Il pub rock non è stato soltanto una mera anticamera di avvenimenti più chiacchierati. Scavando nella sua vena, in realtà, saltano fuori dischi belli, splendidi e addirittura una manciata di capolavori. Uno per tutti, Stupidity dei Dr. Feelgood.
Il rock come dovrebbe essere. (Recensione di Stupidity da parte della fanzine Sniffin’ Glue)
Nel circolo di chi passa le giornate ragionando sul rock e i suoi vasti dintorni, pare che alcuni temi abbiano perso importanza. Giustamente, se parliamo dell’aspro e in sostanza inutile dibattito su chi ha fatto cosa per primo: al netto di plagi e ruberie, il flusso della popular music mostra infatti una serie di continue rielaborazioni dell’esistente, con incastonati nel mezzo coloro che hanno preparato il terreno a chi è finito sotto ai riflettori. Gente spesso poco nota, in assenza della quale il continuum sarebbe diverso e in certi casi nemmeno sarebbe. Un esempio per tutti: il cosiddetto pub rock.
Fenomeno esclusivamente britannico, eppure messo in moto da una band americana di country rock (gli Eggs over Easy) che nel maggio 1971 convince il gestore del Tally Ho di Kentish Town a cambiare la programmazione dedicata solo al jazz. Presto la faccenda si estende a macchia d’olio, raggiungendo lo zenit (e spazi quel tanto più ampi) allorché il progressive degenera nella magniloquenza. In un contesto assai più vario di quanto tramandi la vulgata, qualcuno sposta indietro le lancette al rock’n’roll dei primordi e al blues, al folk e al soul, però non dimentica – anzi: li considera dei modelli – gli Animals, i Rolling Stones, i Pretty Things e svariati altri teppisti da garage.
Nel clima stantio dei Settanta, Nick Lowe, Ducks Deluxe e Brinsley Schwarz rappresentano una boccata d’aria fresca e, tramite quel gran genio di Graham Parker, spianano la strada al nuovo cantautorato dei fuoriclasse Elvis Costello e Joe Jackson. Quanto a preannunciare il punk, se tre indizi fanno una prova ne abbiamo che avanzano. Tanto per cominciare: il ritorno alle radici, al minimalismo, all’attenzione per la scrittura e per l’urgenza espressiva. Un cocktail ad alta gradazione perfetto per un contesto intimo, dove non puoi mascherare la mancanza di idee con virtuosismi e laser, fumi e baracconate. Ecco allora il “non genere” propagarsi perché c’è voglia di musica che torni a essere schietta e coinvolgente.
Una musica che possibilmente annulli la distanza tra artista e pubblico con un colpo di spugna, magari la stessa usata per pulire il bancone dove entrambi siedono, prima e dopo il concerto, a tracannare birra e dimenticare per qualche ora la crisi economica. Roba da proletari mugugnanti che le major schifano, ritenendo – in parte sbagliandosi – che non possa avere sbocchi commerciali. Di conseguenza, i gruppi si rivolgono al sottobosco delle etichette indipendenti con mutuo beneficio, poiché lo stile essenziale comporta registrazioni economiche e, nel piccolo ma floridissimo mercato inglese, un punto di pareggio assai più rapido a cogliersi.
Punk e new wave prenderanno nota sotto il profilo ideologico e pratico. Lo stesso per il look, in certi casi volontariamente, appropriatamente rude da cattivi di un moderno romanzo di Dickens. Ultima ma non meno importante, un’osmosi tra le scene che dall’apprendistato di Joe Strummer nei 101’ers conduce ai Sex Pistols, i quali spiccano il balzo aprendo per Eddie &the Hot Rods nel febbraio 1976. Ovvero, l’anno zero di una tempesta che sconvolgerà il mondo ma avrebbe tardato a imporsi senza chi sta assaporando gli ultimi bagliori di gloria.
Ingrate, le nuove leve avrebbero presto sputacchiato sul pub rock, ciò nonostante la prospettiva storica ha saldato il conto. Dai diamanti non nascono fiori, che siano del male o meno: il cerchio si chiude quando esce il primo reperto discografico del punk “made in UK”, una magnifica e fragorosa New Rose dei Damned. Pubblica la Stiff, allestita da Jake Riviera grazie a un prestito del gentleman Lee Brilleaux, cantante dei Dr. Feelgood. Eccoci al punto. Al Dottore e alla sua elettrizzante medicina.
