C’erano gli anni Sessanta, gli anni della cosiddetta prima ondata ska: suoni e artisti di diretta provenienza jamaicana, e gente come Prince Buster, The Skatalities o Desmond Dekker a definirne i canoni. Ma poi sono arrivati i Settanta (anzi, erano quasi finiti) e con essi la “seconda ondata”. Ad innescarla, una band meticcia di stanza a Conventry, la versione inglese di Detroit (stesse industrie automobilistiche, stessa crisi): The Specials. I quali in un paio d’anni, tra il ‘70 e l’80 riuscirono a riprendere in mano un genere, fondare un’etichetta, fare sold out in tutto il Regno Unito, mettere in imbarazzo la destra thatcheriana, litigare e separarsi. Non male, no?
Evidenza è che più la nuova musica sa di antico, più quella “vecchia” suona moderna. Per esempio si fatica a credere che quattro decenni ci separino dall’album d’esordio degli Specials, in considerazione di una freschezza indenne allo scorrere del tempo. E vogliamo parlare del messaggio trasmesso da un gruppo di bianchi e neri in maggioranza proletari, che scalava le classifiche non solo simboleggiando l’integrazione razziale ma addirittura inneggiandovi apertamente mentre Margaret Thatcher stava distruggendo il welfare e la classe operaia? Meticcia la musica, meticce le razze, niente barriere. Penso al beota Boris Johnson, agli altri buffoni sovranisti e nella mente affiora l’aggettivo “attuale”. Tornando all’arte, oggi degli Specials si coglie in pieno il nesso tra riforma e tradizione.
Loro e le Slits risposero ai Talking Heads da un punto di vista meno “arty”: se non ci credete, concedete un ascolto alla cover della dylaniana Maggie’s Farm – la Iron Lady un ovvio bersaglio – nascosta sul retro del 7” Do Nothing. Quell’ipotesi di Pop Group (quasi) rasserenato a spasso tra giungle più reali che urbane possiamo infilarla su una collana di gemme, tra le Teste Parlanti che si misurano con Al Green e il Marvin Gaye trasfigurato da Ari Up e compagne. Ci sta perfettamente. Altrettanto chiaro – e valido – è il significato sociopolitico di una con-fusione che partiva dall’eredità del defunto Impero Britannico, cioè dagli immigrati e dalla loro cultura. Utilizzare quest’ultima con piglio innovativo fu l’ennesimo colpo di genio di un’epoca irripetibile. Invidio benevolmente chi c’era, però confesso che rincorrere la storia per ragioni anagrafiche è stato appagante. Anzi, la visione a posteriori ha ulteriormente chiarito la portata della rivoluzione post-punk.
Corre il Settantasette quando il tastierista Jerry Dammers raduna i Coventry Automatics, abbozzo di futura grandezza che strada facendo muta in Special A.K.A. The Automatics e infine Specials. Con lui sono Terry Hall (adolescente dall’ugola gelidamente wave: farà la differenza), i chitarristi Lynval Golding e Roddy “Radiation” Byers, la sezione ritmica composta da Horace “Sir Gentleman” Panter (basso) e Silverton Hutchinson (batteria). Lynval ha la pelle scura ed è un dato fondamentale che si somma alla naturalità di recuperare lo ska da parte di gente folgorata dal punk, ma pur sempre cresciuta nell’ambito skinhead e dunque immersa nel northern soul e nei suoni della Giamaica. Gente che vuole scappare da una città operaia in decadenza per la crisi dell’industria automobilistica (come Detroit: tutto quadra) e giocarsi un riscatto.
A differenza di Police e Joe Jackson, i ragazzi di Coventry risalgono a prima che la battuta in levare rallenti e saldano punk e ska tramite la comune energia. Impossibile parlare di revival, quindi, men che meno da che l’altro elemento di colore, Neville Staple, da roadie passa al ruolo di MC inserendo il toasting – l’equivalente caraibico del rap, però nato dopo lo ska – su una tradizione già rinnovata con vigore e acume. I brani scritti innanzitutto da Dammers si affiancano così a brillanti riletture in un tour con i Clash, tuttavia il legame con il loro controverso manager Brian Rhodes si rompe presto a causa di una sfortunata visita in Francia che lascia sul campo anche Hutchinson, rimpiazzato da John Bradbury. Poco male, a conti fatti.
Sì, perché Jerry ha i nervi saldi e in testa l’idea meravigliosa della “sua” Motown. Ovvero di un’etichetta caratterizzata da un suono e un’estetica (come quella frattanto adottata dagli stessi Specials) che risultino riconoscibili all’istante. La fonda con l’amico Neol Davies, battezzandola 2 Tone in omaggio agli abiti in bianco e nero giustappunto indossati da mod e skinhead, ma prima ancora dai giovani Black British. Non sfugga la metafora interrazziale e neppure il fatto che Dammers, fedele ai dettami DIY, disegna pure lo stilizzato, elegante omino bicromatico che marchierà i vinili.
