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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Ridi, Pagliaccio / sul tuo amore infranto! / Ridi del duol, che t’avvelena il cor! (Foto di Flavio Sousa)

Il problema coi pagliacci

Pagliacci, pagliacciate e altre cose che c'entrano col suonare per strada.

Metà dei miei amici hanno lavori diciamo normali, otto ore al giorno e uno stipendio fisso, e l’altra metà sono pagliacci di professione: fanno cose, vedono gente, creano collettivi, scrivono progetti, autoproducono dischi. Ogni volta che racconto le avventure dei miei amici pagliacci professionisti sembra sempre che me le stia inventando: si fa fatica a credere che qualcuno viva di pagliacciate.

I pagliacci non fanno ridere nessuno. Sappiamo tutti che sotto quella parrucca e dietro quel naso c’è un uomo che non ha la testa a posto: prima o poi dovrà togliersi quei pantaloni ridicoli, lavarsi via il trucco dalla faccia e iniziare ad affrontare la vita vera, come facciamo noialtri.

(Jerry Seinfeld)

Achille Lauro, i Kiss, un tizio mezzo nudo tutto dipinto di grigio che fa la statua in piazza e chiede un euro per una foto, Marcel Marceau, Ziggy Stardust e Sbirulino sono tutti dei pagliacci: dov’è la differenza? Nel conto in banca? Nel livello artistico? Nell’impatto sulla cultura popolare? Nel voto all’esame finale dell’Accademia dei Pagliacci?

TI hanno mai chiesto che lavoro fai, e tu gliel’hai detto, e loro ti hanno detto: “Ah, ma è un lavoro?”. E tu gli hai detto: “Sì, certo che è un lavoro”. E loro ti hanno detto: “No, davvero, che lavoro fai?”. E tu: “Te l’ho detto: il pagliaccio”. E loro: “Contentə te”.

Le espressioni Contentə te, o Basta che ti faccia felice hanno fatto più danni dell’abolizione della leva obbligatoria: ci sono un sacco di musicisti artisti scrittori filosofi poeti registi in giro che farebbero meglio ad andare a zappare, siamo d’accordo. Ma chi siamo noi per giudicare? Chi siamo noi? E siamo d’accordo tra chi? Fare il pagliaccio è un lavoro serio? Faccio ridere o sono solo un buffone? 

“I miei genitori hanno capito che quello che facevo era un lavoro solo quando col gruppo abbiamo riempito il PalaDozza di Bologna. Fino a quel giorno, sotto sotto avevano sempre avuto il sospetto che andassi al bar a bermi le birrette con gli amici, che suonare non fosse una roba da persone serie”. Lo diceva uno de Lo Stato Sociale, non mi ricordo quale dei cinque.

Vestirsi come dei pagliacci e salire su un palco a fare i ridicoli è una cosa un po’ da matti, ma se ci pensi neanche poi tanto. C’è tutto un sistema di convenzioni sociali a giustificare la tua pagliacciata: la gente è uscita di casa per venire a vedere il tuo show, ha pagato un biglietto, c’è un palco e si sono appena spente le luci, ora si accenderanno ed entreranno i pagliacci. Tutto normale (nel mondo di prima). La cosa veramente da manicomio, nel mondo di prima e in quello di adesso e nel prossimo, è fare il pagliaccio a un angolo di strada, farsi guardare strano dalla gente, e continuare.

Non basta avere ragione, bisogna che te la diano, dice il proverbio. Funziona allo stesso modo con il senso dell’umorismo: che tu faccia ridere o no, non lo decidi tu, te lo devono dire gli altri. Chi sono gli altri? Il resto del mondo? L’opinione pubblica? Tutti quelli che ti conoscono? Anche meno. Chiamerai gli altri il numero di persone che ritieni sufficiente per continuare ad alimentare la tua convinzione di essere simpatico. O di avere una bella voce quando canti. O di raccontare storie interessanti quando scrivi. Perché essere un artista o un pagliaccio o un genio o un cretino non basta deciderlo: te lo devono dire gli altri.

Suonare per strada significa invadere uno spazio pubblico e dire: “Avrei pensato questa cosa: sono un musicista professionista. In questo momento a tutti gli effetti sono solo un cialtrone, perché non esiste un Albo dei Musicisti Professionisti e questo non è neanche un palcoscenico e non basta dire di essere simpatici per essere simpatici, lo so. Ma se inizio a suonare, e la gente si ferma ad ascoltare, io ci comincio a credere. E se a fine giornata c’è uno stipendio decoroso nel cappello, domani torno”.

La nostra identità come musicisti è sempre al punto di esplodere, dipendiamo dal giudizio dei nostri simili per mantenere il nostro posto nel mondo, se passano più di cinque minuti senza un applauso iniziamo ad andare in calo glicemico.

E di nuovo mi ritrovo a pensare che questa faccenda di suonare a un angolo di strada per un pubblico di passanti ignari sia la metafora perfetta di quasi tutto: non siamo tutti così? Non dipendiamo tutti da giudizio degli altri per avere un posto nel mondo? Non vogliamo che i nostri sforzi e il nostro valore siano riconosciuti, magari in denaro? Non ci trucchiamo la faccia o tatuiamo le braccia e diciamo al mondo: “Avrei pensato questa cosa: sono una persona super interessante e sensibile come poche e mi piacciono le passeggiate in riva al mare e il film di Truffaut e dovresti proprio conoscermi”?

È come giocare a ping pong uno contro tutti: sei lì che suoni e cerchi di colpire ogni passante con una pallina, e sulla pallina c’è scritto guardami! Sono un artista! A volte te la rimandano indietro con sopra disegnata una faccina che sorride, o un cuore. Altre volte la avvolgono in una banconota. Spesso sbagli mira e non colpisci nessuno, ma tu continui a giocare, a suonare. E lo sai che poi alla fine alla gente del ping pong non è che gliene freghi poi tanto, ma tu continui a giocare, a suonare. E ci saranno sempre quelli che diranno che il tennis, quello sì che è uno sport, mica il ping pong, ma tu continui a giocare, a suonare a ping pong. Contentə te, basta che ti faccia felice.

A volte quando suono il clarinetto per strada incrocio lo sguardo di una personcina di tre anni che guarda il tubo di legno in cui sto soffiando come guarderebbe una bacchetta magica o una spada laser. Sono convinto che ci sono parecchi bambini là fuori che un clarinetto non l’avevano mai nemmeno concepito, come oggetto, prima di vedermelo in bocca, e magari a qualcuno è pure venuta voglia di imparare a suonare.

Non è la cosa migliore che possa fare un musicista, farti venire voglia di suonare? Come fate a dire che è una pagliacciata? Certo che sono contento, certo che mi fa felice.

Per oggi basta. Abbiamo quasi finito. Avrei giusto un problemino con il jazz, ma niente di grave, non è nemmeno un problema con il jazz. Ne parliamo la prossima volta.

Suonare per strada 

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