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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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David Sylvian: parlando di poesia con lo sciamano

Dai Japan a oggi, un Dorian Gray moderno: geniale e bellissimo, ma con l'anima.

Lo si ama alla follia o non lo si sopporta, David Sylvian. Nel clima di omologazione contemporanea già questo basterebbe a dirlo importante, anche se i motivi per considerarlo un grandissimo sono altri. Consapevoli di essere di fronte all’ineffabile, abbiamo provato a spiegarli.

Il ritratto di David Batt

Volendo semplificare, nel cosiddetto rock d’autore esistono due categorie. Da un lato c’è chi sa fare una cosa sola con tali e tante sfumature da conservarla fresca, dall’altro gli eclettici cui non basta elevare il rango della canzone e che pertanto si cimentano con altre forme espressive. Si tratta di un club alquanto ristretto, composto da moderni uomini rinascimentali che indagano il mondo e le sue infinite possibilità ricavandone arte inimitabile benché imitatissima. Uomini che si chiamano Brian Eno, David Bowie, Peter Gabriel e, per arrivare al punto, David Sylvian.

Ognuno vanta un ruolo basilare nell’evoluzione di stili proiettati oltre i confini del rock e ognuno è inclassificabile per natura. Rifiutando la monotonia e conferendo lo stesso peso a spiritualità ed estetica, da par suo Sylvian incarna un benevolo Dorian Gray che, via dalla pazza decadenza, dipinge da sé il fatidico ritratto. Sfuggito al grigiore attraverso la ricerca – e soprattutto il raggiungimento – di nuove forme di bellezza, l’appassionato asceta/esteta ha infuso nel modello dandy di Bryan Ferry la visione Eno-logica secondo la quale prassi, teoria e curiosità si sostengono a vicenda.

In una serie di metamorfosi graduali, l’inquietudine positiva e un efficace dualismo che lo caratterizzano gli hanno permesso di calarsi dentro la propria creatività e allo stesso tempo osservarne il divenire dall’esterno. Si può fare se hai talento e non poni limiti all’ispirazione e alle tue inclinazioni, se ascolti te stesso ma comunichi con il pubblico e di conseguenza lui crescerà con te, accettando l’imprevedibilità come un dono. La chiave sta qui, oltre che nel rapporto tra pensiero ed espressione, e nel mettersi in gioco mantenendo il contatto con la realtà.

Da provetto scacchista, fino agli inizi del nuovo millennio David ha vinto ogni partita. La differenza non da poco è che in questo serissimo gioco ogni mossa ha reagito alla precedente caricandosi in spalla il vissuto, i misteriosi ingranaggi dell’esistenza, una ricerca interiore seria e accurata. A dispetto di chi lo considera distaccato e ne scambia la ritrosia per alterigia o freddezza, è un genio che ha annullato la distanza tra terreno e trascendente, dunque non ha eredi plausibili. Perfetta chiusura del cerchio per un “bellissimo con anima” che da sempre rappresenta un enigma per chiunque. Se stesso incluso.

«La naturalezza è semplicemente una posa, e la più irritante che conosca.»

Grandi in Giappone

Nato nel 1958 sotto il segno dei Pesci, David Alan Batt cresce nel Sud di Londra in una famiglia operaia con la sorella maggiore appassionata di Motown e Beatles e un fratello più piccolo, Steve. Tra silenzio e noia, gli unici raggi di sole li gettano i dischi, ed è grazie a loro che l’adolescente fa amicizia con Andonis Michaelides, pronto a imbracciare il basso allorché papà Batt regala a David una chitarra acustica e il fratellino riceve una batteria.

Privi di esperienza e preparazione tecnica, i tre compensano con l’intuito e un bandolo di idee da sbrogliare. Accanto alla musica nera, trovano gli esempi nella coda della cometa glam: Bowie, Lou Reed, T.Rex, Roxy Music e principalmente New York Dolls, dei quali i fratelli adattano il look in chiave assai più sofisticata e addirittura ne prenderanno in prestito i nomi d’arte (Sylvian l’uno, Jansen l’altro). Debuttano al matrimonio del fratello di Andonis – a sua volta ribattezzatosi Mick Karn – con una ragione sociale che credono sia temporanea.

