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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Quando i Suede centrarono il loro primo Glam Slam

Un nome, un disco: la cometa che ha acceso il britpop.

Che si possa essere eroi anche solo per un disco è una sacrosanta verità. Soprattutto nel pop, dove brividi ed emozioni convivono in tre minuti, cogliendo il respiro del proprio tempo e collocandosene al di fuori in un batticuore che chiamiamo “classico moderno”.

Gods

Sei troppo vecchio per perdere, troppo giovane per scegliere / E l’orologio aspetta pazientemente la tua canzone. (David Bowie, Rock‘n’Roll Suicide)

L’eternità nel pop è una strana bestia. Per quanto tu possa rincorrerla, la catturi caricando lo spirito di un’epoca con valori universali e ragionamenti su quelli che i filosofi chiamano “massimi sistemi”. Secoli fa, qualcuno sosteneva che la storia si ripete: assioma difficile da smentire in campo artistico, dove tutto nasce da rielaborazioni del già detto che il genio veste con colori e forme attuali, tanto più convincenti quanto più orgogliosamente mostrano le radici. Seppur con minore intensità, il processo continua nell’eterno presente di internet, nel flusso indistinto di stili e generi e gruppi che si riformano senza che se ne avvertisse il bisogno.

Pensate per esempio ai Suede, tornati da un decennio abbondante senza l’apporto fondamentale di Bernard Butler. Tu chiamala, se vuoi, ostinazione. Oppure nostalgia canaglia, che fa lo stesso. Bisogna pur mangiare e, soppesando la carriera solista del cantante Brett Anderson e il basso profilo degli altri, comprendi il perché della reunion. Giustificarla e magari difenderla dipende da quanto si apprezza una minestra riscaldata, ma ci sono stati giorni nei quali certi cuochi apparecchiavano la tavola con portate favolose prima di – poiché il veleno si nasconde nella coda – scatenare un clamore in tutti i sensi fatale.

Friends will be friends… ma anche no.

A proposito di tempo che (s)fugge – nella seconda metà dei Novanta abbiamo assistito a un progressivo ritorno dei Seventies, finalmente sottratti al pregiudizio che li voleva un regno del kitsch redento dal punk. Svecchiando il glam con largo anticipo, i Suede hanno acceso – involontariamente, inconsapevolmente – la scintilla del britpop: senza un contratto né un disco e osannati dai fogli che contavano, hanno mostrato che un’inglesità era possibile oltre il morente baggy e la psichedelia al caramello dello shoegaze. Poi, siccome il destino è un cinico baro, come David Bowie aveva strappato lo scettro a Marc Bolan, loro sono stati spodestati dallo stesso substrato proletario da cui erano partiti. In pratica, l’ascesa degli Oasis e della lad culture ha messo in un angolo chi per un intensissimo momento era salito dai bassifondi a toccare le stelle. Chi stella lo era stato, e non per modo di dire.

Se diamo retta al cuore e un po’ anche al cervello, stella resterà per sempre un primo album che incarna alla perfezione quella stagione della vita colma di sentimenti e confusione che è l’adolescenza, l’humus spirituale del pop che i londinesi hanno risvegliato anche in chi, non più teenager, conservava il fanciullino innamorato di Bowie e degli Smiths. Innegabili le somiglianze stilistiche con la fase Ziggy del primo, per conto degli altri parlavano chiaro gli equilibri della (strana) coppia formata dal linguacciuto e ambiguo frontman e da un chitarrista talentuoso ma riservato. Senza dimenticare testi che – sbrogliando sessualità alienata, amore contorto e giorni grigi nella suburbia – arrivavano a lui, a lei e a chi, meravigliosamente non etichettabile, stava nel mezzo. Anche per questo in tanti oggi serbano gratitudine.

Per dire: gente mascherata che balla seminuda e due uomini che si baciano – subito vietata la programmazione diurna in metà nazioni, appena uscito worldwide.

Men

Gruppo londinese cerca giovane chitarrista. Smiths, Lloyd Cole, Bowie, Pet Shop Boys. Astenersi virtuosi. Esistono cose più importanti della tecnica. (inserzione sul New Musical Express, ottobre 1989)

Corre il 1988 quando Brett Anderson sfacchina con la fidanzata Justine Frischmann e il bassista amico d’infanzia Mat Osman sul repertorio di Bowie, Roxy Music, Smiths e Cure. Poiché è lampante che nessuno abbia le capacità per sobbarcarsi il ruolo di chitarra solista, si affidano alla fatidica inserzione che recapita a stretto giro di posta un poco più che maggiorenne Bernard Butler. Battezzatisi omaggiando Suedehead, primo cavallo di battaglia del solo Morrissey, consumano la gavetta a Camden Town con una scalcinata drum machine. Intanto Anderson & Butler – non sembra anche a voi un’agenzia pubblicitaria dei ’60? – scoprono che è bello scrivere insieme e che qualcuno apprezza, come dimostra il demo programmato a ripetizione in uno show radiofonico che li segnala alla piccola etichetta RML.