Wilko Johnson può non essere famoso come altri chitarristi, ma lo senti risuonare in un sacco di gruppi. È un retaggio. (Paul Weller)
Dimmi da dove vieni e ti dirò come sei. Canvey Island è un lembo proteso sull’estuario del Tamigi a poco meno di cinquanta chilometri da Londra. Una zolla di terra gettata nell’Essex che, per via dell’origine alluvionale, nei secoli ha subito continue devastazioni da parte delle acque. Eppure ciò non ha impedito di ospitare abitanti sin dal Neolitico e – dopo la bonifica ai primi del Seicento effettuata da esperti ingegneri olandesi – di trasformarsi in località vacanziera per i nobili vittoriani.
Data la posizione strategica, si è trovata in prima linea durante la seconda guerra mondiale senza subire danni rilevanti. Più importante difendersi dalle mareggiate, come quella che nel ‘53 travolse una sessantina di persone: dopo la tragedia, la protezione è stata più volte ricostruita e, a fine anni Cinquanta, una parte dell’isola convertita in polo petrolchimico caduto in disuso nel 1975.
Tutto questo per dire che chi vive in un luogo strappato al mare e difeso con tipica caparbietà british sarà rude, ma ha cuore e cervello. Quindi non va sottovalutato. Specialmente Wilko Johnson, nato John Peter Wilkinson nell’estate 1947, che a diciotto anni compra la prima chitarra (una Fender Telecaster cui rimarrà fedele), si fa le ossa in decine di gruppi e consegue la laurea in letteratura. Dicevi di grezzoni da bar, scusa? Nel ’72 lavora per un po’ come insegnante, poi molla perché nel frattempo ha messo su una band con Brilleaux (classe 1952, nato in Sudafrica, isolano da quando andava alle medie e dotato di un’ugola da bianco per sbaglio), il bassista John B. Sparks e John “The Big Figure” Martin alla batteria.
Traggono la ragione sociale da un blues ripreso tra i tanti da Johnny Kidd & the Pirates, ai quali Wilko si ispira per lo stile chitarristico, ed è proprio cercando di replicarlo che se ne esce con un personale martellamento ottenuto usando le dita invece del plettro. In apparenza semplice, di certo efficace come la sua calligrafia, il completo nero e il cipiglio da Stone cattivo. Come i salti sul palco, mentre la sezione ritmica tiene tutto assieme con ineffabile aplomb e l’arruffato Brilleaux si sgola nel microfono pensando a Howlin’ Wolf e sputa in un’armonica il fiato che gli avanza. Roba che dopo tre anni di serrata campagna “live” cagiona un contratto con la United Artists.
Nel febbraio 1975 Down by the Jetty è realtà non per modo di dire, poiché la copertina raffigura i Dr. Feelgood schiaffeggiati dal vento di Canvey mentre un cargo transita sullo sfondo. Un calcio in faccia alle arcadie di cartone di Roger Dean e introduzione ideale a un rock – con parecchio roll in Twenty Yards Behind e All Through the City – privo di fronzoli come di banalità, che picchia duro (il medley dal vivo Bonie Moronie/Tequila) e omaggia Bob Dylan (That Ain’t the Way to Behave) e John Lee Hooker tramite Eric Burdon (una favolosa Boom Boom).
Imbevuto di fervore da working class in libera uscita (She Does It Right, The More I Give), si inchina a Bo Diddley nell’apocrifo I Don’t Mind, poi anticipa i Jam (One Weekend, la Cheque Book firmata da Mickey Jupp) e persino i Franz Ferdinand nel groove dell’irresistibile Roxette. All’esatto centro degli anni ‘70, è roba che dà un giro di pista agli imborghesiti Rolling Stones e anche al suo successore.