Big in Japan!

Dopo un annetto di apprendistato i Japan si chiamano ancora così, accolgono Richard Barbieri (tastiere) e Rob Dean (chitarra) e battono trecento concorrenti (inclusi gli altrettanto imberbi Cure) in un concorso indetto dall’Ariola. Nel marzo 1978 una mediocre cover di Don’t Rain on My Parade anticipa Adolescent Sex, che congiunge i cascami glitter con il Duca berlinese tramite omaggi agli Ultravox! (Transmission, Television), funk trasfigurato (The Unconventional, Suburban Love), inevitabili ingenuità e una penna da rodare. Tranne che negli episodi citati e nell’inno omonimo, gli ingredienti faticano ad amalgamarsi.

Un fiasco le vendite, la stampa bastona con acredine finanche eccessiva. Altri sei mesi e Obscure Alternatives aggiusta il tiro con il lugubre reggae …Rhodesia, gli echi XTC di Love Is Infectious, la mesta Suburban Berlin e innanzitutto The Tenant, un bell’indizio di futuro che trasloca Erik Satie nei solchi muti di Low. Consolidato il seguito in Giappone, l’altro concreto passo avanti è la collaborazione con Giorgio Moroder per Life in Tokyo, saggio di melancolia disco che conduce in primo piano groove ed elettronica, preludendo a un LP che inizia a concretizzare le capacità della band.

Melancolia disco e acconciature da Kiss Me Licia.

Prodotto dall’entusiasta John Porter, non a caso con i Roxy e il Ferry solista, nel 1979 Quiet Life offre synth-wave screziato di funk tanto ricercato quanto asciutto. Sylvian impone il baritono senza affettazione, un temerario rifacimento di All Tomorrow’s Parties va a segno ed episodi come la title track, Fall in Love with Me e Halloween inventano i Duran Duran con classe e ispirazione superiori. Eppure all’Ariola se ne fregano di lasciar maturare i ragazzi e li licenziano. Come si suol dire, non tutto il male vien per nuocere.

Gentiluomini con la Polaroid

Il passaggio alla più ricettiva Virgin è un’autentica benedizione, poiché negli ultimi due lavori la crisalide diviene infine policroma farfalla. Polemizzando con il movimento new romantic che avevano anticipato, in Gentlemen Take Polaroids i Japan salutano Dean e affinano l’estetica intellettuale però groovy attraverso tentazioni ballabili (la title track, Methods of Dance), aggiornamenti di soul bianco (Swing, la rilettura di Ain’t That Peculiar) e l’introspezione che adesso ti aspetti (l’incanto Nightporter, la grazia etnologica di Taking Islands in Africa).

Nel senso, quel sax suonato così è più che un semplice "aggiornamento", no?

Ancora meglio Tin Drum, capolavoro che spedisce al quinto posto delle charts la meravigliosa cyber ballata Ghosts, assieme a Oh Superman di Laurie Anderson il successo più improbabile dei primi anni Ottanta. Originale e innovativo, l’album poggia un azzeccato approccio tecnologico al folk e alla tradizione orientale su una scrittura elegante e un’esecuzione impeccabile. Fantasiose e altamente suggestive appunto Ghosts e il riepilogo Still Life in Mobile Homes, restano di sorprendente attualità sia la new wave declinata black in The Art of Parties, Talking Drum e Sons of Pioneers che i raffinati esotismi di Canton, Visions of China, Cantonese Boy.

Uno splendore non replicabile e infatti la fine è vicina. Non più fattore propulsivo, la rivalità tra Karn e Sylvian precipita nella rottura quando la fotografa Yuka Fujii, ex fidanzata del primo, si mette con l’altro e presto ne influenzerà la maturazione. Il triangolo è fatale. In un romantico addio alla terra che li ha adottati, i Japan tengono l’ultimo concerto a Nagoya nel dicembre 1982, mentre i dischi entrano in classifica trainati dal live Oil on Canvas. Ironia della sorte, critica e pubblico si sono accorti di loro.  

Ultima cartolina dall'Oriente.