La qualità del video è – come spesso accade in questi casi – inversamente proporzionale alla rarità del footage.

Nel 1990 un brano compare in una loro compilation e la cosa diventa più seria: via la batteria elettronica in favore di Justin Welch, con il quale è inciso il 7” Be My God / Art, cinquecento copie in gran parte distrutte dai Nostri per la delusione. Incredibile a dirsi, a un altro annuncio risponde nientemeno che l’ex batterista degli Smiths, Mike Joyce, il quale preferisce dare forfait per non snaturare la crescita della formazione. In giugno infine ecco arrivare Simon Gilbert e, in nemmeno un anno, la svolta. Brett e Justine si sono lasciati, lei ora frequenta Damon Albarn e ha palesemente perso interesse nel progetto.

Qui tutto l'entusiasmo con cui la Frischmann frequenta l'altro lato del britpop.

Quando si giunge al punto di non ritorno, il duo la mette alla porta e liberandosi di una zavorra poi destinata a cinque minuti di celebrità con le vacue Elastica guadagna fiducia, anche se al momento un affilato, seducente glam rock dal respiro modernista altrettanta fiducia non sembra incontrare. Là fuori impazza il grunge, bisogna aspettare il 1992 perché i concerti suscitino interesse e, in una sorta di passaggio di consegne, persino l’entusiastico sostegno dello stesso Moz. Una sera, Saul Galpern della Nude – marchio indipendente che gode dell’appoggio Sony – propone un accordo per due singoli. Manco a dirlo: accettato al volo.

Stars

La migliore nuova band d’Inghilterra. (Melody Maker, 1992)

In aprile il traino di un mercato floridissimo e sempre in cerca di novità se ne esce con lo strillo di cui sopra. Non un’esagerazione, alla luce dei T. Rex inaspriti in chiave new wave che raggiungono il fondo dei Top 50 con The Drowners e, quattro mesi più tardi, della diciassettesima piazza ottenuta dal fragoroso inno Metal Mickey.

Quel feedback iniziale che fa sempre la sua porca figura e forse il meno butleriano dei riff butleriani.

Il contratto viene prolungato mentre Brett suscita scalpore, definendosi un «bisex che non ha mai avuto esperienze omosessuali». Vi risparmiamo una battuta di pessimo gusto che verrebbe spontanea, pensando a quella che in retrospettiva pare una boutade a uso e consumo dei media. Tuttavia con l’ambiguità bisogna saper giocare e anche un po’ marciare, ragion per cui diciannove (!) riviste che parlano dei Suede non possono sbagliarsi, specie quando nel febbraio 1993 la febbricitante ipnosi Animal Nitrate irrompe nei primi dieci 45 giri del Regno Unito.

La tattica vecchio stile ha funzionato e i classici su piccolo formato, impreziositi da una grafica immediatamente riconoscibile, preparano il terreno a un LP atteso come non succedeva da anni. Un LP prodotto con misura e attenzione al dettaglio da Ed Buller, esperto e con gusti affini a quelli dei ragazzi, da par loro impegnatissimi in autunno e inverno a limare i riff e le pennellate di Butler sulle quali si incastrano la sezione ritmica e le liriche. Tanto è il fervore che dalla scaletta sarà escluso materiale di prim’ordine risalente agli inizi, ma poco male se i leader sono impegnati in una competizione che si risolve in un pareggio. Anzi, in un capolavoro.

Ispirate ad avvenimenti reali, le parole di Anderson tratteggiano un eros sempre sull’orlo del thanatos, parlano di sesso e droga senza idealizzazioni né false mitologie e affrontano la caducità umana, la depressione, il suicidio. Dalla finestra, Brett osserva le vite degli altri attraverso la sua e – pur con tutti gli schermi del caso – sai che non è finzione. Se anche lo fosse, ci muoviamo nel teatro pop con una concretezza rara, che rafforza canzoni poggiate su architetture allo stesso tempo dense e slanciate, capaci di rivisitare i primi ’70 con l’asciuttezza del post-punk e il respiro dell’indie chitarristico appena posteriore.

Un esempio: «Let's chase the dragon» non è un sottinteso riferimento alla cultura e all'arte orientale, ma un modo di dire spesso usato tra i tossici che ogni volta tentano di raggiungere di nuovo i picchi della prima dose senza mai riuscirci e quindi – di conseguenza – senza mai nemmeno riuscire a smettere.

Recuperati i 45 giri, ci si appropria del passato avvolgendolo in un’appassionata malinconia che quasi tre decenni dopo scopri ancora conficcata nell’anima. A farle compagnia, l’epica raffinata con un cuore sospeso dell’apertura So Young, la traslucida ballata She’s not Dead, i cambi d’atmosfera di un’acidula e splendidamente dilatata Pantomime Horse. Se Sleeping Pills tratta la dipendenza da psicofarmaci delle casalinghe britanniche tra mesti ricami chitarristici e Animal Lover si porge sensuale e inquieta, l’irruenta Moving scioglie una ritmica battente nel romanticismo del refrain, l’elegia Breakdown sterza verso paesaggi sempre più cupi e la conclusiva The Next Life parte raccolta per chiudersi celestiale.

