La forma alternativa dell’hardcore moderno.
I Turnstile sono una band da prendere sul serio. Una di quelle, almeno, che continua a portarsi dietro il nome di una certa new shape of punk to come che, in tempi non sospetti, avrebbe dovuto scardinare le fondamenta dell’alternative music e che poi si è arenata in troppe pose e nuove gabbie di genere e pubblico.
Spento l’impeto dei Refused, è infatti la band di Baltimora – appena entrata nella seconda decade di attività – che sembra ridestare un interesse specifico per l’hardcore punk contaminato e ipercolorato. Nessun cenno di sperimentalismi azzardati, quanto più un mood davvero inusuale nell’uso dei canali social, hanno portato i Turnstile a essere considerabili “uno di quei gruppi di cui si dovrebbe parlare di più ma forse è meglio che li conosciamo in pochi”.
Ed è proprio nell’underground musicofilo che il loro contributo regge meglio la candela. Lo spettacolare quarto disco della band di Baltimora è tutto groove, riff e passione. Non è un album hardcore crossover che cerca di trascendere il genere, piuttosto uno che prova a elevarlo alla sua massima esposizione. Glow on è una sinossi dell’intera esperienza Turnstile: power chords cazzuti, un piglio alt rock accecante, drum machine e degli inserti funk che rendono il tutto intrigante, come dovrebbe essere quando si è capito cosa davvero si sta facendo con gli standard di genere e lo si vuole far arrivare, comunque, a un pubblico vasto. Hipster, alternativi, indie-rocker, metallari, poco importa.
Blackout esprime bene il concetto nei suoi tre minuti di sunto del discorso magno. Brendan Yates capisce che quello che deve fare come frontman di un gruppo hardcore è quello di intrattenere. «Se ti fa sentire vivo!/Beh, allora sono felice di provvedere!» urla. Che ne parlino tutti bene (interessante l’articolo su Forbes), concordando che sia uno dei dischi migliori dell’anno non può essere un caso. Benvenuti nella TLC, la Turnstile Love Connection.
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