Spesso il pop assomiglia a un quadro di Escher, che più si avvolge su se stesso e più appare diverso. Inafferrabile e familiare, rinasce ciclicamente come una fenice dalle sue ceneri o, più precisamente, da radici che smonta e ricostruisce intrecciando presente e passato, concretezza e fantasticherie. A prescindere dalla forma, è un cosmorama mentale che lascia riaffiorare cose sepolte o che neppure sapevi di custodire. Un repertorio di immagini, parole e suoni sedimentati come fantasmi che viene voglia di abbracciare sapendo che ricambieranno.
C’è un luogo che ho visto
Da qualche parte tra il sonno e la veglia.
Di fatto, la “musica leggera” si basa su una persistenza di ricordi condivisi che richiede di soffiare via solo un po’ della polvere che la ricopre perché in questo modo la magia può durare all’infinito. Lei e il viaggio tra realtà e sogno dove da qualche parte Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel si riposano appoggiati al TARDIS raffigurato sul retro di Moon Safari. Metà furgoncino Volkswagen da hippie e metà Space Shuttle costruito con rimasugli di modernariato, è assai robusto, affidabile e più grande all’interno. Rilassati e amichevoli, i piloti ci invitano a bordo per condurci in luoghi dove le cose brutte sono confinate poco fuori dallo sfondo e dove tutto può succedere.
Per esempio, che il Canterbury sound, il funk, la disco e l’elettronica siano gli ingredienti di un cocktail inebriante se preparato da mani esperte e raffinate. Se chi ce lo offre concepisce la musica come un gioco serio e affascinante, come un sogno che qualsiasi appassionato ha fatto almeno una volta: quello in cui camminiamo per le vie di una città sconosciuta, entriamo in un negozio e troviamo tutti gli album che desideriamo da sempre. Con la differenza che all’alba gli Air non svaniscono, perché sono composti da frammenti di memoria retrofuturista.
A proposito: vi ricordate il French touch? La scena parigina che con autoironia chic ha ricombinato la house a botte di funk e disco, filtri e compressioni, loop ipnotici e taglia-e-cuci hip hop? Per quanto le sue origini si spingessero più indietro, esplose lungo la seconda parte degli anni Novanta, durante l’ultima festa di un pianeta consapevole del tramonto storico cui andava incontro. Da qui il valore aggiunto di un vago senso di malinconia che aleggia sui momenti più significativi, come l’iridescente gioiello Music Sounds Better with You degli Stardust.
Accanto a Étienne de Crécy, St. Germain, Motorbass, Cassius e Daft Punk c’era un filone più tangenziale rispetto al clubbing, tuttavia sovrapposto a esso in una fitta serie di amicizie e collaborazioni da risultarne inscindibile. Diversa benché altrettanto gustosa la ricetta: delizia di ritmi rallentati e atmosfere distese che amalgama trip hop, easy jazz, funk, souledelia, scampoli di rock prefissato kraut e art, Sixties pop, suggestioni da colonna sonora… Tutto insieme, tutto possibile. E tutto squisito, quando in cucina comandano gli chef stellati (e stellari) Godin & Dunckel. Benvenuti nel loro meraviglioso mondo. Il mondo che stavamo aspettando senza saperlo.
Fin da bambino fantasticavo di incidere un classico. Alla fine ci sono riuscito: la notte in cui registrammo “Sexy Boy” sapevo che la mia vita sarebbe cambiata. (Nicolas Godin)
Pur essendo cresciuti a Versailles negli anni ‘70, i due si incontrano soltanto un decennio più tardi tra le fila degli Orange, gruppo indie in cui Jean-Benoît – appassionato di astrofisica e fantascienza, alle spalle studi di matematica e il conservatorio – milita con Xavier Jamaux, Jean de Reydellet e Alex Gopher. Prima di salutare tutti per la carriera solista, quest’ultimo introduce Godin nella lineup e, sciolti i ranghi, tra un esame e l’altro di architettura Nicolas pone le basi degli Air. Un conoscente chiede un brano da inserire in una compilation della Source e lui consegna il morbido trip pop Modular Mix. Quando la prestigiosa Mo’ Wax lo ristampa, le cose si fanno più serie e Dunckel entra nel progetto.
Data la scarsa sintonia con le radio nazionali pensano di durare poco, tuttavia non hanno considerato l’allineamento di pianeti tra French touch, orgogliosa perseveranza e talento cristallino. Il grunge è ormai un ricordo e il britpop è agli sgoccioli: c’è fame di novità ed ecco un balsamo per mattine domenicali che seguono il weekend trascorso a ballare. Ma non solo. Ecco l’attenzione per la scrittura, una garbata impostazione avantgarde, la cura per gli arrangiamenti e l’assieme. Ecco una dolce tristezza che permea sonorità mai puramente elettroniche né del tutto rock. Se proprio volete una descrizione, “romantico pop psichedelico da lounge siderale” potrebbe essere centrata. All’incirca.
