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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Sugarcubes: prima che Björk diventasse Björk

Come cinque pazzi ambasciatori hanno rivelato l'Islanda al mondo del pop.

In principio, c’era un pop follemente irresistibile che d’un tratto ha messo l’isola più isolata sulle mappe del rock. I suoi artefici si chiamavano Sugarcubes, ma di zuccheroso non avevano nulla. Di geniale, sì, invece. Parecchio.

L'isola che (non) c'è

In quel remoto angolo del pianeta che pare essersi fermato a prima che l’uomo facesse la sua comparsa, i Fall c’hanno suonato spesso, e il clima era piaciuto così tanto a Mark E. Smith che gran parte di Hex Enduction Hour – album fra i più ostici del loro catalogo – alla fine è stata incisa lassù. Nel 1982, Jaz Coleman e Youth si prendono una vacanza dai Killing Joke e salgono su un aereo diretto in Islanda per collaborare con un’ottima band locale, i Theyr. Delle gite degli Psychic TV sull’isola abbiamo perso il conto e per un po’ il guru neopsichedelico Anton Newcombe l’ha eletta a personale eldorado. Concludendo: dimmi chi viene a trovarti e ti dirò di che pasta sono le musiche che ispiri. Faccende in certi casi non semplici da metabolizzare, certo, ma se non altro viene da chiedersi quale sia la ricetta.

Fuor di metafora, i suoni giunti dalla terra dei ghiacci a partire dai primi Eighties risultano lontanissimi da qualsiasi stereotipo. Sono bizzarrie che sfuggono alle classificazioni e vivono con regole proprie scaturite da una lotta fra estremi, come quella fra la lava e la neve che si contendono un territorio in cui la natura se ne infischia degli umani ma – da madre severa – ne modella il carattere. Questo conflitto tra polarità che talvolta riescono a risolversi è il compagno fedele di trecentocinquantamila abitanti dotati di coraggio, lucida follia e apertura mentale sufficienti ad affrontare una landa lunare. Non solo: a costruire in quei paesaggi mozzafiato una quotidianità di rispetto per l’ambiente, redditi invidiabili e un elevato tenore di vita.

Ebbene sì, anche Justin Bieber non ha resistito al fascino dell'isola.

In un posto del genere essere strambi aiuta. Anche per questo gli isolani non si isolano: maneggiano disinvolti la tecnologia, consumano litri di alcolici, leggono tonnellate di libri. E suonano. Separati dal continente ma attenti e curiosi nei suoi confronti, hanno disposizione una prospettiva particolare dalla quale osservare e poi reinterpretare le mode. Mescolando distacco e partecipazione, cesellano estrosi gioielli sonori che trattengono il fascino di luoghi dove ghiacci e vulcani coabitano in magica (dis)armonia.

Di siffatti incanti altrove non replicabili gli Sugarcubes sono stati i primi ambasciatori fuori dall’Islanda. Veterani formatisi per gioco, al resto del mondo sembravano sbucati fuori all’improvviso dal nulla, loro come quella surreale, sorridente sciarada dietro cui nascondevano talento e serietà. Altro che il prologo nella carriera di Björk o una pittoresca testa di ponte per Gus Gus, Emiliana Torrini e Sigur Rós: separatisi da quasi trent’anni, il riascolto li conferma vitalissimi e intriganti nonostante l’acqua passata sotto ai ponti.

Demoni deliziosi

Originali, gli Sugarcubes. Loro malgrado anche controversi, poiché su una rapida parabola artistica pesa eccessivamente il successo di colei che ne è stata la cantante e il cardine mediatico. In realtà, Life’s Too Good è magnifico a prescindere da ciò che lo ha seguito: a conferma che il genio vive di fulminei lampi, sarà in eterno un bislacco e appassionante cartone animato d’autore dove non riconosci i confini tra serio e demenziale. Lì gran parte del segreto, e anche in una (il)logica di estremismi così distanti da completarsi. Da ultimo, nei trascorsi che rispecchiano l’eclettismo e la sfuggevolezza di geometrie tanto sbieche quanto efficaci. Di canzoni umorali che con fanciullesca, spontanea disinvoltura alternano schiaffi e carezze, nonsense e profondità.

All’epoca della fondazione, Björk Guðmundsdóttir vanta un disco inciso che era solo undicenne, più la presenza nella punk band di sole ragazze Spit and Snot e nei Tappi Tikarrass, artefici di obliqua new wave attivi tra 1981 (il big bang del nuovo rock islandese) e 1983. Ancor più significativo, eccola successivamente nei Kukl con l’ex batterista dei Theyr, Sigtryggur “Siggi” Baldursson, e il cantante/trombettista Einar Örn Benediktsson. Lungo i medi Ottanta questa specie di “supergruppo underground” pubblica per l’etichetta dei Crass un paio di album che fondono Virgin Prunes e Killing Joke gettando nel ribollente calderone ruvidezze jazz e acidule sperimentazioni.

