. In copertina, una scritta recita “elettronicamente vostri”, il retro porge l’incubo ballardiano Circus of Death e John Peel apprezza. Intanto, il gruppo rivede la posizione sui concerti, inizialmente scartati per poca confidenza con il palco. Con il vinile nei negozi, sono obbligati a un’esibizione cittadina e, circondati da un muro di televisori accesi, piazzano al posto del batterista un registratore con le basi, lo accendono e suonano, in un gesto provocatorio.
Pochi capiscono e a lungo la faccenda suscita scherno e violenze. Quando una pinta di birra atterra sulle tastiere, Ian costruisce una gabbia di protezione per gli “industrial Blues Brothers” che, riconosciuta la scarsa incisività scenica, assumono Philip Adrian Wright. Lui estrae dalla sua collezione una centrifuga di icone pop, fotografie documentaristiche e fermi immagine di serie fantascientifiche da proiettare durante i concerti. Incassate le lodi di David Bowie, un tour con Siouxsie amplia il bacino d’utenza, sconcertato, nell’aprile 1979, dall’ambient malata in scia ai Cluster dell’EP The Dignity of Labour.
Ultima sortita su Fast Product, perché gli Human League passano alla Virgin con Last nel ruolo di manager, lasciando nel cassetto gemme – anch’esse recuperate in The Golden Hour of the Future – come la stralunata danza siderale Dance Like a Star, la sgroppata Kraftwerk di Interface, una sardonica Disco Disaster, il soul cibernetico da cantina della cover di Reach Out (I’ll Be There), una The Last Man on Earth appropriatamente laconica e raggelata. Sarebbe stato un mini LP con i fiocchi, ora come allora.
A dispetto della libertà artistica offerta, ai piani alti chiedono di rendere la proposta più appetibile e si negozia affinché la disco funk I Don’t Depend on You esca accreditata ai fantomatici The Men. Scarsamente indicativa anche se gradevole, è un flop che persuade la Virgin a non snaturare il gruppo, che in ottobre centra il capolavoro nel 33 giri d’esordio Reproduction e una synth wave tenebrosa, asciutta e illuminata da tenui neon dove palpita un deviato fantasma pop.
Ambivalenza risolta e incanalata negli Ultravox! orrorosi di Almost Medieval e della riverniciata Circus of Death, nelle The Path of Least Resistance e Blind Youth che insegnano il mestiere ai Depeche Mode, nella meditabonda The Word Before Last e nell’orecchiabilità allucinata di Empire State Human, nel magnifico rifacimento di You’ve Lost That Lovin’ Feelin’ – una sfoglia agrodolce da Suicide crepuscolari – e nell’alternanza tra luce e oscurità di Austerity/Girl One (Medley) e Zero as a Limit.
In eccessivo anticipo, i nostri eroi si vedono però scippare il successo da Gary Numan con Are ‘Friends’ Electric? Amareggiati, si chiudono nello studio finanziato da Branson a Sheffield e, per dirla con parole loro, infondono la dignità della fatica nel ponte sul secondo album, l’EP Holiday ’80 che a una lucidata Being Boiled accosta la ribalda Marianne, l’iridescente techno ante litteram Dancevision, omaggio dei Future, lo squadrato rock che sposa Iggy Pop e Gary Glitter nel medley Rock‘n’Roll/Nightclubbing.
Anno nuovo, vita nuova. In maggio Travelogue si piazza sedicesimo accennando una certa apertura e camminando un passo avanti rispetto alla sempre più folta concorrenza con l’aspro umorismo di The Black Hit of Space, il glam futuribile Life Kills, l’articolazione filmica di Dreams of Leaving e gli scenari da Blade Runner disegnati in Toyota City e nel jingle pubblicitario del gin Gordon.
Ciò nonostante, lo stallo ha scavato un solco tra Martyn e Philip. Diverse le prospettive artistiche, il frontman esige una svolta pop che l’altro contesta mentre Last si pone da paciere, suggerendo che intraprendano vie separate riciclando il “brand” del gruppo in una sottomarca discografica. Oakey e Wright non ne vogliono sapere, cercano di portare Ian dalla loro parte e l’addio è inevitabile.
Il divorzio costa caro a Philip, che conserva il nome assumendosi gli oneri finanziari e garantendo l’uno per cento dei diritti sul prossimo album ai secessionisti, pronti a varare l’impresa British Electric Foundation e gli ottimi Heaven 17 con la vecchia conoscenza Gregory. Gli Human League originali si separano quindici giorni prima della tournée europea: tutti sono convinti che i superstiti non andranno da nessuna parte. Si sbagliano di grosso.
