Il pop di nobile rango è quello che coglie l’attimo ma parla a chiunque e in qualsiasi epoca. È il pop che vince la sfida contro il tempo e le mode. Quello che traccia strade che gli altri seguiranno e per questo non invecchia mai. Quello dei T.Rex.
Nel 1956 René Magritte dipingeva un quadro intitolato Il sedici settembre, nel quale una luna irreale splendeva all’alba attraverso i rami di un albero scuro e possente. Il sedici settembre di quarantaquattro anni fa, nelle prime ore di un nebbioso mattino londinese, una Mini 1275 GT viola esce di strada lungo il Barnes Common. Dopo lo schianto contro un sicomoro, le lamiere contorte rivelano due persone nell’abitacolo. Al posto di guida Gloria Jones ha perso conoscenza, presenta ferite gravi ma se la caverà. L’altro passeggero, prossimo a compiere trent’anni, è stato sbalzato nella parte posteriore del veicolo ed è morto sul colpo.
Il padre di tutti i dandy Oscar Wilde sosteneva che gli dei ci puniscono esaudendo i nostri desideri. Nel romanzo della popular music pochi incarnano la massima come Marc Bolan, che ha rincorso il sogno di rendersi immortale e nel bene e nel male è stato accontentato. Lui che danzava tra realtà e rappresentazione come un acrobata istintivo ma perfezionista, che trasforma l’apparenza in sostanza e l’estetica in etica. Un camaleonte entusiasta, così sincero e carismatico da trascinarti nelle sue fantasie e convincerti che siano reali.
Giusto così, perché nel pop contano la messa in scena dei sentimenti e la magia che fonde particolare e universale. In fin dei conti, l’originalità è un falso problema se dei modelli cogli l’essenza e lo spirito. Seriale come Andy Warhol e meravigliato come un fanciullino, Bolan ha creato così un glam che chiamava cosmic rock: intrecciando giochi d’identità, citazioni esplicite del passato e lo sguardo puntato avanti. In un apparente paradosso, languide ballate e un’eccentrica elettricità – sensuale e ribalda, però benedetta da un risvolto “femminile” – hanno inaugurato la fase postmoderna del rock, dove un artista può esplicitamente (ri)costruirsi partendo da frammenti di ciò che trova attorno a sé.
C’è soltanto voluto un po’ di tempo per capirlo. Dal punk – che in quelle sonorità e provocazioni era già contenuto – parte un filo che ci accompagna nell’attualità del tributo AngelHeaded Hipster e, per limitarci ai soliti noti, lega tra di loro Morrissey & Marr, Devendra Banhart, U2, R.E.M., Supergrass, Black Keys. Lo stesso filo termina nella scossa al cuore e nei brividi che accolgono il centesimo deflagrare di 20th Century Boy. Ancora oggi, indescrivibile e abbagliante come la prima volta che entrarono nella nostra vita.
L’Inghilterra riacquista la voglia di vivere a un biennio dal termine della guerra, quando il governo vara un piano di nazionalizzazione dell’industria e dei servizi che prepara il terreno ai Sixties. Mark Feld saluta il mondo proprio nel 1947, minuto ed estroverso proletario di Londra che scopre il rock‘n’roll per caso, quando il babbo gli regala un singolo di Bill Haley scambiandolo per tal Bill Hayes. L’ascesa di Elvis Presley fa il resto, anche se la chitarra è a lungo solo un accessorio con cui imitarne le mosse mentre sul giradischi passano Cliff Richard, Adam Faith ed Eddie Cochran.
A fatica il quattordicenne mod termina gli studi e, tra un giro dei club e delle boutique di Soho, impara i rudimenti della sei corde. Nel ’63 decide di diventare una star. Non sa cantare? Imparerà, come hanno imparato i Beatles che puntellano la crisi nata dall’evidenza che l’esteriorità non basta. Il ragazzo la affronta leggendo Dylan Thomas, Arthur Rimbaud, i romantici inglesi e le leggende greche e riempiendo quaderni con disegni, poesie, abbozzi di canzoni. Nell’inverno ’64-’65 perde anche lui la testa per Bob Dylan, adotta l’alias Toby Tyler e registra un demo con Blowin’ in the Wind.