Primo fra tutti il 45 giri che a marzo 1979 reca su un lato l’embrione dei Selecter capitanati da Davies e affida l’altro a Gangsters, dove i nostri magnifici sette rielaborano Al Capone di Prince Buster con chitarre arabeggianti e stilettate a Rhodes. Faccenda memorabile che li rende chiacchieratissimi anche grazie al sostegno di John Peel.
Dopo che concerti a decine cementano l’intesa, la ska mania cresce inarrestabile e, avvalendosi della distribuzione Chrysalis, con libertà artistica pressoché totale la 2 Tone spedisce nelle chart Madness, Beat e Selecter spianando la via alla nave ammiraglia.
Prodotto da Elvis Costello, dal 1979 The Specials disegna un capolavoro che restituisce l’impatto live del gruppo ed è colmo di una frenetica gioia di vivere a tratti sfigurata da malinconia e cinismo. Epocale lo è per i motivi di cui in apertura e per come affronta il canone: alla maniera delle band sixties garage con blues e soul, lo mescola e storce e strapazza ricavandone un magnifico altro.
In tanta grazia ci si permette il lusso di escludere Gangsters – sta con altre delizie in origine solo sul breve formato nell’imperdibile Singles Collection del 1991 – dall’LP, nel quale sfilano quattordici tra scintillanti cover (la flemmatica A Message to You Rudy, Do the Dog – Rufus Thomas zuppo di crema acida alla Lydon – e una You’re Wondering Now struggente all’indicibile) e autografi strepitosi come il manifesto Doesn’t Make It Alright, il funk-dub Nite Klub, una sferragliante Dawning of a New Era che fonde Memphis e Kingston.
Che miracolo, poi, che tutto scorra spontaneo e fluido, dalla travolgente Concrete Jungle alla stranita Too Hot (ancora Prince Buster), lungo gli slarghi di It’s Up to You e la verve irresistibile di Monkey Man sottratta a Toots & The Maytals. Una festa, insomma. Eppure non ti levi dal palato un retrogusto aspro di birra scura, più che altrove nelle polaroid urbane Stupid Marriage e Blank Expression e in una Too Much Too Young dal ritornello istantaneo e la dinamica sapiente.
Una tale bellezza viene premiata dal quarto posto nazionale e dal fondo dei Top 100 statunitensi, ragion per cui si assaggia l’America con un giro concertistico e un’apparizione al Saturday Night Live che in ambito ska-core avrà il peso dei Fab Four da Ed Sullivan. Infine la madrepatria si inginocchia a un 2 Tone Tour che fa ovunque sold out. Però!
Tuttavia la saggezza popolare insegna che dalla cima non si può che cadere e così sarà, seppure in gloria e con dignità. Nel gennaio 1980 l’EP dal vivo Too Much Too Young schizza al numero uno mentre l’estrema destra cerca di cavalcare l’onda (ciò nonostante Golding viene aggredito) e si indugia in qualche eccesso di alcol e chimica. Ci sono anche mugugni e dissapori, siccome Jerry detesta il ruolo di star e pianifica la mossa successiva. Di essa si fa carico in autunno More Specials, 33 giri un po’ slegato e con qualche riempitivo che nondimeno guarda altrove con coraggio e intelligenza. Le sue brillanti intuizioni etno-lounge si riveleranno influenti su Damon Albarn (clamorosi lo storto flamenco Stereoype, l’anticamera dei Gorillaz di International Jet Set, una Do Nothing avvolgente e dolceamara) e il rinnovamento nella continuità vanta la cover di Enjoy Yourself, festaiola con retrogusto di profetica tristezza, il boogie mutante Rat Race, l’errebì citazionista Sock it To‘em JB, una Man at C&A minacciosamente vicina a Lee “Scratch” Perry.
Il vero masterpiece finale è comunque un altro immenso singolo, che nel giugno ’81 arriva in vetta fungendo da involontario sfondo ai disordini di Brixton e Liverpool. Ecco: se questa storia fosse un film, i titoli di coda scorrerebbero su Ghost Town. Su parole taglienti e su una melodia ipnotica che, a passo strascicato, cammina lungo un gospel metafisico intessuto di echi d’Arabia, cocci di tristezza e stridori. Un attimo prima del trionfo Neville Staple annuncia il forfait. Lo seguono a ruota Hall e Golding, che in segreto tramavano con lui i Fun Boy Three, e poi lascia anche Radiation.
Il capobanda reagisce con eleganza: si prende del tempo e nel 1984 i suoi Special AKA pubblicano l’LP In the Studio, gioiellino di pop trasversale colorato di Africa, jazz e musical benedetto dall’inno Nelson Mandela. Jerry Dammers si ritira da campione imbattuto (oggi fa il DJ e suona jazz con la Spatial AKA Orchestra) e gli altri ripescheranno la sigla per infinite reunion e dischi superflui. Ciò che importa davvero sono però i brandelli di cuore lasciati in eterno nei solchi di The Specials.
“Too much, too young”, sì, ma la Storia ha dato loro ragione.