A quanto pare, ciò che non uccide ci fortifica. Prova ne sia che spesso una band esce dalla crisi più nera a testa alta. D’accordo: Philip Oakey non sarà un genio, ma neppure uno sprovveduto. Ha un fantastico taglio di capelli, impegni da mantenere e un socio che da poco smanetta sul synth, ma non si perde d’animo perché sa che gli resta una carta da giocare, ora o mai più. Saggiamente, il disinvolto esteta e l’addetto ai visuals rifondano il gruppo partendo da ciò che conoscono: l’immagine. Con un approccio post-moderno, colorano la musica e coprono gli stridori con il fard in un’aura subliminale e quindi ancor più spaventosa.
Dopo aver accolto Ian Burden alle tastiere, Phil vorrebbe un falsetto che contrappunti il suo tono pastoso. In giro per locali, nota Susan Ann Sulley e Joanne Catherall, ragazzine di 17 e 18 anni agghindate all’ultima moda goth-futurista. Scorge qualcosa nel modo in cui ballano, pensa che con gli ABBA la mossa ha funzionato e le ingaggia come coriste. Il giro di concerti è portato a termine tra mille dubbi: della stampa, del pubblico e persino di Bob Last, che comunque difende la scelta di fronte a una spaesata Virgin. Come agli inizi, gli Human League prendono fischi, dileggio e oggetti, li portano a casa e ne fanno propellente per reagire.
A inizio ‘81 replicano su piccolo formato con il nerbo glamour di Boys and Girls, che lambisce il fondo dei Top 50 iniettando fiducia nell’etichetta e in Philip, intento a sgobbare con gli altri e l’ultimo acquisto Jo Callis. Chi li ritiene spacciati non ha calcolato Martin Rushent, abile manipolatore tecnologico che scolpisce il lucente intreccio di ritmi e suoni sintetici di Dare!, successone da milioni di copie che nello stesso momento segna la fine della prima fase post-punk cui apparteneva il vertice Reproduction e l’alba del new pop.
Piegata l’innovazione in fattezze inaudite e subito imitatissime, il disco entra nel mainstream sfondando la porta principale in un crescendo dove i singoli creano clamore e sbancano le charts. Raccolte intorno a un senso di partecipato distacco profondamente attuale nel suo inquieto romanticismo, le canzoni sono di razza, hanno emozioni e dureranno.
Per questo i suoni scolpiti dal Canova del techno pop risultano più databili che datati e si saldano con naturalezza a una calligrafia semplice però mai banale. In un gioco di identità specchiate, Dare! pone in risalto il nucleo pop fino a prima avvolto in un’austera ricerca. Nascosta quest’ultima tra le pieghe della perfezione, cala un asso pigliatutto.
La mossa è chiara sin dall’artwork, ricalcato su un numero di Vogue, omaggiando Bryan Ferry e spiegando quanto l’esteriorità qui sia sostanza. Entrambe sono facce della stessa moneta che si confondono lungo la scaletta, inaugurata dal possente inno anticonsumistico The Things That Dreams Are Made of e chiusa dal tormentone Don’t You Want Me, riff e melodia di istantanea memorizzazione ritenuti da Oakey un mero riempitivo e – ironia della sorte – imposti a 45 giri dall’etichetta in un numero 1 natalizio che l’estate seguente conquista l’America anche grazie al video in rotazione su MTV.
Nel mezzo sfilano la disturbata serpentina su bassi rimbombanti The Sound of the Crowd e la disco a presa rapida Love Action (I Believe in Love), la ripresa del tema di Get Carter e una sinistra I Am the Law, la tristallegra glassa Darkness e i La Düsseldorf in paranoia di una Seconds incentrata sull’attentato a John Fitzgerald Kennedy, il groove terzomondista di Do or Die e la polvere di stelle minimalista di Open Your Heart. Momento irripetibile e, purtroppo, un ritratto sul quale Dorian Gray si appresta a infierire.
I remix creativi del mago Rushent di Dare!/Love and Dancing battono il ferro rovente prima di frantumarlo, imitati a fine 1982 dal northern soul modernista Mirror Man. I tempi sono decisamente cambiati: a Top of the Pops, Susan e Joanne vestono dorato fluo e Philip è al top della mimesi da Ferry che sogna bambole elettriche in piscine di champagne. Ancora per poco, visto che in primavera (Keep Feeling) Fascination distilla vacuità nel primo campanello d’allarme per la formazione, che si impantana, travolta dal lato oscuro della fama.
Scarso nel 1984 Hysteria e idem la collaborazione tra Oakey e Moroder, due anni dopo si propina soul di plastica nell’orrido Crash. Un titolo, una garanzia. Da metà decennio, la sigla senza più idee né senso si coagula attorno alla triade canterina e scivola nelle retrovie fino all’archiviazione. Avanti veloce agli anni Zero: la nostalgia canaglia si mette in moto e gli Human League tornano da simulacri di se stessi, anche se Philip è calvo e le ragazze sono diventate delle Spice Grandmothers a una serata karaoke. In fin dei conti, si tratta pur sempre di umani nati per commettere errori. E lo show business resta un gioco nel quale conta avere, ma soprattutto dare.