La lucidità magicamente ritrovata.
King’s Disease II è, senza mezzi termini, la cosa migliore prodotta da Nas negli ultimi anni. Rispetto al primo capitolo del 2020 – nostalgicamente votato a un recupero anni Novanta soprattutto in sede di produzione – qui la volontà di svecchiamento è evidente e super efficace. Beat pazzeschi, un rap in forma smagliante e una lucidità di penna che da tempo che non gli sentivamo appartenere (tralasciamo le passate sbroccate no vax, misogine o inutilmente razziste). Questa volta Nas sembra unicamente concentrato a ribadire una volta di più quanto tra i (pochi) rapper di un certo livello usciti – quasi – indenni dagli anni Novanta lui sia ancora uno dei pochi a spiccare, per bravura e freschezza.
Tra gli episodi migliori in scaletta si staglia sicuramente Death Row East, dove parla di hip hop culture con un’aura da sopravvissuto che scavalca la nostalgia. Un panzer irresistibile, con un ritmo molto danzereccio che sembra prodotto dai Chinese Man (tra vocina pitchate e campioni polverosi, scratch ecc.). Qui il testo ripercorre quel preciso momento dei Nineties in cui – in pieno beef tra i due poli del rap USA – sembrava che la Death Row (appunto) potesse estendersi anche alla East Coast, prima che la morte di Tupac cambiasse tutto e la label collassasse su sé stessa e sulle magagne di patron Suge.
Ok che i virtuosismi nel flow sono sempre stati il suo pane, ma lo ripetiamo: era da un bel po’ che non sentivamo quest’uomo così lucido e a segno.