Dall'imperdibile live Love & Poison del 1993.

Nessuna enfasi né banalità, nel contenuto come nella copertina che riadatta un’eloquente fotografia del volume Stolen Glances: Lesbians Take Photographs di Tessa Boffin e Jean Fraser. Il 29 marzo 1993 Suede entra nella chart nazionale alla prima posizione: disco d’oro al secondo giorno, vanta le più alte vendite iniziali da Welcome to the Pleasuredome, soggiorna sei mesi nei Top 40 e vende benissimo anche all’estero. A fine annata, il trionfo è sigillato da un Mercury Prize signorilmente dato in beneficenza.

Anche in cima, però, la perfezione è quella dei cristalli pregiati. Basta poco per rovinarla.

«Non l'ho scelta per la sua ambiguità, ma solo perché era una foto bellissima» – ancora una volta Brett lancia il sasso e nasconde la mano.

Dogs

Nelle canzoni inserivo dei contorti riferimenti alla vita nelle periferie inglesi molto prima che saltasse fuori quell’orribile termine, britpop. (Brett Anderson)

Vinta la madrepatria, gli eroi tentano la conquista dell’America con un lungo tour estivo e qualcosa si spezza. Bernard si chiude nel mutismo e talvolta giunge al punto di farsi sostituire dal collega di quei Cranberries che fungono loro da spalla. La morte di suo padre aggrava la situazione e la tensione cresce, anche se non ve n’è traccia in Stay Together, singolo che a San Valentino 1994 regala le delicate ancelle The Living Dead e My Dark Star e una title track dalla melodia sontuosa e le strutture meno lineari. Non ha granché modo di gioirne neppure Brett, che ha problemi di droga e si barrica in una casa di Highgate a scrivere i testi del nuovo album. Nel frattempo Butler spinge per una più pronunciata sperimentazione e lo accusa di pochezza e manie divistiche.

Chiamarla scarto del debutto non le rende giustizia e, soprattutto, è completamente fuorviante.

C’eravamo tanto amati, certo che sì: puntualmente, un film già visto prevede individualità in rotta di collisione che lavorano separatamente, finché di ritorno dalla luna di miele al chitarrista viene impedito l’accesso allo studio. Dog Man Star sarà terminato in sua assenza e – a fronte della travagliata genesi e di una certa discontinuità – ha il merito di non saltare sul carrozzone della moda corrente in favore di un ricercato art rock.

Proseguendo nelle similitudini, è un Diamond Dogs che accentua i contorni decadenti e la grandeur di Strangeways, Here We Come, per quanto il cambiamento nella continuità non si avveri. Forti del terzo posto in classifica, i superstiti accolgono il diciassettenne Richard Oakes e con un clone meno dotato di Butler iniziano a perdere ispirazione. Possiamo capirli eccome: in scenari da ucronia, è come se Johnny Marr fosse uscito dal gruppo dopo un The Queen is Dead, insieme vertice ed esordio dei Mancuniani.

Nonostante tutto, il livello del secondo capitolo è ancora ben vicino a quello del precedente.

Al colpo da KO si risponde con una certa disinvoltura, ma desta perplessità l’ingresso a fine 1995 di Neil Codling a chitarra e tastiere, evidenza stridente che servano due strumentisti per sostituirne uno. Senza curarsi di ciò, Coming Up sparge nel vento le ultime energie e una ribalda, gradevole orecchiabilità che rafforza il successo planetario.

Mentre il decennio e la cool Britannia si avviano al tramonto, i Suede si separano da Buller ed è una pessima idea: Head Music resta a metà del guado fra indie didascalico e sperimentazione elettronica, laddove il costosissimo A New Morning rimpiazza Codling con Alex Lee sprofondando nella noia. Del pasticcio si rendono conto anche gli artefici, che nel 2003 salutano con una maratona dal vivo al London Astoria.

Dopo di che Brett si riappacifica con l’antico sodale formando i trascurabili Tears e perdendosi in scialbi lavori a suo nome. Gli anni passano e nel 2010 dal dipinto si riaffaccia un Dorian Gray con qualche ruga incamminato sul viale dell’autocelebrazione e del mestiere. Dalla rimpatriata si è saggiamente tenuto alla larga Butler, il quale – accanto a un’attività di session man e produttore che rispecchia il dichiarato idolo Marr – ha in curriculum faccende carine con McAlmont più qualche scartino solista e gli sperimentali Trans. Ovviamente nulla regge il confronto con una giovinezza tanto matura da scintillare in eterno.

«Because we’re young», cantavano all’apice della gloria. Loro malgrado, sono stati buoni profeti.

E allora… nostalgia, portaci via.

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