Fuori in autunno, Malpractice risulta infatti un po’ tradito dalla fretta: non a caso le cover (particolarmente azzeccate I Can Tell, Rolling and Tumbling e Don’t You Just Know It) si impongono sul materiale di Wilko tranne che per la sorniona Back in the Night e una Don’t Let Your Daddy Know da giovani Jagger & Richards. Raggiunge comunque la diciassettesima posizione e soggiorna per sei settimane in classifica. Mica male.
C’è un ponte tra i vecchi tempi e il punk. Sono i Dr. Feelgood. (Jean-Jacques Burnel degli Stranglers)
Il crescendo in termini di vendite e clamore viene costruito mattone su mattone – ovvero: concerto dopo concerto – e idem il rapporto di identificazione e stima reciproche tra i Dr. Feelgood e i seguaci. Per questo nel ‘76 una cricca da bar nel senso più elevato e nobile del termine non può che consegnare la maturità a un album dal vivo. Ovviamente esso incarna la summa del gruppo, nonché uno degli apici della seconda ondata pub rock a fianco del coevo Teenage Depression di Eddie & the Hot Rods (anche loro provenienti da Canvey) e dello strepitoso Nick Lowe annata 1978 di Jesus of Cool. Da ascoltare rigorosamente in vinile e al massimo del volume, Stupidity corona il percorso sopradescritto arrampicandosi al numero uno della classifica nazionale. Meritatamente.
Nell’habitat naturale del quartetto l’energia è incontenibile e la mistura rivvum & blooze più intensa, calda, trascinante che mai. Possente ma non priva di ruvida eleganza, la collaudata squadra di fieri operai dimostra la validità dell’assioma less is more a un incrocio dove convergono autorevolezza, profonda passione e ferrea etica del lavoro. Diviso in “lato Sheffield” e “lato Southend” in base alla località di incisione, Stupidity trasforma pagine altrui in dichiarazioni di intenti (il Chuck Berry illividito di Talking About You, la sferragliante Checking up on My Baby, una mesmerica I’m a Man) e in attestati di classe (una title track scippata a Solomon Burke, Walking the Dog di Rufus Thomas, la travolgente I’m a Hog for You Baby).
Offerto in omaggio alle prime ventimila copie un esplosivo 45 giri con Riot in Cell Block Number 9 e Johnny B Goode, i Nostri vuotano il sacco della loro più pregiata farina, da una scartavetrata I Don’t Mind, al rutilante galoppare propulso dal bottleneck di Back in the Night, passando per le incalzanti Twenty Yards Behind, All Through the City e She Does It Right e i muscoli flessi di Going Back Home. Saluti e apoteosi con l’immancabile Roxette: sopra e sotto il palco, tutti sono sudati, stanchi e felici. Quando la puntina si solleva, prima di ripartire da capo, in lontananza cogli lo scalpitare dell’invasione barbarica punk che calpesterà gli stessi Dr. Feelgood.
Dopo il più che discreto Sneakin’ Suspicion, nel ’77 Johnson sbatte la porta a causa di contrasti con Lee e i ragazzi non si riprenderanno. Continui cambi di organico, il singolo di successo Milk and Alcohol del ’79 e altri dischi passabili e/o pleonastici scandiscono il graduale scivolare nelle retrovie di un nome sostenuto dal manipolo di fan che non perderanno un concerto fino alla dipartita di Brilleaux, falciato poco oltre i quarant’anni da un brutto male. Oggi un gruppo chiamato Dr. Feelgood esiste ancora, anche se nessuno dei membri originali figura più nella lineup.
Meglio sorvolare, annotando che Wilko vanta una più che decente carriera solista, ha sconfitto un cancro allo stomaco e lo potete vedere in quattro episodi di Game of Thrones. Che a Canvey Island si sono tenute venti edizioni del Lee Brilleaux Birthday Memorial, ogni volta devolvendo il ricavato in beneficienza. Che nel 2009, al festival del cinema di Londra, lucciconi e applausi scroscianti hanno salutato la prima del documentario Oil City Confidential girato niente meno che da Julien Temple. Ebbene sì: l’eredità di cui parla Paul Weller è ben conservata. Perché in fondo rock’n’roll è chi rock’n’roll fa. Il resto, signore e signori, sono soltanto cazzate.
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