La maggior parte degli occidentali non lo sa, ma la scena musicale sahariana è particolarmente ricca e meticciata, tra echi arabi, berberi, andalusi e mediterranei in genere. E americani - nel senso del blues, almeno. Così è per i Tinariwen, forse la più nota delle band del deserto, qui in Europa. Fieri esponenti dell’etnia Tuareg, sono recentemente passati in Italia in occasione della pubblicazione dell’ultimo Amadjar. Da qui l’idea di portarli alla vostra attenzione, perchè la loro musica fatta di sabbia, orgoglio e rivoluzione, la loro musica tradizionale impastata di blues, ci piace particolarmente.
I Kel Tamasheq, noti come Tuareg, sono gente che vive nella terra che noi chiamiamo Sahara. Da quando la loro storia è stata raccontata non conosciamo nessuna delle loro origini prima di questa.
Inizia così l’ispiratissimo documentario del 2006 TESHUMARA (Tinariwen) - The Guitars of the Touareg Rebellion a opera di Jérémie Reichenbach. E queste sono le parole dirette di Ibrahim Ag Alhabib, poco dopo che lo si vede suonare una Yamaha elettrica e fermarsi, agitando la mano per scacciare via le mosche.
Questo che segue è un piccolo tentativo di raccontare la grande storia della sua band, della sua gente e della sua musica, unita sotto il nome di Tinariwen, letteralmente il plurale di ténéré, in lingua tamashek “deserti”. Per molti i Led Zeppelin del Sahara. Per molti altri solo i “desert boys”.
La musica dei Tinariwen è comunemente definita desert-blues. Un appellativo che suona sicuramente efficace. Quello che ne contraddistingue la valenza espressiva è però il fatto che ha sempre rappresentato il manifesto linguistico e culturale degli uomini liberi (imazighen). Suonare come atto politico e culturale di per sé.
Recuperare uno strumento in Africa non era certo una cosa facile negli anni Sessanta. La prima sei corde di Ibrahim Ag Alhabib è stata infatti costruita con dei fili dei freni di bicicletta, un barattolo e un bastone. I film dei cowboy con la chitarra erano circolati nei campi profughi algerini, a quanto pare, insieme alle cassette dei rocker americani.
Sono però molte – moltissime – le contaminazioni e il retroterra culturale che i suoni dei Tinariwen portano con sé. Il loro sound è figlio diretto del tishoumaren, una mistura di armonie tuareg, psichedelia e blues, nata dal post-colonialismo africano degli anni Cinquanta e Sessanta. Dal francese chômeur (“senza lavoro”), ma più comunemente definita nel deserto come “la musica delle chitarre”, ha da sempre avuto alta connotazione politica. Oggi, però – pur mantenendo il tratto ribelle – ha assunto caratteri non violenti e più orientati a un messaggio di riflessione pacifica e non combattente.
Un’altra sicura influenza è il cosiddetto raï (letteralmente “punto di vista”), che fonde la tradizione berbera con quella araba: un’impronta musicale, più che un genere, originaria – si dice – della città di Orano, sulla costa algerina, al centro di varie culture e punto di scambio di merci e informazioni. Anche qui il pop occidentale ha passeggiato insieme ai canti dei muezzin, ma soprattutto dei cheikhs (“maestri”), veri e propri poeti cittadini, tanto da far divenire il raï la musica algerina più conosciuta al mondo.
Ma è soprattutto il gnawa che risulta termine significativo per gli etnomusicologi più rigidi. Si tratta di una musica etnica tipica del sud del Marocco e del sud-ovest dell’Algeria, lì portata – narrano le cronache – dagli schiavi originari della Guinea. L’ipnosi ripetitiva del suo ritmo conferma l’ipotesi che venisse suonata in occasione di particolari cerimonie, soprattutto per aiutare lo stato di trance.
Colonizzazione non sempre significa repressione. «Ognuno aveva di che vivere. Non c’erano criminalità o contrabbando. C’erano pace e prosperità». A sentire queste parole (tratte dal documentario) la dominazione francese è stata un periodo di relativa tranquillità per tutta l’area sahariana.
Quando il Mali divenne indipendente, però, si dovettero fare i conti con nuovi confini, dogane e le dovute tasse da pagare. Opprimenti. Su uomini, animali, praticamente «su tutto ciò che si muoveva». Così i cammellieri recuperarono le armi e la rivolta contro le autorità maliane incominciò quasi naturalmente, sospinta da uno spirito di comunità antica contro lo stesso regime neo-nazionalista. Il nuovo oppressore aveva preso il posto dei precedenti. Ancora una volta e con sembianze diverse. Perfino più problematiche.
