Tra le tante ristampe giunte sul mercato lo scorso anno, una in particolare si faceva attendere da tanto, troppo tempo. Non ha deluso, Wildflowers and All the Rest, e come avrebbe mai potuto, essendo il lascito estetico di un grande fra i grandi?
Certe fotografie riescono a spiegare la persona dietro e dentro l’immagine. Nel nostro scatto preferito di Wildflowers, Tom Petty è un quaranta-e-qualcosa dal sorriso sornione e lo sguardo deciso benché velato da un’ombra di malinconia. In grembo culla una Telecaster che deve averne viste parecchie e subito pensi ad altri due ritratti importantissimi legati ad altrettanti capolavori: il “quasi punk” con cartucciera e ghigno d’ordinanza che ci fissa dal 33 giri d’esordio e lo stiloso rocker che in Damn the Torpedoes raccoglie il testimone dai Byrds tramite una fiammante Rickenbacker.
Sono tutti lo stesso tizio e non fatevi fuorviare dai riferimenti, perché il rock classico poggia per definizione sul perenne confronto con un passato da rinnovare, prendendosi rischi e responsabilità e affidandosi al talento. Talento che Petty possedeva in quantità, ma soprattutto rafforzava con la conoscenza delle radici e della storia di quella che ancora non chiamavamo Americana. Caparbio ed eclettico, nel frattempo riusciva anche a sintonizzarsi sull’attualità con disinvoltura non comune.
Era un artigenio innamorato del proprio mestiere come una sorta di versione “rustica” del Ric Ocasek con il quale sono più che plausibili paralleli sia attitudinali che stilistici. In ogni canzone notavi l’impegno e la cura di un uomo intelligente che dei veri maestri possedeva la modestia e la risolutezza, il dono dell’(auto)ironia e idee chiare che ha difeso fieramente. Un uomo virile e sensibile con un sogno: seguire le orme di chi in giovane età gli cambiò la vita. In meglio, possiamo supporre, laddove è certo che abbia reso migliori le nostre.
Songwriter di una razza prossima all’estinzione, profumava di classico moderno sin da quegli inizi che hanno rappresentato da cerniera tra un rock tradizionalista con il fiato corto e le scalpitanti nuove leve. Volendo forzare (ma nemmeno troppo) i termini della questione, potevi dirlo un punk per l’orgogliosa fermezza, l’appassionata concisione, le emozioni lasciate libere. Pregi che inducono a immaginare un Graham Parker commercialmente più fortunato sbocciato sul lato opposto dell’Atlantico. Fuor di metafora, un concentrato di modelli che, mescolati con classe suprema, sfociano in una personalità inconfondibile e in una bellezza senza età.
A raccontarla per sommi capi, questa vicenda sembra la sceneggiatura di un bel film di Clint Eastwood. La parabola di un eroe di provincia – nell’accezione pienamente positiva: è un bel film – che tra ascese e cadute combatte i suoi demoni, la sorte avversa e il sistema corrotto. E vince, anche se il finale ha risvolti amari. Sì, perché avrebbe potuto – e dovuto – regalarci canzoni per molto tempo ancora chi il 20 ottobre 1950 veniva registrato all’anagrafe di Gainesville, Florida, come Thomas Earl Petty.
Folgorato ad anni cinque da Rock Around the Clock, dopo altri sei incontra Elvis Presley ed è infine travolto come il resto dell’America dai Beatles. Epifanie sufficienti per decidere che nel domani ci sarà una chitarra (prende lezioni dal concittadino Don Felder, più tardi negli Eagles) e tutto il resto vada a quel paese, inclusa la scuola superiore, mollata per entrare nei Mudcrutch con lo scudiero Mike Campbell. Pubblicano giusto un 45 giri prima del rimpasto che vede il tastierista Benmont Tench affiancarsi alla sei corde di Campbell e, con un tocco parimenti riconoscibile e multiforme, incarnare l’altra colonna portante della gloria a venire.
Gloria prima della quale bisogna faticare. E infatti nel ’74 i Mudcrutch puntano l’Eldorado californiano incassando rifiuti su rifiuti, finché Leon Russell non li accoglie alla Shelter. Il singolo Depot Street cade nel vuoto, la band decide di chiuderla lì e l’etichetta tiene Tom sotto contratto da solista. Quando il venticinquenne torna a casa, scopre che Mike e Benmont hanno varato gli Heartbreakers con la sezione ritmica di Stan Lynch e Ron Blair. La Shelter ha così il nome che cercava e nel novembre ’76 un superbo LP omonimo sistema le coordinate di un linguaggio già maturo e disposto a future variazioni sul tema: l’armonia di Byrds e Beatles e la robustezza dei Creedence, power pop a braccetto con folk e blues, ballate romantiche e sfrenati rock’n’roll, scrittura scintillante ed esecuzione impeccabile.
