Parafrasando un vecchio adagio dove c’entravano Dio e Satana, “I My Chemical Romance sono fighi, ma è Gerard Way che fa quella cosa che ti piace con la lingua”. Depravati giochi di parole a parte, cerchiamo di fare ordine e svelare come una delle serie TV più attese di questi anni, prodotta e appena rilasciata da Netflix, peschi a piene mani dall’immaginario e dall’estetica che avevano reso così popolare il gruppo americano nei primi anni duemila (sembra passato un secolo, ma era giusto l’altro ieri).
The Umbrella Academy è una serie televisiva disponibile su Netflix dal 15 febbraio scorso e basata sull’omonimo fumetto realizzato nel 2007 da Gerard Way – fondatore e “uomo immagine” dei My Chemical Romance – e Gabriel Bá – apprezzato disegnatore brasiliano – attraverso la Dark Horse Comics (la Bao Publishing lo ha pubblicato in Italia a partire dal 2017).
Un passo o due indietro: dopo l’uscita di The Black Parade, che diventerà il disco più famoso e rappresentativo del gruppo, nel 2006 Way decide di riprendere una cara, vecchia abitudine accantonata per qualche tempo e si regala un fantastico tuffo nel mondo dei fumetti. Due forme di espressione artistica distinte, ma con numerosi punti di contatto; due carriere parallele e, allo stesso tempo, indissolubilmente legate fra loro.
Non a caso, The Umbrella Academy sarà un traguardo raggiunto con fatica e solo dopo un lungo viaggio intorno alla musica.
Nato a Summit, New Jersey, nel 1977 e cresciuto a suon di Queen, Misfits e Watchmen (il capolavoro scritto da Alan Moore e illustrato da Dave Gibbons, portato poi sul grande schermo da Zack Snyder nel 2009), Gerard Arthur Way sviluppa presto un amore viscerale per i fumetti. In seguito studia arti visive presso la School of Visual Arts di New York e lavora a Cartoon Network, sempre nella Grande Mela.
Durante l’attacco terroristico alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, si trova in ufficio ed è testimone oculare della tragedia. Un’esperienza traumatica che sfocerà nella prima canzone in assoluto dei My Chemical Romance.
In ogni caso, sentendosi al sicuro in quell’ambiente creativo e stimolante, Way trova il coraggio di proporre il suo primo lavoro da fumettista (o meglio, il cortometraggio animato The Breakfast Monkey): dopo l’iniziale interesse dell’emittente, viene rimbalzato. A differenza di altra gente, che per un rifiuto alla scuola d’arte fa scoppiare la Seconda guerra mondiale, lui si butta sul rock. Nel giro di un lustro, molti si pentiranno di averlo sottovalutato.
La parabola della band americana – dove al basso milita il fratello minore di Gerard, Mikey Way – dura relativamente poco (una dozzina d’anni in tutto), ma le consente di raggiungere vette di successo e popolarità vertiginose. Tuttavia, il suo leader è inquieto e ambizioso; all’apice della fama, penna e matita alla mano, dà vita alla storia di sei supereroi ragazzini cresciuti da un mentore che li aiuterà a sviluppare e controllare al meglio i loro superpoteri, fallendo in modo becero sotto il profilo pedagogico.
Il primo ottobre 1989 quarantatré donne danno alla luce altrettanti bambini… senza nemmeno essere state incinte. Sette neonati vengono “intercettati” e, sostanzialmente, comprati da Sir Reginald Hargreeves, un imprenditore mezzo alieno, mezzo Dr. Frankenstein che li alleva dando loro numeri al posto di nomi e gettando le basi per una meravigliosa corsa dall’analista in età adulta.
Ciascuno di essi mostra subito evidenti peculiarità: Allison, detta Voce, bisbiglia nelle orecchie di chiunque e lo convince a fare ciò che vuole; Luther/Spaceboy è un astronauta supermuscoloso; Diego, detto Kraken, è un prodigioso mago dei coltelli; Ben è The Horror: quando s’incazza, diventa un polpo gigante; Numero 5 viaggia nel tempo, senza esserne esattamente capace; Klaus è Medium: vede e sente parlare la gente morta, motivo per cui diventerà un drogato schizzato con le fattezze di Scott Weiland degli Stone Temple Pilots/Velvet Revolver (la sua versione televisiva corrisponderà alla superba faccia da schiaffi di Robert Sheehan, già apprezzato in un’altra serie di culto: Misfits).
Paradossalmente, nel gruppo spicca Vanya (sul piccolo schermo, Ellen Page, l’attrice di Juno): il “padre” le rivela che non possiede alcun talento o potere speciale e la umilia dalla mattina alla sera, utilizzando il famoso metodo d’avanguardia “mamma di Georgie” (sì, quella che correva felice sui prati). Convinta di non saper fare un ciufolo, lei trascorre la vita nella mediocrità e assumendo pasticche consigliate dal medico di famiglia.
Al quadretto si aggiungono un saggio maggiordomo, la scimmia parlante Pogo, e la “mamma”, un robot vestito da bionda-che-abbonda anni ‘50 alla Tim Burton di Edward Mani di Forbice (il regista californiano rappresenta da sempre un totem per Gerard Way).