Dagli alberi…

Alla faccia della pretestuosa e becera “sindrome Yōko Ono”, lo scioglimento era solo questione di tempo. Chiusa l’esperienza, ancora il Sol Levante accende la scintilla del genio solista nella persona di Ryūichi Sakamoto: il tastierista della Yellow Magic Orchestra aveva collaborato alla stesura di Taking Islands in Africa e da catalizzatore di lusso cancella un blocco dello scrittore che affligge David. Dapprima arrangia il singolo Bamboo Houses / Bamboo Music, poi affida all’amico un brano di suo pugno e questi vi incastona un bellissimo testo e una contromelodia audace. Forbidden Colours sarà il tema del film di Nagisa Oshima Merry Christmas, Mr. Lawrence (da noi Furyo) e una discreta, imprevista hit.

Quando Andy Warhol e Ivo Watts-Russell lo tirano per la giacca, Sylvian non ha smanie da star e la prudenza lo premia, poiché nell’84 lo slancio creativo permette a Brilliant Trees di arrampicarsi al quarto posto della graduatoria. Nuovo inizio, nuove metodologie: attorno al cordone ombelicale di Sakamoto, Jansen e Barbieri, il peculiare songwriter convoca colleghi per i quali nutre massima stima e con loro si confronta. Danny Thompson, Jon Hassell e Holger Czukay colgono in pieno i presupposti e il respiro di un pop trasversale di vetro e pastello, curatissimo però minimale, articolato nelle forme e naturale nello sviluppo.   

È in sostanza un gruppo “vero” quello che dipana folk-jazz latineggiante (The Ink in the Well) e liquide mutazioni etniche (Nostalgia), mosaici di imprendibile cantabilità (Red Guitar, Pulling Punches) e funk alieno alla Talking Heads (Backwaters), leggiadrie che guardano a Oriente (Weathered Wall) e struggimenti privi di parole (la title track). Spazzati via gli slavati damerini che dei Japan avevano colto soltanto l’apparenza, il Nostro potrebbe decollare verso una popolarità ancora più ampia: invece di smussare gli angoli e rendersi più potabile, costruisce le perfette fondamenta di una cattedrale tuttora in divenire.

«There is always something to be done, even if it is sitting still and waiting to happen».

L’avanguardia umanista incontra il plauso della critica, eppure David già guarda altrove dedicandosi alla fotografia, interessandosi ai Rosacroce e allo gnosticismo e sistemando i paletti ambient-jazz di Words with the Shaman e Steel Cathedrals. Passa un anno e Gone to Earth simbolizza il suo “dualismo armonico” in quattro facciate di canzoni e acquerelli. Sylvian crede nella complementarità delle due anime – separate su vinile ma in realtà corpo unico – da sobbarcarsi i costi delle registrazioni strumentali per le quali la Virgin non ha interesse. Ha visto giusto, eccome.

Una rimescolata all’organico in cui spiccano Bill Nelson e Robert Fripp garantisce ulteriore freschezza a musiche progressiste che azzardano trattenendo emozioni e comunicativa. Strepitose la suadente Taking the Veil e un’impalpabile Laughter and Forgetting, la fosca Before the Bullfight e l’epopea di elevazione (Fripp corteggia la divinità) di Wave, la notturna delicatezza di River Man e il folk in jazz Silver Moon. La seconda parte va ascoltata come un unicum che, tra carezze e maree, intreccia post-country metafisico e ambient onirica. Ci si arresta sul fondo dei Top 30, ma non importa.

Il video è diretto da Nick Brandt, che poi diventerà uno stimato fotografo naturalista. Già qui dimostra di avere un debole per i paesaggi, in effetti.

all’alveare

Importa che nell’autunno 1987 la stessa bellezza, asciugata di elettricità ed elettronica, costituisca il nucleo di Secrets of the Beehive. Incredibile che il suo artefice consideri un mezzo fallimento questo gioiello che immagina la versione contemporanea di Nick Drake, ma tant’è. Ombrose ballate, una strumentazione in netta prevalenza acustica e misurate glasse di archi ci introducono nel lavoro più autunnale di uno dei musicisti più autunnali di sempre, autentico giardino in penombra evocato dalla copertina di Vaughan Oliver che custodisce l’haiku September, una The Boy with the Gun da chansonnier bowiano e l’aeriforme tensione di Maria.