Per capirsi.

La predisposizione al rischio torna utile nella nuova avventura, come del resto la rete di contatti intessuta girando l’Europa. L’amicizia con gli anarchici Flux of Pink Indians si trasforma in un accordo mai messo per iscritto che porterà fior di quattrini nelle casse del marchio gestito da costoro (la One Little Indian) mentre assicura agli Sugarcubes una totale autonomia.

Non rimane che completare i ranghi con il chitarrista Thor Eldon (il marito di Bjork: mito vuole che il gruppo nasca lo stesso giorno del loro primogenito, l’8 giugno 1986) e il bassista Bragi Ólafsson, come Einar già nei pionieri Purrkur Pillnikk, che incidevano per l’etichetta gestita da Benediktsson. Vi gira la testa? Avete tutta la nostra comprensione, però non irritatevi se sulla giostra incontrate le stesse facce: il paese è piccolo ma per nulla provinciale. Si tratta semmai del paese dove contemporaneamente prende forma lo Smekkleysa, collettivo di artisti che all’occorrenza serve anche da casa editrice e discografica. Nell’idioma locale, il nome scelto significa cattivo gusto.

Quei candelabri rossi sono di indubbio cattivo gusto.

Pop dagli occhi blu

Ispirandosi a una provocatoria dichiarazione di Pablo Picasso, chi aderisce allo Smekkleysa si dichiara «contro il buon gusto, nemico della creatività». Per quanto concerne gli Sugarcubes, il proclama sfocia in smaniose deviazioni avant-pop devote alla new wave e racchiuse dentro una coloratissima bolla. Un’agitata prima dell’uso e nell’aria esplode un capolavoro piccolo solo nel formato, pubblicato mesi prima in lingua madre e tiratura limitata.

Nell’agosto 1987, Birthday ammalia a 45 giri con una cadenza elastica e sensuale (evidente sino all’ammiccamento finale l’impronta di Walk on the Wild Side) e lievi dissonanze che vi rimbalzano contro. Sull’estatico, vagamente malinconico rapimento trasmesso dall’insieme, l’inconfondibile voce di Björk – una bambina cresciuta in una favola disturbata adorando Gunter Grass e Georges Bataille – disegna nel più alto dei cieli aurore boreali profumate di shoegaze.

Esiste anche la versione in inglese, ma così fa più effetto.

Esordio da alieni, il classico immediato vola nella chart indie albionica entusiasmando la stampa. Ne nasce un vero e proprio caso, cui contribuiscono una combriccola fuori di testa e dagli schemi e interviste dove un ingannevole senso dell’assurdo cela critiche a capitalismo e religione. Senza un LP nei negozi, tutti vogliono incontrare gli Sugarcubes e soprattutto un nuovissimo modello di (riluttante) front woman. Nel frattempo, la strategia basata su 7” pregevoli e commercialmente fortunati alimenta l’incendio, poiché a gennaio 1988 le chitarre iridescenti di Cold Sweat tirano la volata a Deus, primaverile post-punk venato di reggae e funk.

Re(gina) Mida.

Come da copione, le major iniziano a fare una corte spietata al quintetto. Gli sceneggiatori però non hanno previsto attori fieramente autonomi che, senza battere minimamente ciglio, scartano di lato trasformando in caotico happening un’attesa esibizione londinese di fronte a discografici allibiti. Che volete farci, li hanno disegnati così: teste calde però acute, preferiscono l’integrità e la libertà alla pecunia. E che lo showbiz si adegui, per favore. Life’s Too Good arriva in estate, racchiuso in una copertina tanto assurda da essere autoironica.

Recuperati i lati A dei singoli, si aggiungono una breve coda orrorosa e un gruzzolo di ottimi inediti al gioiello che sposa i B-52’s con ipotesi di Talking Heads sotto anfetamine. Eclatanti in tal senso il manifesto Blue Eyed Pop, l’esuberante Delicious Demon e il recitar cantando di Einar, con quella dizione metallica dell’inglese destinata a essere tratto distintivo. Altrove, trentatré minuti densissimi rileggono gli Echo & The Bunnymen alla luce dei Pixies (Sick for Toys), immaginano gli Wire come una conseguenza dei Cocteau Twins (Traitor) e rivestono una peculiare concezione bianca di R&B con anticipi delle Breeders e inquietudini ballardiane (Motorcrash). Non placati dalle sciabolate di una Siouxsie che rinasce scapigliata in Mama, salutano omaggiando Sua Eccentricità Yoko Ono con Fucking in Rhythm and Sorrow, saltellante country in jazz scagliato oltre l’orlo della crisi di nervi. Bello, possibile e ancora pazzo dopo tutti questi anni.

Micro machines all'islandese.