Racconta Ibrahim che un giorno i soldati maliani vennero a prendere suo padre e la donna che era con lui. Lei fu uccisa e l’uomo portato a Kidal, dove lo aspettava nient’altro che la sua stessa fine. «Qualcuno l’aveva denunciato: dicevano che faceva parte della ribellione». C’erano luoghi dove avvenivano le esecuzioni vere e proprie, e la gente doveva applaudire.
Noi applaudivamo, me lo ricordo. Eravamo solo bambini e non potevamo sapere. Solo quando morì mio padre me ne resi conto. (Ibrahim Ag Alhabib)
Dopo l’uccisione del padre molti, come Ibrahim, scapparono in Algeria. In particolare a Bordji Badji Mokhtar, vicino all’oasi di Tamanrasset.
«Hanno ucciso i nostri parenti / i nostri neonati / le nostre greggi / 63, ricorda la sua storia / il ricordo dei suoi tempi passati» dicono i Tinariwen nell’emblematica Soixante Trois. «Il 63 è passato, ma ritornerà / quei giorni hanno lasciato tracce indelebili».
La canzone è contenuta nel terzo album della band, Aman Iman (“L’acqua è la vita”) del 2007, pubblicato da Universal Music e prodotto da Justin Adams, compositore inglese, amico e chitarrista di Robert Plant, che in quegli anni collaborerà con Brian Eno, Sinéad O’Connor, e che aveva già prodotto il primo album dei Tinariwen stessi. Almeno se consideriamo quelli pubblicati fuori dall’Africa. Si chiamava The Radio Tisdas Sessions. Era il 2001.
Come tutti gli esuli maliani, Ibrahim Ag Alhabib si spostava tra Algeria e Libia. Tirava nell’aria un sentore di folk marocchino, il chaabi, naturale influenza culturale per tutti. Imbracciò per la prima volta una chitarra per unirsi alla protesta dei ribelli, sotto il sound contaminato dai grandi nomi del rock: Elvis, gli Zeppelin, i Dire Straits, Bob Marley e Santana. Insieme ai fratelli Inteyeden e Liya Ag Ablil e con Alhassane Ag Touhami, Ibrahim Ag Alhabib forma il primo nucleo di quelli che venivano chiamati i Kel Tinariwen, letteralmente “la gente del deserto”.
La musica, in quegli anni, era più che altro celebrativa e di accompagnamento, in occasione di matrimoni o altri eventi del genere. Siamo alla fine degli anni Settanta. Poco dopo seguirà l’addestramento militare obbligatorio del colonnello Gheddafi, coltivando il sogno di creare un vero e proprio esercito tuareg. Il socialismo tira forte nel vento del deserto e quella di Muammar Mohammed Abu Minyar al-Gaddafi è una proposta sentita da molti, soprattutto tra i fedeli di quella “terza via universale”, lontana dai bagliori del capitalismo occidentale e della lotta di classe e a tutela di quel colpo di stato antimonarchico che aveva fatto cadere il regime libico. Uno stato tuareg promesso non sembra così male, arrivati a quel punto.
Subito a seguire, un altro addestramento, questa volta direttamente dalle file del movimento ribelle maliano guidato dall’allora carismatico Iyad Ag Ghali (colui che poi fonderà l’Ansar Dine, tacciato di ipotesi di affiliazione con Al-Qaida), allora portavoce del MPLA, il principale movimento di ribellione maliano. Il Mouvement Populaire de Libération de l’Azawad prendeva a piene mani dal terriorio dell’Algeria e della Libia per raccogliere combattenti da arruolare nel fronte di liberazione del nord del Mali. L’Azawad, appunto.
La voce della band sembra il perfetto veicolo per un reclutamento su larga scala. Il loro tishoumaren il mezzo per il proselitismo. Anche per questo Ag Ghali aiuta la band a incidere e a portare avanti la loro musica, con il consiglio di usare dei nuovi nomi in codice. Ora hanno anche uno studio. Così Ag Ahlabib conosce i chitarristi Keddou Ag Ossade, Mohammed Ag Itlale Sweiloum, Abouhadid e Abdallah Ag Alhousseyni. Nomi d’arte: Japanais, Catastrophe, Diarra, Sweiloum. Ag Alhabib diventa il “ragazzo pezzente”: Abaraybone. Ecco nati i Tinariwen. Cassette pirata con la musica registrata sotto questo nome iniziano a circolare nel Sahara. I Tinariwen, gratuitamente, stanno spacciando canti tuareg per raccontare la storia del loro popolo.
«La rivoluzione è come un filo / facile da raccogliere ma difficile da tendere» si sente in Tienre. Un messaggio che comunque – nonostante venisse utilizzato come metodo per fare proselitismo per il Movimento Popolare dell’Azawad – non aveva connotati espressamente guerriglieri.