Piuttosto bizzarro quindi che l’album passi inosservato in madrepatria. Decisamente meno che i sudditi di Elisabetta lo apprezzino invece al punto da spingere l’etichetta a ripromuoverlo per centrare i Top 40 nazionali. La solidità è ribadita l’anno dopo da You’re Gonna Get It, anche se sorgono i primi problemi: la Shelter viene rilevata dalla MCA, a Tom non va di farsi sballottare come la pallina di un flipper e la faccenda degenera in un lungo braccio di ferro. La tenacia paga quando il gruppo è sistemato alla sussidiaria Backstreet e nel 1979 l’altro vertice Damn the Torpedoes staziona per diverse settimane alla piazza d’onore delle chart.
Caparbietà e rispetto, dicevamo. Quando ai piani alti decidono di vendere il successore a un dollaro in più del prezzo normale, la band si rifiuta e non ne fa mistero con la stampa. Lo stallo termina nell’81 con il trionfo degli Heartbreakers e il platino Hard Promises. Dolce il sapore della vendetta, anche se entro dodici mesi Long After Dark scorre per la prima volta senza impressionare granché, indicando che, nonostante le spalle larghe, ai ragazzi serve una pausa. Pausa che i ragazzi in qualche modo si prendono, visto che – mentre Howie Epstein rimpiazza Ron Blair – ben tre calendari separano da un Southern Accents pregevole a dispetto della genesi: il leader vorrebbe un doppio, ma deve accantonare l’idea – la storia si ripeterà – e per la frustrazione si fratturerà una mano, tirando un pugno al muro dello studio dove Dave Stewart colora di funk e pop acido panorami altrove più raccolti.
Cosa meglio di un tour per sfogarsi? Che domande: quattro facciate dal vivo, sottratte al ruolo di celebrativo tappabuchi, dedicando un terzo del programma a cover che rivelano l’educazione sonora di Tom. Sintomatico che Pack up the Plantation: Live! decolli sul jingle-jangle muscolare So You Want to Be a Rock’n’Roll Star e che la gang trascorra gran parte dell’86 con Bob Dylan, tenendo concerti leggendari per i quali invochiamo un volume delle Bootleg Series. Consacrazione ribadita scrivendo con il Bardo Supremo Jammin’ Me, traino di un Let Me up (I’ve Had Enough) che nella primavera 1987 compensa con il piglio ruvido una scaletta un po’ altalenante.
Poco dopo, Petty e famiglia scampano a un incendio che distrugge la casa e forse è anche per rilassarsi che nel 1988 il sudista partecipa al divertissement Traveling Wilburys con Zimmy, George Harrison, Roy Orbison e soprattutto Jeff Lynne, eletto produttore del suo primo 33 giri solista. La fragrante limpidezza del vendutissimo Full Moon Fever garantisce una stabilità economica rafforzata da Into the Great Wide Open, dove tornano i compagni abituali ma persuade meno la regia dell’ex E.L.O. Ora di cambiare aria, come canterà il capobanda.
Il cambiamento inganna, esalta, spaventa. Cavalcarlo è difficile quanto non farsi travolgere dagli eventi. Lungo la prima metà degli anni ’90 l’uomo di Gainesville si congeda dalla MCA, la Warner gli srotola il tappeto rosso e tuttavia non sono rose e fiori, dal momento che Epstein ha seri problemi di droga, Stan Lynch si appresta a salutare e in più c’è pure di mezzo un matrimonio che sta andando a rotoli. La risposta alla crisi è un capolavoro che riflette sul ciclico dissolversi e rinascere dell’amore e aggiunge un anello alla catena che annovera Blood on the Tracks, Still Crazy After All These Years e Shoot out the Lights.
Dati i presupposti, Wildflowers non può che inscenare un cambio di rotta: l’approccio compositivo intimista e le atmosfere meditative conducono in primo piano ciò che stava sottotraccia, trasformano il personale in universale, e consegnano una summa estetica che contemporaneamente guarda altrove. Si può fare eccome, quando ti chiami Tom Petty: ricorri al potere salvifico dell’arte e vuoi fortissimamente un disco in tutto e per tutto solista (anche se Campbell e Tench ti scorteranno e qualche amico darà una mano). La situazione critica e la catarsi sono affari tuoi, dunque sarà tuo e tuo soltanto il nome in copertina.