Ardui da inquadrare, i ragazzi. Maneggiano diversi strumenti e vantano gusti di un’eterogeneità complementare che dalla classica conduce a Siouxsie attraverso alcuni punti fermi – Kraftwerk, Beatles, Brian Eno, David Bowie – però non fermandosi lì. Oltre all’eclettismo, uno dei segreti risiede nell’abilità con la quale distillano molteplici suggestioni in qualcosa di originale, come suggeriscono le uscite su piccolo formato del biennio ’95-’97 raccolte in Premiers Symptômes. La Virgin apprezza, li assolda e per Jean-Benoît è l’occasione della vita: pochi soldi e una famiglia cui provvedere, ci mette tutto se stesso per la gioia dell’amico. E, va da sé, anche la nostra.
La passione che sostiene l’urgenza espressiva rappresenta un altro punto di forza, saldato all’equilibrio con cui gli Air gestiscono la tecnologia e un approccio da band “vecchio stile”. Sfacchinano a Parigi ma registrano gli archi ad Abbey Road, cantano in inglese con un (paradossale, per la madrepatria) pizzico di esotismo, scrivono canzoni stupende e ne affidano un paio – le più adatte: All I Need e You Make It Easy – a una vicina di casa, l’americana Beth Hirsch. Dallo stesso misto di beata incoscienza e focalizzazione scaturisce Sexy Boy, futuribile kraut pop propulso da melodia eterea e un basso fuzz minaccioso ma plastico.
Singolo di grande successo e classico immediato al pari del capolavoro che lo contiene, aperto sulla sofisticata sinfonietta La femme d’argent – Serge Gainsbourg ostaggio dei Caravan nelle lande di In a Silent Way – e suggellato in assoluta circolarità dallo space jazz Le voyage de Pénélope. A scortarli l’orbitante Electric Light Orchestra di Kelly Watch the Stars, il sublime soul bianco a gravità zero All I Need, i Beach Boys in gita sulla Autobahn di Remember, una Ce matin là che svela l’influenza di Burt Bacharach. A una Talisman vaporosa però tesa rispondono la leggiadra You Make It Easy e la dedica al figlio di Dunckel – Ennio Morricone arrangia The Dark Side of the Moon, vi va? – di New Star in the Sky. Sì, in cielo c’è davvero una nuova stella.
Fino al febbraio 1998 gli Air erano un nome per addetti ai lavori. Il mese successivo Moon Safari inizia a scalare le classifiche e si rende necessario un tour mondiale. Tirato il fiato, gli artefici collaborano con Sofia Coppola e a due anni dal debutto il commento a Il giardino delle vergini suicide regge benissimo anche slegato dalle immagini. Jean-Benoît e Nicolas dimostrano di pensare in grande e coronare ambizioni a tutto tondo, ponendo in risalto toni riflessivi e un’idea concisa di progressive.
In un programma che alterna bozzetti e tracce più elaborate, spiccano l’avvolgente pop intinto nella black di Playground Love, un’ipnotica Dirty Trip sottratta a David Axelrod e l’inchino ai maestri italiani Empty House, ciò nonostante è l’insieme a cogliere il dramma del film con il continuo oscillare su una corda che separa gioia e disperazione. Tipicamente adolescenziale, tipicamente Air. Dissolvenza.
Preferiamo essere tipi normali che fanno cose strane in studio con spirito libero. (Nicolas Godin)
In posizione defilata rispetto a un tocco francese sul punto di essere fagocitato dal business, il duo non ha fretta. Nella tarda primavera 2001 riappare con un album che sconcerta solo chi ha considerato il lavoro con la Coppola un divertissement, poiché in 10,000 Hz Legend latitano ganci immediati a favore della naturale complessità. Ci sta che il pubblico storca il naso, meno che la critica non apprezzi l’allontanarsi da ciò che – a causa di troppi imitatori – è divenuto uno stereotipo. L’opera più arty del catalogo mostra coraggio e centra il bersaglio poggiando su trame infoltite e aprendo l’inquietudine del nuovo millennio a sbuffi di (auto)ironia.
Parlano chiaro la robotica Electronic Performers che dispensa ansia e guizzi di levità, il mesto cyber folk How Does It Make You Feel? e una mordace Radio #1 da Jeff Lynne a braccetto con gli Sparks. Non valgono meno l’oppiaceo post-blues The Vagabond intonato da Beck, i Massive Attack in bucolica agitazione di Radian e il torbido synth wave Lucky and Unhappy, laddove People in the City e Wonder Milky Bitch teletrasportano il West immaginario di Morricone e Lee Hazlewood in remoti angoli della galassia e Don’t Be Light sono i Neu! in vena di umorismo. Alla fine, dalla tela di rimandi emerge uno stile riconoscibile perfettamente focalizzato. Lo stesso non si può dire per City Reading (Tre storie western), realizzato nel 2003 con Alessandro Baricco unendo musica e letture del libro City con esiti trascurabili.