Sudori freddi

Life’s Too Good vende bene un po’ ovunque grazie anche alla distribuzione americana, curata dall’attenta Elektra. Esito di tutto rispetto che tuttavia carica pesanti responsabilità sulle spalle della formazione, la quale accoglie la tastierista Margrét “Magga” Örnólfsdóttir in una mossa che non riesce a distogliere l’attenzione da Björk. Sotto stress, la ragazza si è separata dal consorte e lui non perde tempo a mettersi con la stessa Magga: il triangolo che nessuno aveva considerato è degno dei Fleetwood Mac, ma la vicenda non contempla un corrispettivo artico di Rumours.

Anzi, Here Today, Tomorrow, Next Week! patisce il clima di tensione e la fretta con la quale è stato concepito e realizzato. La scrittura procede con fatica, Einar è sopra le righe quando non fastidioso. L’equilibrio che mai avresti detto delicato si incrina in un mezzo passo falso salvato dall’ipnotica Regina, dal luccicare tra pop onirico e post-punk di Water e Planet, dalla Giamaica rivisitata di Tidal Wave, dalla mutant disco grottesca di Speed Is the Key e Bee. Episodi nient’affatto disprezzabili che si impongono su un resto incolore, non reggono sicuramente il confronto con le meraviglie dell’anno prima.

Quando dici un "pezzo paracadute", che salva tutto il disco.

Conseguenze immediate del sei politico sono le vendite scarse, il voltafaccia della critica e, dopo una tournée americana con New Order e P.I.L., un periodo di riposo. Il sabbatico si protrae per due anni, nei quali fioriscono progetti paralleli e Björk lavora in un negozio di dischi ingurgitando jazz, etnica e decine di vinili griffati Warp. Ancora non lo sa, ma sta costruendo le fondamenta del futuro che inizia a scintillare nei brani cui presta l’ugola in ex:el degli 808 State, senza dimenticare la singolare chanteuse che in Gling-Glò si balocca con il Guðmundur Ingólfsson Trio.

Si intitola Ooops, ma è tutt'altro che un passo falso.

Passano i mesi e si rimanda l’appuntamento con il terzo LP. Alla fine Stick Around for Joy è approntato con l’esperto cesellatore Paul Fox tra lo stato di New York e Los Angeles. Conseguenza ne è che a inizio ’92 l’asse stilistico si sposta sull’America e l’asticella si risolleva con arrangiamenti brillanti e penna rinvigorita. Ne trae vantaggio una scaletta solida che si apre sulla tumultuosa Gold – ospite John McGeoch, ex chitarrista di Magazine e Banshees – e in seguito dipana l’irresistibile hip pop di Hit, la vena funky frenetica di Vitamin e quella, al contrario, distesa della conclusiva Chihuahua, contaminazioni di un’esuberanza dolcemente nevrotica da far felice David Byrne come Leash Called Love, I’m Hungry e Walkabout.

Mucche, culturisti di colore e maglioni a righe.

Stufi del giocattolo

La stravaganza relativamente più lineare potrebbe costituire un secondo inizio per gli Sugarcubes, complici il boom del rock alternativo e le date di spalla agli U2 nelle arene statunitensi. Ciò nonostante, la star prossima ventura non vede l’ora di abbandonare il nido e spiega le ali. Avanza tempo per la raccolta di remix It’s-It, dove, tra qualche scartino, piacciono le reinvenzioni operate da Justin Robertson, Graham Massey e Todd Terry che alcuni membri della banda avranno la delicatezza di ribattezzare It’s Shit.

Poi ognun per sé e il clamore planetario di Björk per tutti gli altri, assai attivi benché giocoforza lontani dai riflettori. Einar è (stato) giornalista, web designer, barista e assessore alla cultura e al turismo di Reykjavík. Apparso in un brano sul retro del singolo El Mañana dei Gorillaz, con Siggi – che da solo compone musiche per documentari – e Hilmar Örn Hilmarsson/HÖH ha proposto una peculiare elettronica nei Grindverk e con i più focalizzati Ghostigital, allestiti insieme al produttore Curver e approdati alla corte di Mike Patton. Thor ha aggiunto al curriculum gli Unun, mentre Bragi e Magga (anche per lei un paio di lavori in ambito elettro-ambient) sono apprezzati scrittori.

Nel mezzo c’è stata anche una reunion, ovviamente piuttosto singolare: un concerto nel novembre 2006 per festeggiare il ventesimo anniversario dell’uscita islandese di Birthday, tenuto in un palazzetto gremito della capitale e il cui incasso è stato per intero devoluto a organizzazioni no profit. A raffreddare eventuali entusiasmi, la promessa che non vi sarebbero state ulteriori rimpatriate. Bravi, Sugarcubes: sinora avete mantenuto la parola. Sapete benissimo che le postille non si addicono alla perfezione.

E buon compleanno, in ogni caso.

Björk Islanda Sugarcubes 

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