Altrove Orpheus è il suono del paradiso quando si abbassano le luci, When Poets Dreamed of Angels disegna schizzi di Spagna e The Devil’s Own maneggia il raccoglimento con l’umore del Morricone morbido. Se Mother and Child parte delicata e arriva contorta, Let the Happiness in anticipa i Talk Talk post e la cameristica Waterfront chiude il programma esortando a ripartire. Perfezione che non stanca mai e della quale mai ci si stanca, Secrets of the Beehive. Una rarità, ora come allora.    

Girato da David Sylvian stesso.

Affrontato il primo tour dai giorni dei Japan, nel profondo di un individuo schivo e riflessivo si apre una crepa. Vittima della depressione, guarda in faccia i ghosts of his life attraverso una ricerca spirituale che lo porta al buddismo e per un altro album serviranno dodici anni. Tuttavia non pensate a un Salinger dell’art pop, ché in questo caso un’intensa attività collaborativa indica la necessità di scivolare in disparte con il preciso scopo di reinventarsi.

Gli anni ‘80 sfumano sulle ricercatezze di Plight and Premonition / Flux and Mutability allestite con tre ex-Can (manca Irmin Schmidt) e un’etichetta che, chiesto un pezzo da classifica, si vede recapitare un ingegnoso teatro di microtoni e ansie sospese come Pop Song. A un decennio scarso dalla separazione tornano anche i Japan, ma è più croce che delizia: il capobanda pretende che la vecchia sigla non sia utilizzata, il gruppo improvvisa sforando il budget e cresce la tensione. Una volta completato, Rain Tree Crow suona come un’opera solista e convince con il luccichio di Blackwater, Every Colour You Are e poco altro. L’episodio rimarrà isolato non solo per la dipartita di Karn, avvenuta nel 2011.

Di fatto David sta piegando il tempo e le opportunità a disposizione in una strategia che punta al futuro. Tiene spettacoli con Fripp dove la scaletta è in gran parte frutto del momento e una sera, quasi distrattamente, attacca un’acustica Ghosts. Forse non lo sa, però sta firmando la pace con alcuni dei suoi spettri. Il rapporto prosegue seminando un’attitudine improv destinata a fiorire più tardi, instillando fiducia nelle performance dal vivo e culminando in The First Day, dove un ipotetico cantante dei tardi King Crimson si misura con nevrosi funk, scudisciate al silicio e vigorosi lampi di luce.

David Fripp vs Robert Sylvian.

Dopo la relativa tournée documentata da Damage, il sodalizio termina a parti invertite con un’istallazione per la quale Sylvian scrive le musiche e Fripp i testi. Stufo della vita londinese e dello stress, l’uomo collabora a destra e a manca, sposa Ingrid Chavez e si trasferisce oltreoceano. Nella loro capanna, i due cuori stanno per mettere su famiglia e godersi le gioie domestiche. Lo show business può attendere.

Dentro la foresta

Forse perché abitano in universi paralleli o perché ne arrestano il flusso in una dorata eternità, ma certi artisti hanno del tempo una concezione relativa. L’ex Japan si riaffaccia sulle scene mentre il ventesimo secolo tramonta e l’orizzonte mescola le ultime speranze per il futuro con un vago senso di apprensione. Di tutto ciò non c’è però traccia in Dead Bees on a Cake, catalogo ampio e scorrevole come mai prima, con il valore aggiunto della calma interiore e delle venature roots regalate dal soggiorno americano.

David Sylvian entra negli “anta” da eclettico che porge impasti di folk, soul e trip hop (I Surrender, Thalheim, Cafè Europa), storture di blues colto (Midnight Sun), inchini a Gavin Friday (God Man) e Mark Hollis (Wanderlust), finestre sul Gange (Krishna Blue), ricordi di Miles Davis (All of My Mother’s Names), purezza virile (Darkest Dreaming) e molto altro. In retrospettiva, il sigillo è apposto sul proprio percorso creativo e su un’intera epoca, poiché l’industria sta mutando radicalmente e presto si reclama l’indipendenza con il marchio Samadhi Sound per gestire direttamente il decostruzionismo metapop. Esempi del quale abbondano in Everything and Nothing e Camphor, antologie ricche di rarità e inediti che salutano la Virgin senza rancore.