Le sfumature dei personaggi sono molto interessanti e indagano a fondo sul concetto di diverso, umano, abbandono, resilienza, inadeguatezza, desiderio di riscatto, vendetta, perdono, autodistruzione; tutti temi in qualche modo cari al suo ideatore, che ha sofferto di sovrappeso, bullismo e solitudine durante l’adolescenza.
Way, inoltre, non manca di inserire nel contesto i cattivi della situazione. Si chiamano Cha Cha, interpretata poi da Mary J. Blige, ed Hazel: provengono dal futuro per impedire che la Umbrella Academy cambi il corso degli eventi che dovrebbe portare all’Apocalisse.
La presenza di queste figure riporta alla mente qualcosa di familiare ai veri seguaci dei My Chemical Romance. Danger Days: The True Lives of the Fabulous Killjoys è il titolo del concept-album uscito nel 2010 che parla di un gruppo di ribelli in lotta contro la Better Living Industries (BL/Ind®) – una grossa azienda che vende pillole per “eliminare i sentimenti” e rendere più efficienti e manipolabili le persone.
Un elemento narrativo inequivocabilmente presente anche in The Umbrella Academy.
L’opera è idealmente ambientata nel 2019 (sorpresa!) e descrive un mondo post-apocalittico, ipercontrollato e ricco di soggetti spaventosi, tra cui degli agenti mascherati più o meno come quelli di The Umbrella Academy e che inseguono i Fabulous Killjoys per farli fuori.
Il video di Na Na Na, primo singolo estratto, introduce questo scenario fantascientifico come se si stesse cominciando a raccontare, parzialmente o in toto, una vera e propria saga.
Anche il secondo singolo Sing propone le vicende degli insorgenti: pare ormai chiaro che i My Chemical Romance intendano svelare la trama poco a poco.
E invece no. Gerard Way interrompe bruscamente la narrazione visiva delle avventure dei Killjoys, pubblicando il nuovo singolo Bulletproof Heart senza video e licenziando il tutto con un commento caustico: «Non c’è nessuna storia dietro; i video precedenti erano solo delle metafore e non avranno seguito».
Nessuno sa che cosa sia andato storto; nel frattempo The Umbrella Academy era già stato opzionato dagli Universal Studios per una trasposizione filmica, salvo poi cambiare gli sceneggiatori parecchie volte e, infine, interrompere la lavorazione nel 2010 – l’anno di Danger Days…, appunto.
Riesumato il progetto, Netflix accantona l’idea di un lungometraggio, punta alla serialità televisiva e inserisce Gerard Way come produttore esecutivo (sempre in coppia con Gabriel Bá). Una mossa che si rivela subito vincente. Non ci è dato sapere quanta “libertà di movimento” gli sia stata lasciata, in effetti, ma col senno di poi la sua impronta è felicemente chiara.
Ognuno dei dieci episodi della prima stagione sfoggia una colonna sonora d’eccellenza, e un sincronismo tra immagini e commento musicale degno proprio di colui che, in origine, abbia immaginato le singole scene nella propria testa.
Dieci piccoli capolavori, dieci audiocassette come si facevano una volta: un racconto all’interno del racconto che regala stati d’animo estremi, coinvolgendo lo spettatore e dando spesso un retrogusto da videoclip a tutta la serie. Scene di violenza “ammorbidite” quasi sempre da pezzi iconici; grandi inseguimenti magistralmente intrecciati con un tappeto sonoro che chiede di essere scoperto e riconosciuto anche fuori dallo schermo… Ogni puntata è anche e soprattutto da ascoltare e regala perle inedite e classici immortali a qualsiasi tipo di spettatore: dall’esperto/fanatico al semplice fruitore casuale della radio. Il vero valore aggiunto dell’intera operazione.
Oltre a diverse cover – tra cui A Hazy Shade of Winter di Simon & Garfunkel riletta dallo stesso Gerard assieme a un vecchio sodale “Romantico”, il chitarrista Ray Toro – troviamo le musiche originali create da Jeff Russo dei Tonic, Woodkid, David Gray, Smith Westerns, addirittura una Nina Simone con la stupenda e inarrivabile Sinnerman, Queens of the Stone Age, Rod Stewart, Prince, Carol King e, prevedibilmente, molti My Chemical Romance.
Se fossimo ancora all’epoca delle cassettine, però, non avremmo a disposizione tutto questo archivio sonoro con cui massaggiarci le orecchie al sol pensarlo; oggi, al contrario, tale benessere acustico si presenta a noi sotto comoda forma di playlist su Spotify. Viva la tecnologia.
Gerard Way è un artista che ha saputo reinventarsi diverse volte, dunque, investendo la sua creatività su vari fronti (vedi anche la collaborazione con deadmau5 in Professional Griefers).
Grazie alla mano del suo principale artefice, a tratti cupa e nichilista e a tratti tinta di tenue fragilità adolescenziale, nel complesso The Umbrella Academy è un’opera acuta, avvincente e fiammeggiante. Proprio come la musica dei My Chemical Romance nei momenti migliori.
È probabile che la serie TV vi piacerà anche se non siete appassionati di fumetti; è una storia dalle belle chiavi di lettura, per chi sa e vuole coglierle, e dai pregevoli spunti di riflessione a proposito di un futuro destinato al collasso civile – salvo mobilitarci prima, tutti quanti, nel nome di un’empatia umana in via d’estinzione.
Niente male per un ex ragazzino sognatore del New Jersey, eh?