Un disco che dire seminale sarebbe come sminuirlo. La faida tra la band e il produttore Martin Hannett, la malattia di Ian Curtis, i perché di un mito e come ritrovarli nelle vetrine della grande distribuzione di abbigliamento.
Una volta John Cale, discutendo il fallimento commerciale dell’album Marble Idex di Nico disse: «si tratta di qualcosa di artificioso, non si può impacchettare il suicidio». Ma i Joy Division dimostrarono il contrario con Unknown Pleasures. Bisognava solo essere molto selettivi riguardo al tipo di carta da usare. (Dave Thompson)
Non dovrebbe sorprendere poi così tanto che Unknown Pleasures, accolto dalla critica con fervore già all’uscita, avesse all’inizio registrato vendite più deprimenti del disco stesso. I giornalisti, credendo di fare un favore alla band e seguendo l’ispirazione del proprio contorto entusiasmo, tennero alla larga la gente con declamanti tetraggini tipo: «Ecco l’album che avreste voglia di ascoltare prima di ammazzarvi» (Sounds) o definendo i Joy Division come “gli alfieri della death disco”.
Sempre nel 1979, Johnny Rotten, guarda caso, aveva intitolato proprio Death Disco un singolo dei suoi Public Image Ltd riscuotendo pure un discreto successo. E un anno più tardi, guarda caso ancora, Ian Curtis, spiritato e posseduto cantante della band, deciderà di uccidersi sul serio. Solo che sul piatto del giradischi non troveranno appunto Unknown Pleasures, come suggeriva Sounds, ma The Idiot di Iggy Pop.
Da lì in poi, dati alla mano, Unknown Pleasures impiegherà due anni a entrare nelle classifiche di vendita inglesi.
I motivi furano vari. Primo fra tutti il fatto che il pubblico ne fosse, comprensibilmente, un po’ atterrito. E come dargli torto? I Joy Division erano una sorta di piaga aperta sulle viscere sonore della putrefazione emotiva. Quella musica e quei testi erano la perfetta chiave per un mondo grigio e intossicante come i fumi di scappamento di Manchester, terra di musica e demoralismo spinto che aveva dato i natali e i veleni costitutivi a quei pischelli dimessi.
Ian Curtis, da parte sua, mai ha mancato di contestare, in modo abbastanza carente di vitamine, ma fermo, che la visione così nera dei giornali riguardo le sue canzoni era semplicemente miope. Secondo lui in Unknown Pleasures non c’erano solo disperazione e distruzione, quelle erano roba da heavy metal. E i Joy Division suonavano qualcosa di molto diverso dal metal. C’era anche molto altro dentro quelle canzoni, diceva Ian. C’era il futuro. Anche il suo, purtroppo.
La notorietà che aggredì il gruppo – dopo che per molto tempo, durante la gavetta, si era trovato a mangiar polvere di stelle dietro band cittadine come i Buzzcocks, i Fall e i Distractions – scombussolò non poco l’equilibrio mentale dei suoi membri.
Notorietà che però, Curtis e gli altri, avevano cercato eccome, usando – tra l’altro – anche metodi invero discutibili. Prima la sparata su Rudolph Hess durante l’esibizione all’Electric Circus, che suscitò indignazione in tutta l’Inghilterra, poi l’idea di trarre ispirazione per il nome nuovo – in principio si chiamavano Warsaw – direttamente da un romanzo pulp-nazi del 1955 dell’autore Yehiel De-Nur (per gli amici Ka Tzetnik 135633) da noi noto come La casa delle bambole.
Il libro parla della Divisione Gioia, gruppo di giovani donne internate ad Auschwitz che venivano usate come prostitute dalle SS e, secondo l’interpretazione di Ian, quel soggetto letterario becero e imbarazzante era la perfetta metafora di come si sentiva lui quando si agitava sul palco, dandosi in pasto a un pubblico famelico di carnale superficialità e dolorose bugie.
Sono un uomo violentato, umiliato in un corpo che non riesco a controllare. (Ian Curtis)
Nonostante la metafora attendibile, Curtis dovette tenere ben presente l’effettivo scalpore che era in grado di suscitare scoperchiando la tomba del Reich. Del resto, la tecnica non era nuova: anche i Banshees avevano tentato una cosa simile, con il brano Metal Postcard (Mittageisen), presente nel loro album di debutto The Scream.
In altri termini, c’era un calcolo preciso da parte di Ian e dei Joy Division. Strizzare l’occhio alla bestia hitleriana durante i clamori interni per l’ascesa dell’organizzazione di estrema destra National Front, che tanto aveva destabilizzato l’opinione pubblica inglese. Non era il momento per giocare con certi simboli eppure il gruppo lo fece due volte. Volevano solo scherzare, ma smisero di ridere quando la zappa gli calò definitivamente sul piede rallentando ulteriormente le vendite del loro primo disco.