Con gli accordi di Tamanrasset nel 1991 la situazione si modifica e nel 1996, mentre tre dei componenti del gruppo si uniscono alle forze armate per continuare a contribuire alla ribellione maliana, il resto della band – compreso Ag Alhabib – preferisce portare avanti il discorso relativo alla trasmissione della cultura tuareg (sempre attraverso le musicassette). Ormai è la musica a essere diventata il fine principale.
Sarà grazie all’appoggio e alla considerazione che riceveranno dalla band francese Lo’Jo che alcuni membri dei Tinariwen potranno, a fine anni Novanta, arrivare in Europa e suonare oltre il Mediterraneo. I francesi li avevano conosciuti durante il loro pellegrinaggio artistico a Bamako, nel Mali, in occasione di Bohème de cristal, il loro quarto lavoro.
Così, nel 2001 i Tinariwen si esibiscono al Festival au desert a Essakane, e poi al mitico Womad, fino ad arrivare al Roskilde. Da lì in poi nuovi giovani tuareg vengono aggiunti all’ensemble, non più uomini che hanno vissuto i conflitti armati, ma ragazzi che faranno progredire un progetto divenuto a questo punto transgenerazionale, oltre che sempre più internazionale. La line-up è in continuo movimento – come vuole lo spirito tuareg – ma molti nomi rimangono fissi. Tra questi il sempre presente Ibrahim Ag Alhabib e con lui Alhassane Ag Touhami, Abdallah Ag Alhousseyni, Eyadou Ag Leche, ancora oggi tra le fila dei membri attivi.
Il ritmo ipnotico e capace di indurre uno stato di trance, grazie ai suoni bassi e cadenzati del sintir (guimbrì) della tradizione gnawa, canti ad antifona e registri baritonali, battito di mani e percussioni (tra cui numerosi cembali chiamati qraqeb), chitarre elettriche e sonorità innovative per l’orecchio occidentale contribuiranno ad attrarre l’attenzione di gente come Bono, Thom Yorke, Henry Rollins, Brian Eno, Chris Martin e molti altri.
Nel 2005 i Tinariwen vincono un BBC Award per la World Music. Pochi anni dopo suonano con Santana.
Questa occasione per me è un grande onore. Quando sento la loro musica sento l’origine di tutta la musica del Mississippi. Questo è Stevie Ray, Jeff Beck, B.B. King… (Carlos Santana)
Sabbia e luna. Un paesaggio perfettamente adatto per sfoderare le armi note della psichedelia. Soprattutto se a un certo punto saltano fuori i mitici Tunde Adebimpe e Kyp Malone dei Tv on the Radio, da sempre grandi fan della band. Il brano in questione è Tenere Taqqim Tossam, tratto da Tassili del 2011. Probabilmente il loro album fondamentale.
Il Tassili n’Ajjer (“l’altopiano dei fiumi”) è una catena montuosa nella sezione algerina del deserto del Sahara, ai confini della Libia, del Niger e del Mali, che copre un arco di circa 72.000 chilometri quadrati. Un territorio perfetto da cui attingere per poter ritornare a cantare intorno a un fuoco, ritrovo di storie, meditazioni e ricordi. Da qui il carattere intimistico, memore di una tradizione e una cultura che è tipicamente strutturata nel suo isolamento e nella sua solitudine, che volutamente lascia da parte tutta l’occidentalizzazione aggregante che sembrava essere stata presa d’assalto dalla musica dei Tinariwen nei dischi precedenti.
Si legge che in questa regione millenni fa scorrevano numerosi fiumi, a testimonianza di un’epoca in cui il clima era molto diverso da quello attuale. Nota di questo è data anche dalle numerose e preziosissime pitture rupestri di era neolitica, datate tra 9.000 e 10.000 anni fa. I guerriglieri tamashek erano soliti rifugiarsi nel Tassili durante la rivolta contro il regime del Mali, all’interno dei vari anfratti e delle caverne d’arenaria. I riverberi naturali paiono quelli perfetti.
Ibrahim Ag Alhabib ci tiene a ricordare che lui non è solito ascoltare musica “moderna” e che tutte le collaborazioni sono più che altro frutto di vera empatia di carattere umano. Naturalmente questo è spirito tuareg, ma è significativo che ogni volta i loro album vedano partecipazioni sempre più varie e legate a generi e mondi completamente diversi tra loro. Almeno di facciata. Perché cuori e spiriti si avvicinano molto di più nella musica che nelle categorie.