Già che c’è, da Zimmie prende anche la spiccata propensione all’auto mitologia che tornerà utile. A Parigi si schiarisce le idee, cambia la “k” in una più esotica “c” e crea il cognome d’arte dalla crasi di “Bob” e “Dylan”. A metà 1965 la Decca non sa come gestire uno che avvolge il folk in prospettive favolistiche che anticipano la psichedelia. Due singoli cadono nel vuoto, ma la caparbia faccia tosta identifica in Simon Napier-Bell l’uomo giusto, gli si presenta a casa e canta qualche pezzo. Un po’ per sfida e un po’ per scommessa, Simon dà una chance al falsetto e all’insolita dizione british di quel bizzarro sconosciuto.
Quando Hippy Gumbo sprofonda, lo inserisce nei John’s Children per fare casino e spillare denaro a Keith Lambert. Nella tournée con gli Who la tensione è altissima: il gruppo viene cacciato dopo che in Germania la folla distrugge il locale e la strumentazione. Tornati a casa, la censura bandisce il gioiellino Desdemona, Marc molla quei dilettanti e si lascia crescere i boccoli da elfo. Ha deciso che suonerà l’acustica seduto sul tappeto come un angelico Syd Barrett.
Abile come pochi nell’assorbire le influenze più disparate, un ex mod/folkettaro/proto-punk coglie l’estate dell’amore e, assistito da Steve Peregrine Took a cori e percussioni, passa dal freakbeat al freak-e-basta con i Tyrannosaurus Rex. Simon si defila, non prima di aver aiutato a registrare alcuni brani che entusiasmano John Peel e il produttore Tony Visconti. Ciò nonostante, il loro artefice ha il coraggio di tuffarsi nell’ignoto ma non le capacità per restare a galla. Estraneo al folk revival, nel triennio ‘68-’70 interpreta la materia con i mezzi limitati di chi ha consumato Hound Dog e adesso traffica con stravaganze eccessivamente stonate.
Dell’esordio My People Were Fair and Had Sky in Their Hair… But Now They’re Content to Wear Stars on Their Brows e dello sfocato Prophet, Seers and Sages, the Angels of the Ages convince il poco che va oltre la formula del busker hippie che cita a memoria Tolkien e C.S. Lewis. Unicorn prova a raddrizzare il quadro irrobustendo le trame e la scrittura, benché il vero propellente del decollo sia una Stratocaster acquistata sull’onda dell’entusiasmo per Jimi Hendrix. Intanto un tour in America separa Bolan dall’instabile compare e permette di fare amicizia con Howard Kaplan e Mark Volman dei Turtles. Subentrato il quieto Mickey Finn, gli anni Sessanta agli sgoccioli fotografano un’icona rock in embrione.
Come l’amico/rivale David Bowie l’artista ha cercato invano un’identità “di successo”. Incoraggiato e consigliato dalla fidanzata – e presto moglie – June Child, nel gennaio 1970 il bozzolo inizia a far intuire una farfalla che impasta folk, pop e rock con buoni risultati in A Beard of Stars. Il Melody Maker ritrae Marc aggrappato alla Fender bianca, sfacciato e sicuro di sé. Tra le mani ha la ricetta per conquistare il mondo, negli occhi il guizzo sornione di chi sa che il decennio alle porte sarà una faccenda completamente diversa.
Così in sintonia con il destino da deviarlo, il ventitreenne mette a frutto le esperienze accumulate con un equilibrio tra ispirazione e calcolo. L’arte rock ha toccato sommità irripetibili, tra un decesso e l’altro ci sono un ricambio generazionale e soprattutto un vuoto di potere: chiusa l’epopea dei Beatles, i Rolling Stones sono in esilio e gli Who misurano le loro ambizioni. Con tempismo perfetto, un passo alla volta, Bolan riempirà quello spazio con uno stile insieme raffinato ed essenziale, figlio dell’inedita grazia che Simon Reynolds definisce da “maschio soft”.
Succede infatti che il tormentone In the Summertime di Mungo Jerry renda il vibrato accettabile alle masse, aggiungendosi all’epifania raccolta vedendo Bowie vestito di lurex e a un cantato che inizia a usare la gola e plasmare erotismo. Non ha più senso proporre stramberie hippie ad adolescenti con i soldi e fratelli maggiori dal gusto elaborato, specie dopo aver composto un blues’n’roll guidato da un basso pulsante e dei violini leggeri, che esorta a mettersi una stella in fronte e cavalcare un cigno bianco. Nel tipico “o la va o la spacca”, Ride a White Swan esce su singolo a nome T.Rex e nell’autunno 1970 arriva alla seconda piazza.
