Un’eredità di importanza incalcolabile, la parabola artistica dei Talking Heads è stata l’equivalente di un romanzo di Philip K. Dick in musica. Come ascoltare con anni di anticipo il nostro oggi e per questo, anche quattro decenni dopo la pubblicazione, il loro capolavoro Remain in Light suona incredibilmente fresco. Attuale non per modo di dire.
C’è uno spettro che si aggira per il mondo e il suo nome è “anni Ottanta”. Sotto il peso di troppe becere rivalutazioni, i più dimenticano che il suo lascito fondamentale rimane un concetto prezioso come il meticciato stilistico. Volendo cercarne il probabile big bang, occorre guardare ai Clash di Sandinista! e a Remain in Light dei Talking Heads: dischi in egual misura complessi e cruciali, che sono riusciti a spostare la tradizione rock fuori dal centro percettivo della musica popolare allargandone i confini e dando il via sia al crossover “estremo” che a parecchia dell’attitudine post.
Faccende oramai date per scontate ma che tali non erano nel 1980, allorché uno stralunato quartetto che aveva preso il volo dal punk giunse all’alba dell’uomo e ne tornò con un’idea di avanguardia che, oltre a stimolare i neuroni, faceva – fa ancora: ascoltare per credere – muovere le gambe. Come se il sapiens e il primate in noi si fossero riappacificati. Come se ragione e istinto seguissero il pulsare armonioso della natura.
A monte c’era un consapevole cannibalismo culturale rovesciato: l’artista che si spoglia dei panni “colonialisti” e con umiltà si accosta a espressioni altre, le reinterpreta e utilizza per sovvertire le regole. Picasso trovò la scintilla nelle maschere del Continente Nero e anche per i Talking Heads tutto cominciò in Africa (pur senza fermarsi laggiù) e se spetta alla progenie e all’impatto esercitato sulla storia offrire validi motivi a sostegno della grandezza di una band, non vi sono dubbi circa lo status di David Byrne, Chris Frantz, Jerry Harrison e Tina Weymouth. Una discografia che non raggiunge la decina di titoli tratteggia un’evoluzione straordinaria che ha ridefinito grammatiche e vocabolari e tracciato rotte battutissime.
Oltre a dirsi imprescindibili, i quattro newyorkesi hanno rappresentato un modello di pensiero in base al quale ogni avventura poi è stata possibile, dai Massive Attack che remixano Nusrah Fateh Ali Khan a Mark Lanegan che canta con i tuareg. Tutti i tasselli sono conservati nei solchi di Remain in Light: tecnologia, memoria, sperimentazione, fusione. I Talking Heads sono stati i primi griot dell’occidente che con largo anticipo hanno cantato il nostro qui e ora. Angosce e desideri compresi.
Senza nulla togliere ai protagonisti, è innegabile che nella vicenda esiste uno spartiacque. Si chiama Brian Eno e fu il catalizzatore d’eccezione per un talento col quale condivideva il background delle scuole d’arte. Le Teste, insomma, avevano dentro tutto ma facevano un po’ fatica a dirlo. Necessita in effetti di messa a fuoco il gruppo che dopo una gavetta triennale esordisce proponendo in 77 un ibrido tra l’essenzialità dei Velvet Underground e qualche trasfigurazione black.
Ne è a ogni buon conto consapevole, così come è consapevole che il problema risiede nel cogliere in studio l’energia di live leggendari. Per adesso, tra ipotesi di Modern Lovers funky o caraibici e apprezzabili prove tecniche di new wave, si centra un solo classico nella sensazionale Psycho Killer. Quando è ora del seguito, i Talking Heads convocano Brian l’Entusiasta: grazie alla crescente sintonia con David, figlia di retroterra e interessi assai simili, il non musicista britannico – fresco reduce dalla trilogia berlinese architettata con Bowie – porta con sé metodi poco ortodossi e le sue “strategie oblique”.
Prima tappa è nel 1978 More Songs about Buildings and Food, colto in diretta con lo scopo (centrato in pieno) di catturare una funkedelia intessuta di asciutta ipnosi e moderni stridori. Raggiunto l’apice in Take Me to the River, sottratta al Reverendo Al Green tramite un sensuale misticismo da Armageddon, è severamente vietato sedersi sugli allori. Bisogna guardarsi attorno, annotare i segnali di un’epoca al termine e del poco rassicurante nuovo che avanza.