Chiusa la parentesi, complice la coproduzione di Nigel Godrich e gli archi curati da Michel Colombier l’anno seguente gli Air conciliano pop e avanguardia in Talkie Walkie. A questo giro parrebbero di nuovo aprirsi, ma siccome sono soliti nascondere l’oscurità sotto veli spensierati, una brezza di alienazione soffia lungo la giostrina Alpha Beta Gaga mentre l’irresistibile Surfing on a Rocket e la languida Cherry Blossom Girl profumano di amarezza. La stessa che intravedi nell’aura lisergica di Universal Traveler, nei chiaroscuri folktronici Run, Another Day e Biological, nell’acquerello alla David Sylvian Alone in Kyoto e nell’incantata Venus.
Superata la boa del difficile terzo album, la metà del decennio scorre tra tournée, una sortita di Dunckel con lo pseudonimo Darkel, la stesura/regia/esecuzione di 5:55 di Charlotte Gainsbourg e un volume dei Late Night Tales, illuminante per la disinvoltura con la quale inserisce Black Sabbath, Robert Wyatt, Elliott Smith e Maurice Ravel in contesti chillout. Nel marzo 2007 Pocket Symphony coglie ancora in contropiede: inciso pressoché in contemporanea con 5:55, ricicla gli ospiti Jarvis Cocker e Neil Hannon e nel titolo cita la definizione usata dal giornalista Derek Taylor per Good Vibrations. Parrebbe uno sfizio, ma non è così.
Consapevoli di abitare nell’Olimpo, Dunckel e Godin sottolineano la lor condizione tra le righe. A dispetto della copertina, non sono statue di ghiaccio o giganti di vetro: nessuna freddezza o fragilità in artisti che declinano il romanticismo degli inizi in un’eleganza austera e umorale. Del resto non sono più quelli del 1998, e neppure noi che ne apprezziamo la brillante maturità (One Hell of a Party, Photograph, Redhead Girl), l’introspezione dal taglio cinematico (Space Maker, Mayfair Song, Night Sight) e le compiutezze formali ricche di sentimento (Once Upon a Time, Mer du Japon, Somewhere Between Waking and Sleeping). Finita la festa, si abbassano le luci. Applausi.
Per quanto mi riguarda, un gruppo ha al massimo dieci anni di gloria. Dopo di che sarà meno interessante, qualsiasi cosa provi a fare. (Nicolas Godin)
Che altro dire, se non “viva la sincerità”? Innegabile che i Nostri sappiano piegare l’esistenza nell’arte e viceversa. Durante il 2008 si esibiscono dal vivo in formato power trio adottando un minimalismo che conservano per la registrazione di Love 2, nel loro Studio Atlas inseguono una pronunciata accessibilità e ne cavano una manciata di canzoni à la Air. Non è una mossa sorprendente dare alla gente ciò che si aspetta quando meno se lo aspetta? Prova ne sia che nel disco non manca nulla, dal collaudato arsenale strumentale all’immaginario retromaniaco, passando per carinerie troppo frizzanti per non celare altro.
Stavolta, invece, le cose sono esattamente ciò che sembrano. Incluso l’affacciarsi di una patina di manierismo e di una certa stanchezza in un vaso per lo più di coccio, che contiene pop per il terzo millennio senza dubbio piacevole, però scarsamente incisivo. Fanno eccezione la flessuosa Do the Joy e gli Human League rivisitati di Missing the Light of the Day, la delicata sensualità di Heaven’s Light e una Night Hunter che ricorda i Can di Soon Over Babluma. La coppia si rende conto della flessione e si accinge a chiudere un cerchio.
Decollati con un safari sulla luna, gli Air omaggiano Georges Méliès, il primo regista che diede importanza alla fantasia immaginando un viaggio sul nostro satellite. Nella loro colonna sonora di Le voyage dans la lune, la distanza tra 1902 e 2012 viene colmata con la spontaneità di chi decide la direzione da intraprendere e con ricercatezza raccoglie lo stupore e gli stridori di inizio Novecento, ricordando l’importanza dell’Art Nouveau nell’estetica acid pop, ammiccando alle pietre miliari del genere e regalando una Seven Stars dove Victoria Legrand recita da sirena cosmica.
Di tutt’altra natura Music for Museum, ostico saggio di astrattismo al silicio realizzato per un’istallazione dal Palais des Beaux-Arts di Lilla e pubblicato nel giugno 2014 in mille copie di vinile. Poi basta, o quasi. Dalle sale dei musei altrui alle proprie il passo è breve: nel 2016 il lapalissiano Twentyears ripercorre la carriera dei transalpini con tutti i crismi del sigillo. Se diamo per valide le dichiarazioni del sibillino Godin, in futuro gli Air potrebbero approfondire il lato sperimentale o essere archiviati una volta per tutte. I veri campioni, comunque, sanno quando è ora di ritirarsi.