La campagna procede serrata in un misto di marketing e rispetto per il pubblico: fissato a 60 pence l’ingresso ai concerti, sui 45 giri appaiono tracce esclusive di valore. La nuova pelle richiede un’ossatura adeguata e il bassista Steve Currie è annunciato in concomitanza con il decembrino LP omonimo, che prosegue il processo di elettrificazione spedendo nei Top 20 energia, r’n’r acustico e un pizzico di allucinato torpore. Per evitare fraintendimenti, i menestrelli urbani vi sono raffigurati assieme a una Gibson arancione.
Con l’arrivo del manager Tony Secunda, i T.Rex ottengono ingaggi in locali più grandi e, per ispessire ulteriormente il suono, passano a quartetto con il batterista Bill Legend. Infine Hot Love centra il gradino più alto. La sera in cui Marc presenta a Top of the Pops l’irresistibile cocktail di Fifties, distorsore e la-la-la infinito, sul viso ha due scie glitterate. Nei giorni seguenti i negozi di cosmetici del Regno Unito sono presi d’assalto da femmine e maschi. Benvenuto, glam rock.
Un irripetibile allineamento di pianeti fa in modo che Electric Warrior sia un eterno capolavoro di freschezza e potenza. Una scrittura matura si salda alla maestria di Visconti nel lavorare con dettagli preziosi: chitarre dialoganti o in reverse, intarsi tra pianoforte, i cori degli ex Turtles e archi lievi, punteggiature fiatistiche, echi e riverberi sospesi tra un’idealizzata ricostruzione degli anni ’50 e il tocco di Phil Spector. Ogni elemento dona ai brani un carattere specifico e rinuncia alle pomposità in voga, collocando fuori dal tempo un disco che prende forma spontaneamente.
Incisa durante un viaggio oltreoceano e rifinita a Londra, una manciata di canzoni magnifiche forgia l’unità di fondo restituendo una solida perfezione dall’artwork firmato Hipgnosis al voodoo rock Mambo Sun passando per la pigra sensualità su riff elastico di Get It On e le malinconie metropolitane Cosmic Dancer e Life’s a Gas. Il vibrante romanticismo di Girl e il blues-a-billy Jeepster sono bilanciati dalle movenze serpentine di Monolith e The Motivator, l’ironia in umore black di Planet Queen dalle dodici battute di Lean Woman Blues. A chiudere i giochi, tra stridori e martellamenti Rip Off strizza addirittura l’occhio agli Stooges.
Esaltante e oliatissima macchina pop, l’album stabilisce le coordinate stilistiche del glam e scatena la T-Rextasy. Migliaia di adolescenti copiano abiti e trucco bolaniani in un fanatismo mai visto dai lontani giorni dalla beatlemania, benché stavolta ci siano di mezzo l’androginia e una persona sola, che avrà occasione di conoscere il lato oscuro della fama e nel frattempo si compiace delle mille lettere che riceve ogni settimana.
Il successo ha affilato l’ego e gonfiato le piume al narcisista terminale che ora viaggia in Rolls-Royce. Sotto la giacca di satin e il boa di struzzo, non manda a dire che ce l’ha fatta, con Secunda rinegozia i contratti e fonda un marchio discografico. Festeggiato il Natale ’71 con Get It On nei primi dieci singoli americani, siede comodo in cima al mondo. Tra poco, però, l’aria diventerà gelida.
Guai a desiderare troppo qualcosa, ché potrebbe avverarsi e non essere come te l’aspettavi. L’energica Telegram Sam inaugura a 45 giri la nuova stagione in un vorticare di paillettes travolgente e frenetico come sarà tutto il 1972. Le trionfali esibizioni a Wembley sono catturate da Ringo Starr, che in un surreale passaggio di consegne filma indisturbato il documentario Born to Boogie, tra marzo e luglio le ristampe dei Tyrannosaurus Rex aggiungono hit a Metal Guru, incalzare privo di ritornello che verrà ricalcato dagli Smiths. Eppure, nell’attimo fatidico in cui Ziggy Stardust porta all’estremo la confusione sessuale, The Slider manca il podio di un soffio.
Di un nonnulla inferiore al predecessore, resta l’opera più personale di Marc, disseminata di inquietudine tra le righe e le citazioni di se stesso, di John Lennon e Pasolini. Le vesti sgargianti e la guasconeria si mescolano a un senso di agitazione anche se nessuno sente le grida di aiuto dell’umbratile Rock On, di una nevrotica title track che scioglie il refrain in archi mesti e dei rabbrividenti cristalli Main Man e Spaceball Ricochet. Altrove il dualismo regala una stradaiola Baby Boomerang, il ribollire di Buick Mackane e la torbida Rabbit Fighter e se Chariot Choogle sono i Led Zeppelin in fiamme pop, Ballrooms of Mars già disegna i Flaming Lips al colmo della tristallegria.