Agli americani può anche capitare di cantare quanto è bella una giornata. Mentre per gli inglesi è sempre una giornata veramente di merda. (Peter Hook)
Unknown Pleasures venne prodotto da Martin Hannett, la cui storia è legata a doppio giro con quella dei Division. Non a caso, infatti, nonostante abbia continuato a produrre band di un certo rilievo, il suo nome e le sue idee restano sposate al debutto della band di Manchester.
La completa libertà di azione e la grande opportunità che la band gli offrì, permisero a Hannett di sbizzarrirsi con i metodi originali che aveva in mente di sperimentare. Loop, sample industriali e altre cose poco ortodosse. Una su tutte: si dice che durante le registrazioni abbia obbligato Stephen Morris a smontare la sua batteria per poi ricostituirla dopo l’inserimento di pezzi presi da una toilette.
I Joy erano il regalo ideale per un produttore con voglia di tentare cose nuove. Il loro sound era spazioso e non se ne rendevano neanche conto. Quindi mi lasciarono fare senza obiezioni. E potei occupare quei solchi vuoti con tutto ciò che ritenni opportuno. (Martin Hannett)
Per la verità qualche rimostranza Martin la ricevette. Le registrazioni durarono un paio di settimane e vengono ricordate dagli ex membri della band come qualcosa di estremamente stressante e avvilente. In particolare, a rendere impossibili quei loro giorni fu proprio l’atteggiamento dispotico e inappellabile del produttore. Sovraincisioni di rumori di bottiglie infrante, patatine masticate e persino le esplosioni di un videogioco sul brano Insight: quei ragazzi non potevano apprezzare certe intuizioni. Erano troppo giovani e inconsapevoli.
Per quanto mi divertii a registrare finalmente un disco professionale e ben fatto, non mi trovai molto d’accordo con Hannett. Io volevo dei suoni più potenti e rock, invece lui optò per qualcosa di più etereo e onirico. Dopo anni ho capito che era la cosa giusta da fare ma allora me ne uscii dagli studio con un broncio così. (Peter Hook)
Le session durarono un paio di settimane agli Strawberry Studios di Stockport e Unknown Pleasures si portò fuori degli animi molto provati, un nuovo sound e soprattutto un eroe destinato alla più epica di tutte le sconfitte.
Nato dalle ceneri melanconiche di Nick Drake, unite alla rapsodica sensibilità di Peter Hammill più Bela Lugosi agli scampoli di carriera alterato da dipendenze varie, Ian Curtis aggredì da una caverna dell’Io i platonici trogloditi della metropoli quotidiana. Il suo messaggio è un distillato di sofferenza così puro che quando il cantante avrà i primi attacchi epilettici sul palco, saranno scambiati come trovate sceniche coerenti e inevitabili di un discorso artistico esasperante e immorale.
D’altro canto la critica prenderà molto sul serio i Joy Division. Più di quanto farà con i Bauhaus, i Cure, Siouxsie and the Banshees o i Sisters of Mercy. E dopo le recensioni anche il gruppo stesso maturerà definitivamente una vocazione apocalittica da cui sarà difficile uscire tutti sani e salvi.
Si può dire che i Joy Division di Unknown Pleasures siano stati un buco nero terribile scoperchiato inconsapevolmente dall’industria discografica. E che l’agnello sacrificale che avrebbe consentito al mondo di saziare ed esiliare la voragine/dio nei suoi stessi abissi, avrebbe potuto essere solo uno spirito virginale e votato all’autodistruzione come Curtis.
In pratica Ian visse la sua esperienza nella band come una malattia terminale. Scoprì di essere epilettico quando era già nel gruppo e da lì le cose peggiorarono sempre di più.
Quello che scrive la moglie Deborah nel suo libro autobiografico dal titolo Così vicino così lontano, chiarisce una volta per tutte le dinamiche della parabola distruttiva di suo marito.
La vita personale di Ian si disintegrava e quella professionale decollava. Le due cose erano collegate in questo modo. Il gruppo era chiamato a fare da headliner ad alcuni festival e nel mentre Ian deperiva nell’indifferenza di tutti quelli che credevano di vederlo e adorarlo. (Deborah Curtis)
Oggi l’epilessia è una patologia ben più gestibile di quello che era ai tempi di Unknown Pleasures. Allora, come conferma anche il bassista Peter Hook, «il problema era più misterioso e difficile da affrontare». Curtis una volta portò fuori il cane di casa e tornò che sembrava l’avessero pestato. Un’altra volta rimase come uno zombie immobile durante tutto il tempo mentre i suoi amici lo circondavano e tentavano di destarlo.
Ovviamente non era tutto qui. Agli attacchi si accompagnavano gli sbalzi d’umore e la depressione, che trovò nella musica dei Joy Division l’unica via di comunicazione concessa. Peccato che quegli «Aiuto!» erano destinati a non trovare una via rapida per essere consegnati. Nessuno voleva venire in soccorso di Ian. Toccava a lui.
