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Il problema con il jazz

Insospettate analogie tra la vita da musico di strada e il lavoro impiegatizio.

Contro la musica da ascensore, i trucchetti e il pilota automatico.

Il jazz non ha nessun problema. Il problema è il pilota automatico. C’è gente che parla col pilota automatico, “parla per dare aria alla bocca”, come si dice dalle mie parti. Quando ci chiedono come stiamo e rispondiamo: «Non c’è male, grazie, e tu?», e ci rispondono: «Bene, dai. E la famiglia?», e rispondiamo: «Tutto bene», e loro dicono: «Bene», e noi dopo uno scomodo silenzio diciamo: «Dai, allora ci vediamo, eh» e loro dicono: «Sì, sì, ti chiamo in settimana, ciao», quello è parlare con il pilota automatico.

Non serve pensare per dire buongiorno e buonasera, e un jazzista ti dirà che non serve pensare nemmeno per improvvisare su un blues in SI bemolle: viene da dire che le chiacchiere da ascensore e la musica da ascensore si fanno con la stessa parte del cervello, la stessa che controlla gli sbadigli.

Il jazz tradizionale, la musica che ti viene in mente se pensi agli Aristogatti o a un film di Woody Allen, è l’ideale da suonare in strada: è allegra, piace a tutti, soprattutto ai bambini e ai musicisti, e i pezzi li puoi suonare anche se non li conosci, basta che sai improvvisare un po’. Le regole del gioco sono invariate da più di un secolo: suoniamo la melodia principale tutti insieme, facciamo un assolo a turno, ri-suoniamo la melodia principale, fine della canzone. Gli assoli fanno la differenza tra un gruppo interessante e un gruppo noioso, che è come dire: la qualità della conversazione fa la differenza tra una serata interessante e una serata noiosa.

Dici assolo, dici tromba. (Foto di Flavio Sousa)

Quando parli con qualcuno sei come un jazzista che improvvisa: vai a pescare parole, frasi e frasi fatte, pieghi la lingua comune alla necessità della situazione e costruisci un messaggio per comunicare con la persona che hai di fronte. Non reinventi la lingua ogni volta che apri la bocca. Allo stesso modo, un trombettista non reinventa il jazz ogni volta che suona la tromba: prende un po’ da Louis Armstrong, un po’ da Miles Davis e un po’ da quello che ha mangiato a colazione, e prova a costruire un discorso originale. E per costruire un discorso originale bisogna togliere il pilota automatico. E togliere il pilota automatico ogni tanto è fatica, soprattutto se quella canzone l’hai già suonata un’infinità di volte.

Il mio lavoro è piuttosto ripetitivo. Come gli impiegati delle poste e gli attori di teatro, i musicisti in generale e i musicisti di strada in particolare fanno e rifanno lo stesso gesto parecchie volte al giorno per diverse ore di fila: non puoi sperare che siano costantemente carichi a palla, sarebbe come pretendere che un barista sia sempre entusiasta di servirti un cappuccino. A volte fai un cappuccino o un assolo o mandi una mail senza pensarci troppo, col pilota automatico, accettando il fatto di essere musica di sottofondo e poco altro, perché magari sono le 11 del mattino e non c’è ancora molta gente in giro, abbiamo detto che suoniamo fino a ora di pranzo, bisogna dosare le forze. Altre volte disegni la Cappella Sistina nella schiuma della tazza o suoni la chitarra coi denti, perché questi pazzi che si sono fermati ad ascoltare si meritano tutta la tua energia. Come con tutti i lavori, se lo fai con passione il tempo passa più in fretta e non ti sembra nemmeno di lavorare e ci sono più probabilità che tu faccia un buon lavoro, rispetto a quando lo fai con il pilota automatico. Prendi il rap, per esempio.

C’è questa cosa nel rap che si chiama freestyle: è quando mettono su una base e iniziano a improvvisare in rima a tempo. Improvvisare! In rima! A tempo! Non vi sembra una cosa difficilissima? Io per i rapper bravi a fare freestyle ho più stima intellettuale che per i maestri di scacchi: la biblioteca di citazioni, la fantasia, l’intuizione, la decisione e la velocità d’esecuzione mi lasciano sempre sbalordito. Improvvisare male, d’altra parte, è facilissimo, come parlare col pilota automatico: «Vengo dal quartiere / la rima è il mio mestiere / spacco tutto sulla traccia / ti piaccia o non ti piaccia». Cosa ci vuole? Basta sapere due rime e un po’ di slang, che è come dire due scale blues e un paio di licks. Un lick, lo dico per chi non suona, è l’equivalente di una frase fatta, di un luogo comune nella lingua parlata: non c’è rosa senza spine, il nuoto è uno sport completo, sciubi dubi dù, sciubi dubi dà.

Bignamino.

Improvvisare un assolo insipido è facile come fare freestyle brutto o scrivere sciatto o parlare senza dire niente, e molto spesso la gente non se ne accorge nemmeno, perché tanto è tutto jazz, e il jazz è sempre jazz, no? Il rap è sempre rap, no? No. Quando viene il tuo turno di parlare, di scrivere o di suonare, cosa fai? Lo togli il pilota automatico? O ripeti i soliti trucchetti? Quando è il tuo momento, la decisione tra improvvisare sul serio o rifare uguale lo stesso assolo di ieri è tua, tua è l’onestà intellettuale o la sua assenza. Quando ti chiedono come stai, perché dovresti dire qualcosa di diverso da «Non c’è male, grazie»? La persona che hai di fronte si merita che tu tolga il pilota automatico e inizi a parlare sul serio, a suonare sul serio, ad aprirti sul serio? E chi sei tu per decidere se se lo merita o no? Non dovresti scrivere sempre dal profondo del cuore, per usare un’espressione un po’ abusata, indipendentemente da chi hai di fronte? Non dovresti suonare ogni nota come se fosse l’ultima della tua vita? Non dovresti fare ogni cappuccino come se fosse l’ultimo della tua vita? No che non dovresti. Ma ogni tanto sì.

Il mio problema con il jazz è che, se sai qualche trucchetto, puoi fregare la gente. È brutto farsi fregare da un trucchetto, ma è peggio scoprirsi colpevoli di usare trucchetti e non avere il coraggio di darci un taglio. Questa sensazione di essere circondato da cialtroni e sentirmi un po’ cialtrone pure io ce l’ho nella vita di tutti i giorni, non c’entra la musica o la scrittura, ma non è che posso dire che ho dei problemi con la vita, quindi dico che ho un problema con il jazz, ma spero di essermi fatto capire. “Spero di essermi fatto capire” è come dire “spero che ti piaccia la musica che facciamo col gruppo”, o “spero che leggerai queste righe fino in fondo”, che a sua volta è come dire “spero che non penserai che sono un cialtrone come gli altri”.

Siamo più simili che diversi, noi che suoniamo per strada e voi che non lo fate, forse volevo solo dire questo: spero di essermi fatto capire.

Suonare per strada Louis Armstrong Miles Davis 

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