Nel 2012 c’è una nuova rivolta tuareg nel nord del Mali. Iyad Ag Ghali e i suoi Ansar Dine (letteralmente “aiutanti della religione islamica”) questa volta bollano come “musica del demonio” quella dei Tinariwen (e molte altre).
Buona parte della band evita comunque la cattura, eccezion fatta per Abdallah Ag Lamida, che viene preso – leggenda narra – mentre sta portando in salvo le chitarre. Pochi mesi dopo il gruppo dichiara che il cantante è sano e salvo. In quei mesi il gruppo si ritira in California e nel Joshua Tree National Park registra Emmaar, che esce nel 2014.
Recita così la bellissima Toumast Tincha, in onore del tramonto sahariano, fratello antico di quello del Mojave.
Camminandoci attraverso
Camminando in inverno
Il deserto
Poi lo vedo
Il mio amato
Ballare attraverso il fuoco
Ballare attraverso il fuoco
Gli ideali della gente sono stati venduti a buon mercato, amici miei
Qualsiasi pace imposta dalla forza è destinata a fallire
E lasciare il posto all’odio, mia gente
Dov’è quella fiducia in se stessi
Fatta di dignità e bellezza di spirito
Che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità?
Nel tour dell’anno successivo Ag Alhabib torna in Mali per affrontare la crisi economica che ha investito il paese. Yad Abderrahmane viene preso come cantante e chitarrista per suonare le sue parti nel tour, mentre il bassista Eyadou Ag Leche diventa il direttore musicale della band.
Anche Elwan (“Elefanti”, a simboleggiare le milizie che passano attraverso il deserto con il loro passo pesante e distruttivo) del 2017 viene registrato in California (seppure con overdub in Francia e Marocco) e le sonorità tuareg si tingono sempre di più di contaminazioni psichedeliche occidentali. L’album è un successo di critica.
Tra gli ospiti che compaiono nel disco: Matt Sweeney, Kurt Vile, Mark Lanegan e Alain Johannes. Unite a un percorso che ha nei Grateful Dead il suo principale mentore, oltre che un’aura ormai pregna dello spirito di grandi ribelli musicali come Bob Marley e Fela Kuti, le canzoni di Elwan raggiungono probabilmente uno degli apici della band. Almeno dal punto di vista evolutivo e d’efficacia, più che altro, e non prettamente di sperimentazione musicale.
Le ballad assumono un sapore più vicino alla sensibilità occidentale, ma rimangono comunque legate indissolubilmente a quel panorama puro di fede desertica. Nella sintomatica Nannuflay Lanegan canta: «Niente più sonnambulismo / Ho dormito troppo a lungo / Niente più sonnambulismo / Tienimi con te, Dio / Va tutto bene, adesso va tutto bene». La commistione tuareg e desert-blues giunge al suo punto di unione più alto. «Questo è quello che è ne è stato dei deserti», come recita un altro brano: Ténéré Tàqqàl.
Amadjar è presentato da un video così. Si sentono solo le chitarre registrate sopra una duna in Mauritania. “Suonate” non è il termine adatto: “toccate” dal vento della notte, dicono i Tinariwen. Roba da fare invidia ai Sunn O))).
In effetti Stephen O’Malley è presente nel nuovo disco, forse non proprio per caso. Questa volta in un brano insieme all’ospite – anche lui rumorista affermato – Warren Ellis. Insieme firmano il featuring di Wartilla, anche se non si capisce sinceramente in che misura abbiano contribuito al pezzo. Una sorta di bellezza spettrale permea il tutto.
Amadjar è la prosecuzione di un percorso naturale di contaminazione, ma sembra evolversi ancora di più in una direzione visionaria e sperimentale, che forse era mancata in Elwan. L’album non ha sicuramente l’uniformità e l’efficacia radiofonica (oddio, se così si può chiamare) del precedente, ma scopre le sue carte più interessanti dopo numerosi ascolti, risultando per molti uno dei dischi migliori nella carriera della band.
Appena saliti sul palco dello Womad Festival, unione delle tradizioni musicali mondiali, così esordiscono i ragazzi del deserto: «Welcome, ladies and gentlemen. And welcome to the desert».
Corre l’anno 2004. E ancora oggi i concerti dei maliani risultano traboccare di quel trasporto ipnotico che fa respirare sabbia, sole e notti di sogni. Memorie di territori affascinanti e lontani, dilaniati da dimenticanza, conflitti e oblio.
Qui abbiamo solo provato a tracciare un breve percorso, un passaggio in questa grande, sconfinata distesa, per offrire uno scorcio di quei tramonti millenari cantati da santi, profeti e poeti di ogni paese, cultura e religione. Il resto del deserto è ancora tutto da percorrere. La colonna sonora non manca.