«Sono troppo stanco, non ce la faccio a durare per molto ancora» cantava nella claudicante cavalcata di New Dawn Fades. Rileggere oggi i testi di Unknown Pleasures rende palesi un disagio e una sofferenza che al tempo nessuno percepì, o per lo meno non associò direttamente a Ian Curtis. O forse era così magnifica quella litania desolante rivolta all’inferno, che non ci fu un cane che ebbe il coraggio di interromperla per aiutare un ragazzo malato.
Non vedevamo la malattia. Eravamo solo dei giovani ubriaconi di Salford, che suonavano insieme. I comportamenti di Ian erano “da Ian”. Punto. Non ci soffermavamo a parlare di un male da curare, o di un grave problema da risolvere”. (Peter Hook)
Eppure Curtis, di epilessia, ne parla anche nel disco. Lo fa raccontando la storia di un’amica, morta a causa di un attacco. Il pezzo si intitola She’s Lost Control. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
La sera del settembre 1979, i Joy Division si esibiscono alla BBC. Dopo lo show il pubblico sommerge l’emittente di telefonate rabbiose. Tutti si erano sentiti offesi dall’atteggiamento del frontman. Sembrava drogato e impegnato a “simulare” un attacco epilettico. Curioso come il capezzolo di vetro – definizione catodica dell’autore Harlan Ellison – distorca il vero falsificandolo e il falso rendendolo vero. Ian non era strafatto. Non c’erano droghe nel suo corpo. E quell’attacco tanto scandaloso e riprovevole era autentico e non voluto.
Il mondo si avvicinerà a quel demone austero e sofferente, solo dopo che inzierà a spargersi la voce della sua morte. Appena un anno più tardi, infatti, nel 1980, finirà tutto. Giusto il tempo di passare in TV un film di Werner Herzog che forse gli darà l’ispirazione definitiva. Si intitola La ballata di Stroszeck e racconta la parabola di un uomo che è simile a quella di Ian. Bruno Stroszek, artista felice finché si limita a cantar d’amore con la sua fisarmonica nei cortili di Berlino, finisce per trasferirsi in America in cerca di un qualche sogno, ma lì trova solo delusione e morte. E così, dopo aver trascinato il suo sperduto corpaccione lungo la main street ingannatrice e spietata, si spara un colpo in testa e riguadagna la sua vecchia, ingenua serenità.
Curtis ammise di essere rimasto molto colpito dal film di Herzog e forse fu dopo averlo visto che trovò la forza risolutoria di impiccarsi. Liberando se stesso e dando inizio alla leggenda dei Division. Il suo gesto ha svelato al mondo la sua stessa sordità e oggi è inevitabile per chiunque percepire Unknown Pleasures per ciò che davvero era: la lettera di una futura condanna a morte. Closer, il secondo album del gruppo uscirà poco dopo, postumo. Il gruppo è già sciolto e Ian si trova ormai da un’altra parte del multiverso. Quella dipartita renderà i Division l’emblema di un rifiuto sacrificale alla purezza cannibale del rock più dannato.
Subito dopo il successo di critica di Unknown Pleasures, decine di band avevano iniziato a fare il verso ai Joy Division. Dopo il suicidio e Closer la situazione peggiorò. La moltitudine di emuli invase i locali inglesi e le emittenti televisive, le radio e gli scaffali dei passionari dei Division. Protestarono, si dimenarono e trasalirono quando i giornali liquidarono tutti come pallide imitazioni di quel florilegio dell’anima che era stato il modello originale. Del resto chi avrebbe mai potuto spingersi alle conseguenze estreme come aveva fatto Ian? Chi avrebbe mai avuto la forza di essere all’altezza della propria stessa musica?
Unknown Pleasures era uscito in un contesto “fermentizio” per certe decadenze spinte. La scena goth condurrà a breve il post-punk in cima alle classifiche indipendenti, anche se per un periodo di tempo davvero limitato. Già nell’arco dei due anni successivi alla morte di Curtis, l’ascesa dei vampiri si sarà consumata in un’alba tragica.
Unknown Pleasures continua da allora a influenzare non tanto un sottogenere asfittico e ristagnante, ma il più vasto scenario generalista del pop-rock, attraverso ambasciatori come i Depeche Mode, i Cure o gli Smiths. Per non parlare degli U2, la cui storia è legata a quella dei Division molto più di quanto si possa pensare.
Va poi registrato anche un “raccolto” postumo di Unknown Pleasures, nel circuito alternative più diretto, da cui sono usciti gli Interpol, gli Editors e tutto il revival post-punk del nuovo millennio che non è poi così male.
I Joy Division sono oggi, ovviamente, fagocitati dalla moderna vacuità popolare. Emblematiche sono le magliette dei loro dischi, vendute da H&M e portate con inconsapevole spensieratezza dalle ragazzine o da obese casalinghe, nei centri commerciali. Chiedere a loro chi siano i Joy Division significherebbe intingere il dito nella piaga ben più purulenta e infettata di quella che scoprì Curtis nel 1979.
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