Anche il matrimonio giunge al capolinea. Le conseguenze dolorose sfociano in un’opera che con spiccata originalità si inserisce nella tradizione dei “dischi del cuore spezzato” avviata da Blood on the Tracks. In un tuffo nell’ignoto, David si ricostruisce in senso sia umano che artistico e nello studio di registrazione casalingo si mette alle spalle il passato. In perfetta solitudine, incide un brano al giorno e, a un certo punto, quella maniera di fare i conti con l’accaduto diventa un gesto liberatorio. Ecco spiegate le composizioni tortuose, i testi che rinunciano alle metafore e tagliano dentro le ossa, un minimalismo di chitarra, voce ed elettronica. Ecco il disco che sterza con più decisione per ragioni evidenti, sottolineate chiedendo a Christian Fennesz e Derek Bailey commenti di puntinismo glitch e ispido action painting.

Con la moglie Ingrid Chavez quando ancora i tempi erano i bei tempi.

Metà atto di estremo coraggio e metà seduta psicanalitica, Blemish richiede impegno ed è parsimonioso di melodia, eppure la frequentazione rivela un’anima che si mette a nudo strappandosi via uno strato dopo l’altro e infine risorge. Per questo la catarsi sistema gli episodi più memorabili all’avvio e in chiusura: il quarto d’ora omonimo snoda una confessione di riverberi e parole intagliate da macigni e levigate, laddove A Fire in the Forest riluce alla fine del tunnel con una poesia sofferta che ripensa Ghosts. Nel mezzo sfilano mantra rabbrividenti, giochi di sospensioni, silenzi, dissonanze. Come per il John Cale di Music for a New Society e lo Scott Walker di Tilt, le mezze misure non sono contemplate: prendere o lasciare.

Lettere morte

A metà del 2003 la critica si spella le mani di fronte all’inattesa rivoluzione. Lasciano viceversa perplessi concerti in cui il britannico è avvolto da una taciturna angoscia. Forse Blemish lo ha svuotato di ogni energia, forse il distanziamento è un sistema di protezione: fatto sta che da qui in poi prevale in lui una dimensione eccessivamente autoriferita. Dopo aver temporeggiato con i remix di The Good Son vs. the Only Daughter, le ospitate e i tour, riprende il filo del progetto Nine Horses in compagnia di Sakamoto, Jensen e un parterre di sperimentatori.   

Benché non imperdibile, Snow Borne Sorrow rimane in ogni caso un divertissement di classe e mestiere più indovinato di Manafon, che nel 2009 continua il processo di astrazione e tuttavia, assente il retroterra esistenziale di Blemish, scivola in un autismo alquanto frigido. Per la prima volta ci si annoia, David appare distante ed è un peccato per la ballata di pieni e vuoti Small Metal Gods, una laconica Snow White in Appalachia e i momenti isolati dove affiora un pizzico di partecipazione.

Quel che si dice un video al rallentatore.

Dopo aver smantellato il suo concetto di pop d’avanguardia, tra una seduta di meditazione e l’altra Sylvian potrebbe anche aver deciso di abbandonare in via definitiva la forma canzone. In effetti, l’attività più recente ha testimoniato ripetute immersioni nel liquido amniotico improv e il punto interrogativo Died in the Wool, che un decennio fa riprendeva i brani di Manafon con Dai Fujikura concedendo qualche inedito e un filo di umanità in più.

Alla luce di tutto ciò, è impossibile stabilire con certezza cosa riservi il futuro. Chiuso nella fortezza tra i boschi del New Hampshire, Dorian Gray sembra prigioniero più del talento che dell’introversione e non vorremmo che si inaridisse come Nick Cave. A chi ha eletto l’imprevedibilità a ragione di vita spetta però l’ultima parola. Nel dubbio, preferiamo sperare – credere, anzi - che stia preparando l’ennesimo rinnovamento. Che prima o poi, seguendo l’istinto cui è sempre stato fedele, torni a raccontarci storie di fantasmi, poeti che sognano e alberi che scintillano.

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