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Flag Day: un batterista italiano nella colonna sonora del nuovo film di Sean Penn

Piero Perelli racconta.

Il sound di Piero Perelli conquista gli Stati Uniti. Con noi ha parlato della collaborazione con Eddie Vedder e Glen Hansard, ma anche di geografia della musica e di che cosa si perde chi guarda i concerti in streaming.

Il sound toscano sbarca oltreoceano e finisce sul grande schermo. Nella colonna sonora di Flag Day, il nuovo film di Sean Penn, la batteria la suona l’italianissimo Piero Perelli. Trentatreenne di Lucca, folgorato a cinque anni dalla visione di una scintillante batteria bianca, inizia immediatamente a prendere lezioni fino a ritrovarsi a suonare con artisti del calibro di Robin Hannibal, Dana Fuchs, Jack Daley, Pet Levin e Seth Ford.


– Anche questa volta hai avuto a che fare con grandi nomi: Glen Hansard, Eddie Vedder e Cat Power. Come sei arrivato a Sean Penn?

Tramite Glen Hansard. Anni fa era in vacanza qui a Lucca con sua madre. Mentre camminavano in Piazza Grande, dallo Sky Stone, negozio storico di musica, arrivavano le note di un suo disco. Entrò e fece subito amicizia con il proprietario. Da quella volta sono rimasti in contatto, negli anni hanno organizzato un po’ di concerti intimi proprio qui nella mia città e lo scorso anno, alla fine di un suo live acustico nel bosco, è partita una jam session a cui ho partecipato anch’io. La notte stessa Glen mi ha preso da parte: «Guarda, è stato un piacere suonare insieme, ho sentito davvero una bella sintonia. Sto lavorando ad alcuni brani e mi piacerebbe coinvolgerti. Che ne dici?».

– Una fortunata coincidenza insomma.

Soprattutto se penso che in quei giorni ero in vacanza all’Elba e ho deciso di rientrare a Lucca solo all’ultimo momento. La mattina del concerto mi sono svegliato e ho pensato: devo assolutamente andare a sentire Glen. L’avevo visto parecchi anni prima a Roma ed ero rimasto folgorato da quel concerto: la magia che era riuscito a creare sul palco e l’armonia con i musicisti erano veramente incredibili. Quando quella sera mi ha chiesto di collaborare, non ci ho pensato due volte. Nemmeno sapevo che si trattasse della colonna sonora del film, ma gli ho proposto di incontrarci nel mio studio il giorno seguente e da lì è partito tutto.

– Da cosa avete cominciato?

Aveva con sé il portatile e abbiamo guardato gli spezzoni del film che dovevano essere musicati. Il mio rientro all’Elba era già fissato e restava appena un giorno per lavorare insieme. Siamo partiti proprio da Flag Day, la title track. È stato tutto molto intenso e veloce. Nei mesi successivi abbiamo continuato a sentirci via mail, Skype e messaggi per incidere gli altri brani del film. Non era la prima volta che lavoravo in remoto dal mio studio, specialmente in questi ultimi due anni di lockdown vari. Avere lo studio in casa è stata la mia salvezza, emotivamente, energeticamente ed economicamente parlando.

Piero Perelli e Glen Hansard nella stanza dei "giocattoli".

– Non era la tua prima esperienza con una colonna sonora.

No, giusto. La prima volta è stata nel 2014 per Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, insieme a Federico de Robertis, con cui di recente ho lavorato anche a Fuori era primavera, un documentario che Salvatores ha girato sul lockdown.

– Cosa cambia quando si fa musica per immagini?

In generale mi muovo sempre per immagini, ma quando lavoro per lo schermo il focus è un altro. Devo dare un suono a riprese che già esistono, quindi ho un elemento in più e non ha a che fare con la mia immaginazione. Se parto da un testo, l’immaginario lo costruisco io. Qui ho lavorato su quello di un altro. Credo sia la differenza più grande.

– Una griglia che ti limita o ti aiuta?

Paradossalmente mi rende più libero. Ho le immagini e non devo pensare, posso lasciarmi completamente andare al suono, seguire le emozioni e improvvisare. Concedendomi anche il lusso di rimanere sorpreso da ciò che vedo. Negli ultimi anni ho lavorato anche con mia sorella Giulia a una performance di spoken poetry solo voce e batteria e questa forse è l’estremizzazione del fare musica: seguire soltanto le parole, enfatizzarle e creare un tessuto sonoro con il mio strumento è molto stimolante.

– Ti sei sentito altrettanto libero anche per Flag Day?

Quel giorno nel mio studio con Glen sì. Lui è emotività estrema e lavorare nella stessa stanza, creare insieme ha senza dubbio favorito l’improvvisazione. Suonare a distanza è stato sicuramente meno magico. Per quanto le tecnologie di oggi aiutino, non c’è quel feedback immediato che ti dà l’essere fisicamente vicino agli altri musicisti. Nonostante questo, anche quando mi mandava i pezzi chitarra e voce suoi e di Eddie, mi diceva sempre «Vai e fai quello che vuoi, io mi fido». Io preparavo due o tre versioni, gliele giravo e lui mi inoltrava la risposta di Eddie. Se c’era qualcosa da modificare, ne suonavo altre, ma spesso era buona la prima.