Le crepe in realtà ci sono. La band si è sfasciata nell’inutile tentativo di conquistare gli Stati Uniti, Secunda ha abbandonato la nave e i soldi portano cocaina da tirare con contorno di cognac e champagne. Nel divo sale il timore che i teenager lo dimentichino. La soluzione sarebbe guidarli da benevolo pifferaio via dal sistema che tritura un volto a stagione per arrivare dove coincidano ambizioni e mercato. Ci vorrebbe un senso della realtà che non appartiene a chi comunque è ancora capace di cavare dal cilindro l’inno hard Children of the Revolution e una Solid Gold Easy Action irresistibile come il titolo da potenziale slogan pubblicitario.
Ciò nonostante, nel marzo ’73 Tanx incappa in piattezza e apatia. Con Slade e Sweet in circolazione, il capostipite afferma che il glam è morto e si dissocia da un mostro sfuggito di mano, ma vallo a spiegare ai critici e alle masse volubili. Il primo campanello d’allarme è una spedita Truck On (Tyke) che non frena la crescente indifferenza.
Lo showbiz se ne frega dei successi in bacheca, bellezza. Ha appena iniziato a fartela pagare cara.
Nel 1974 l’eccitazione è svanita. Spodestato, Bolan fatica a reinventarsi tra problemi esistenziali, idee appannate e il silenzio assordante di un impero che si sfalda. A spingerlo fuori dal tunnel è la nuova fiamma Gloria Jones, autrice presso la Motown e culto in area northern soul grazie a Tainted Love. Viene accolta tagliando un altro legame con il recente passato, poiché incarna una musica nera fino ad allora ammirata e nella quale Marc vuole tuffarsi.
Sono in ogni caso luci e ombre, poiché la melodrammatica Teenage Dream salda il conto con il glam e Zinc Alloy and the Hidden Riders of Tomorrow abbraccia soul, R&B e funk con poca verve. Mentre il Duca Bianco stravince la partita con Young Americans, Marc saluta Tony Visconti riparando tra Los Angeles e Monte Carlo per la briosa Light of Love e il mediocre Bolan’s Zip Gun.
Nel pantano di attesa e stasi che è l’esatto centro degli anni Settanta, il viale del tramonto è un’ipotesi reale. Mai dire mai: un mattino, l’uomo entra in albergo e – ironia della sorte – da uno specchio gli appare l’ex seduttore alla deriva. L’ego si incrina e per un attimo Mark Feld si vede come lo vedono gli altri. Qualcosa scatta nell’edonista che pensavi spacciato e che, diventato padre, riscopre il piacere di avere responsabilità e obiettivi. Basta poco per risalire artisticamente la china con la ribalda New York City, l’amarcord London Boys e un Futuristic Dragon sopra le righe con gusto.
Non è un fuoco di paglia: la verve di I Love to Boogie, Laser Love e dell’amarognola Life’s an Elevator mostrano urgenza e vitalità. Un segno dei tempi, più che del destino. Quando il ‘77 sconvolge l’Inghilterra, Bolan si dichiara padrino di quei monellacci e ha ragione: ricambiato, il progressive schifava sia i T.Rex che i punk, figli di una rivoluzione che concepiva l’immagine come un messaggio e anteponeva l’espressività alla tecnica. Come un cerchio che si chiude, ecco un tour con i Damned e Dandy in the Underworld, riassunto del decennio che traghetta il glam nella new wave.
Disinvolto e agile come ai bei tempi, il nostro eroe promuove il nuovo che avanza in una rubrica sul Record Mirror e nello show televisivo Marc: terminata l’ultima puntata, fa un salto allo Speakeasy. Il resto lo sapete.
Da poco era nei negozi Celebrate Summer, squillante inno alla nuova vita dopo che Dandy in the Underworld aveva piegato il mito di Orfeo in autoanalisi e spazzato via i fantasmi. Diamante che anticipa i Ramones spectoriani, suggerisce un what if ambientato in dimensioni parallele dove le cose sono andate in modo diverso. In questo, di mondo, la rabbia sfuma nella commozione quando d’un tratto ricordi quelle parole da profeta mancato: «la vita è una meraviglia / spero duri a lungo». Gli uomini muoiono, non le stelle. Che il cielo ti sia lieve, Marc.