Poiché anche il caso suona la sua musica, un giorno Tom si trova sul jet dell’etichetta e in un angolo scorge Rick Rubin che traffica con il walkman e una pila di cassette di Neil Young. Come, quel freak fissato con rap e metal? Mai fidarsi delle apparenze, poiché Rick sarebbe entusiasta di lavorare con l’artefice di un Full Moon Fever che ha consumato di ascolti. Detto, fatto. In ragione della tranquillità acquisita, possono trascorrere diciotto mesi a rifinire un brano per volta usando solo macchinari analogici. Il calore del risultato è il valore aggiunto da sommare a composizioni stellari e alle stoffe con le quali Rubin veste l’insieme, dagli archi curati dall’esperto in colonne sonore Michael Kamen a un’essenzialità d’esecuzione e arrangiamento che non si nega i dettagli.
Tra una battuta e una puntata di Seinfeld si lavora divertendosi e nulla può andare storto nell’oasi felice in cui Petty ragiona su ciò che gli accade. Rimessa in sesto l’anima, le canzoni sono più di venti e il disco (non) sarà doppio. Negli uffici della Warner sanno che ne caveranno soldi a palate, ciò nonostante il presidente Lenny Waronker suggerisce dei tagli. Accettati, seppur a malincuore, perché a conti fatti l’ora abbondante di Wildflowers si avvicina al buon vecchio doppio importante dei Sixties e perché ai fan un solo CD sarebbe costato comunque meno.
Il pubblico infatti premierà adeguatamente lo splendore che avvince dallo squisito omonimo folk iniziale alla tristezza cinematica – materia di un Warren Zevon in cerca di redenzione, non a caso – del commiato Wake up Time. Nel mezzo, sferraglianti e irresistibili crocevia tra Rolling Stones, Dylan e Young (You Don’t Know How It Feels), country rock con il cuore in mano (Time to Move on), r’n’r elegantemente travolgente (You Wreck Me), gioielli smarriti per strada da John Lennon e Roger McGuinn (It’s Good to Be King, Only a Broken Heart, A Higher Place), hard potente e malandrino (Honey Bee).
E ancora: lo scarno brivido folk-blues Don’t Fade on Me, i Cars parafrasati roots che barattano Buddy Holly con Jerry Lee Lewis di Cabin Down Below, una To Find a Friend favolosamente indecisa tra Townes Van Zandt e Gram Parsons, la Crawling Back to You sottratta ad Automatic for the People.
In retrospettiva la perfezione che non stanca mai di Wildflowers sottolinea ciò che all’epoca era vago sentore, ovvero che si trattasse di un’opera irripetibile e più che altro insuperabile. I dischi seguenti saranno di caratura elevata pur senza raggiungere certe vette se non occasionalmente, ed è giusto così, ché nella vita certe ferite le curi una volta e basta. Non aver dato alle stampe il disco che aveva in mente sarà invece un cruccio eterno di Tom, che ci lascerà nell’ottobre 2017 per arresto cardiaco causato da un’accidentale overdose di farmaci. Aveva terminato da pochissimo un tour con gravi problemi all’anca e al ginocchio e la seconda moglie lo ricorda malinconico e preda della nostalgia.
Chissà che non avvertisse qualcosa incombere mentre progettava la ristampa integrale di Wildflowers e una serie di concerti a essa dedicati. Se quel desiderio è rimasto tale, ci possiamo consolare con l’ineccepibile curatela degli archivi confermata lo scorso anno dall’edizione deluxe di quanto sopra magnificato. Diversamente da tante uscite postume, i quattro dischetti di Wildflowers & All the Rest che completano l’originale con i brani scartati, demo casalinghi e registrazioni live non sono una bieca speculazione. Piuttosto, un atto d’amore e di giustizia anche a dispetto della battaglia legale tra eredi che ne ha fatto slittare la pubblicazione oltre il venticinquennale.
Bassezze e bazzecole spazzate via da meraviglie al tempo accantonate e che ampliano viepiù la tavolozza, come il White Album barocco con misura di Something Could Happen e il Roy Orbison moderno di Leave Virginia Alone, il vibrante omaggio a Brian Wilson Hung up and Overdue e la psichedelica Confusion Wheel, le memorie di un immaginario Dylan texano svelate in Harry Green e una Climb That Hill che irrompe dal lato elettrico di Rust Never Sleeps. Canzoni maiuscole che non sfigurano accanto alle altre e a dischi che tratteggiano un grande romanzo americano che molti vorrebbero aver scritto.
Di Tom Petty, però, ne è esistito solo uno.
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