– La tua batteria è in tutti i brani?

Sicuramente c’è in Flag Day, in Tender Mercies, Rather Be Home e in I’ll Be Waiting. Ma i pezzi sono passati per vari livelli di stratificazione, quindi non è semplicissimo risalire alle singole parti. Per quanto riguarda le altre canzoni, avrò la certezza quando uscirà il disco fisico – ancora non c’è una data precisa – e leggerò i credits. La stessa domanda che mi fai, l’ho fatta io a Glen e anche lui era confuso. Quando si lavora per colonne sonore succede molto spesso che i brani vengano più volte modificati e riarrangiati in corso d’opera.

Piero Perelli con gli attrezzi del mestiere.

– Hai lavorato su film italiani e americani. L’approccio è stato lo stesso?

Non parlerei tanto di approccio, ma di sound, che è sempre molto influenzato da quello che circonda ognuno di noi. Esiste una geografia della musica: il suono che nasce a New York è diverso da quello di Los Angeles. Quando sono stato negli Stati Uniti era evidente, l’ho percepito subito. Ogni città ti porta a suonare in maniera diversa: a Seattle ho capito che lì si suona in un determinato modo, perché anche l’aria e i rumori di fondo sono particolari. Pensa all’Italia, al Sud soprattutto, c’è un calore che non è quello dei musicisti tedeschi o scandinavi. Come sei posizionato geograficamente influisce inevitabilmente anche sul tuo linguaggio musicale. Io sono da sempre innamorato del sound americano e poter lavorare con loro e imparare da loro per me è stato fondamentale.

– Quali sono i batteristi che hanno influenzato maggiormente il tuo suono?

Negli ultimi anni ho apprezzato molto Jay Bellerose e Aaron Sterling, ho avuto la fortuna di conoscere entrambi a Los Angeles; con Sterling, che lavora soprattutto in studio, ho fatto una masterclass. Poi Al Jackson Jr. (Otis Redding, Al Green, Bill Withers), Steve Jordan (The Blues Brothers, Stevie Wonder, Bruce Springsteen), ma anche Charlie Watts che – ahimè – ci ha appena lasciato.

– Cosa apprezzavi di lui?

Stiamo parlando di una band, quindi, per come la vedo io, la forza, lì, risiedeva in quello che sapevano creare insieme. Era il groove dei Rolling Stones – fondamentalmente Charlie Watts più Keith Richards – che adesso non esiste più. Una cosa che forse negli anni la musica ha perso è proprio questa idea di band fortemente caratterizzata, in cui ogni elemento è insostituibile. Oggi forse è più semplice fare sostituzioni, perché gran parte della musica che esce non è creata suonando insieme. Se suoni in studio come dal vivo, la dinamica è data dal volume di ogni persona e in qualche modo si crea già un missaggio. Se ogni musicista suona da solo, il risultato che ottieni è più il sound del fonico che il sound della band.

– E il COVID in questo non ha aiutato… Flag Day a parte, come hai vissuto il lockdown?

Ho attraversato due fasi. Quando è iniziato tutto, ero già a Los Angeles da tre mesi e avevo lavorato e suonato tantissimo. Sono rientrato in Italia ad aprile energeticamente molto ispirato, con un bel pieno di benzina insomma. Avere lo studio a casa mi ha permesso di buttarmi a capofitto su dei loop dei gruppi batteria che mi aveva commissionato l’americana That Sound. Faranno parte della loro library e saranno scaricabili e disponibili per i producers a livello mondiale. Ero così impegnato che per un po’ non ho sentito la mancanza dello stare in tour. Poi c’è stata una finestra di tempo, d’estate, in cui abbiamo ripreso tutti a suonare in giro e sembrava che il COVID fosse sparito. Il momento più duro è arrivato dopo, quando ci siamo resi conto che invece eravamo da capo, anche con i vari blocchi. Gli ultimi dieci anni li ho passati praticamente sempre in tour tra Europa e Stati Uniti e ho provato sulla mia pelle che per un performer non poter suonare di fronte a un pubblico o in studio con altre persone è sfiancante: a un certo punto, non avendo nessun tipo di scambio, esaurisci proprio l’energia. Il pubblico e le persone con cui suoni ti rimandano indietro qualcosa, lavorare da soli non sarà mai altrettanto stimolante.

– Mi pare di dedurre che non sei un fan dei concerti in streaming.

Guarda, proprio lo scorso aprile ho fatto un’esperienza incredibile: sono stato 45 giorni in un fienile in campagna a fare dischi con Roberto Villa di L’amor mio non muore, Antonio Gramentieri, Nicola Peruch e Luca Giovacchini. Il nostro team rimaneva fisso, ma ogni cinque giorni cambiavamo cantante e formazione. Ne siamo usciti con una decina di dischi. È stata una full immersion importante, che ci voleva e che ha dimostrato ancora una volta come la musica sia innanzitutto flusso e scambio. Un futuro di live streaming, per me, è il peggiore degli incubi. La musica dobbiamo vivercela dal vivo per sentire ogni vibrazione, altrimenti è davvero la fine di tutto.

Piero Perelli e l'insostituibile energia dei live.

Eddie Vedder Glen Hansard Piero Perelli 

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