La formazione tiene a bada il successo appena acquisito con una precisa affermazione estetica e un ulteriore mettersi in discussione: di conseguenza, il (primo) capolavoro Fear of Music riplasma i meccanismi e l’approccio alla materia sonora approdando a tortuose tematiche testuali e atmosfere introspettive, a un dadaismo da giungla e ipotesi di Roxy Music in paranoia, a inni da dopo-bomba e sublimi ridefinizioni della ballata rock. Incredibile a dirsi, il party nella mente evocato da Memories Can’t Wait è appena cominciato.
Terminata l’ennesima tournée, Byrne si “riposa” intensificando la simbiosi creativa con Brian Eno.
Tra l’estate 1979 e l’autunno dell’anno seguente, avvalendosi di uno stuolo di percussionisti e bassisti i due completano My Life in the Bush of Ghosts, anche se una controversia legata all’uso di registrazioni sacre congela il lavoro fino al febbraio ‘81, ovvero quattro mesi dopo la pubblicazione di Remain in Light. Annotato il falso scarto cronologico, il disco salta all’occhio come un gemello al pari fondamentale e innovativo, costruito su intricate strutture ritmiche e trame di tastiere che, insieme alle rarissime chitarre, restano in disparte mentre al proscenio salgono voci prelevate dalla radio o da sconosciuti LP world.
Misterioso ed evocativo, costruisce un’ipotesi inquieta di Quarto Mondo postmoderno con un precedente meno noto, poiché le found voices erano state impiegate già nel 1969 da Holger Czukay in Canaxis. Con la differenza affatto trascurabile che il bassista dei Can integrò spezzoni etnici a suoni ancestrali, laddove qui sono parole strappate al quotidiano a essere incastrate in un contesto che risulta contemporaneamente atavico e futuribile. Per mezzo di un ibrido tra campionamento e detournement situazionista, si compie un altro enorme passo avanti.
Facciamone uno piccolo indietro, adesso: fingete che quanto appena descritto non sia ancora accaduto e seguitemi in quel di Nassau, Bahamas. Lì i Talking Heads si scambiano strumenti e visioni allestendo dei groove da arricchire a New York assieme al trombettista Jon Hassell e alla chitarra di Adrian Belew. In ottobre, il risultato ha una portata epocale. Byrne, con garbata ironia, lo battezza etnofunkpsichedelismo.
La natura di Remain in Light si coglie in pieno con una fruizione “da vinile”: se la prima facciata schiaccia a fondo il pedale del ritmo e il lato B vanta una natura in tal senso più quieta, è un’evidente complementarità a garantire l’impatto sinfonico dell’insieme. Ne deriva una bellezza atemporale dove gli strati di lava poliritmica si raffreddano gradualmente rivelando un acuto astrattismo pop. Prova ne sia la rapidità con la quale entrano in testa il corale cingolato kraut-funk di Crosseyed and Painless, la Born Under Punches travolgente però pure stranita, una The Great Curve che turbina febbrile attorno al crimsoniano assolo di Belew.
Benché complesse, sono canzoni irresistibili come Once in a Lifetime, hit dei pronipoti che funge da ponte aprendo la seconda parte. La seguono Houses in Motion, che trasferisce in Asia un call and response soul tagliandolo con un’irruzione africaneggiante, la disco subacquea in anticipo sul trip-hop di Seen and Not Seen, l’allucinazione precolombiana Listening Wind e i Joy Division cosmici di The Overload che infine ci abbandonano sull’orlo del precipizio. E dell’incredulità, anche.
Allo sforzo titanico seguono litigi e controversie, una riappacificazione e il memorabile tour nel quale i Talking Heads, espandendosi a una decina di elementi, spazzano via il concetto di gang-rock. Sancita la profondità della rivoluzione, nulla sarà più lo stesso. Verranno dischi buoni quando non ottimi, lo scioglimento nel 1992 e le Teste di nuovo libere.
Solo quella di David Byrne ha però parlato con voce convincente e fuori dall’ordinario. Ha parlato a noi testimoni del conto alla rovescia scandito dalla Madre Terra. A noi che vorremmo ascoltare Once in a Lifetime mentre il Titanic sprofonda, perché sarebbe un ritorno in grande stile nella notte dei tempi.
Lettin’ the days go by.