Nessuno era come loro. Lo si scrive spesso, ma in questo caso è vero. Le Slits erano riot grrls prima di chiunque e meglio di chiunque. Erano post-punk quando il punk era ancora vivo. Erano le prime ragazze a fare quel che volevano come volevano. Splendidamente atipiche per sempre.
Lo ammetto: all’inizio mi ha sfiorato l’idea di scrivere un articolo sulle Slits composto esclusivamente da testimonianze d’epoca. Una specie di giochino situazionista che, come un puzzle, provasse a esprimere l’ineffabile. Alla fine ha prevalso la professionalità e – pur con le mie limitatezze di maschio – ho raccontato per sommi capi storia, stile e un’importanza che travalica la popular music. Sì, perché una delle poche autentiche rivoluzioni del punk fu che finalmente le ragazze si presero la scena con le loro regole, con un’estetica che ne rispecchiava l’essenza multiforme, con canzoni che tuttora ti rivoltano come un calzino e ciò nonostante respirano insieme a te.
Canzoni umorali, bizzarre e imprendibili delle quali riconosci gli elementi ma non vedi suture, per la semplice ragione che non ne esistono, in uno stile unico che trattiene lo spirito del ‘77 nell’esatto momento in cui lo sorpassa a sinistra. Clash e Ruts spiegano infatti alla perfezione che, in mani maschili, un rock tagliente e stradaiolo mescolato alla battuta in levare suona altro. Non migliore né peggiore: diverso. Occorre farsene una meravigliosa ragione: l’altra metà del cielo percepisce e interpreta il mondo in modi che gli uomini possono al massimo intuire. È la metà che manca all’armonia e alla disarmonia del cosmo. La metà che a volte manca all’arte, però non in questo caso.
Le Slits (significa “fessure”: non aggiungo altro) si formano a Londra nel 1976 attorno a quattro personalità complementari. Ariane “Ari Up” Forster, cantante quattordicenne traboccante energia. Paloma “Palmolive” Romero, batterista tutta istinto e idee chiare. A chitarra e basso Viv Albertine e Tessa Pollitt, che svelte rimpiazzano le meteore Kate Korris e Suzy Gutsy.
Ognuna contribuisce all’alchimia da “collettivo” del gruppo e al surrealismo romanzesco che ammanta la vicenda, a cominciare da Ariane. Natali tedeschi, figlia di un cantante di successo e di Nora Maier, ereditiera amica di Jimi Hendrix che sposerà John Lydon e nella cui magione di Shepherd’s Bush in quei giorni bazzicano molte figure chiave del giro punk.
Non da meno Paloma, classe 1954 che non sopporta la dittatura franchista, abbandona la Spagna e si ritrova in una casa occupata al 101 di Walterton Road. Frequenta il leader dei pub rockers 101’ers, John Mellor, e quando monta la marea del Settantasette entrambi suggellano il nuovo inizio ribattezzandosi: John diventa Strummer e lei assume il soprannome affibbiatole da Paul Simonon. Per caso inizia a suonare la batteria, si innamora dello strumento ed entra nei Flowers of Romance, più un gruppo di persone che vivono il cambiamento in corso che una band, ma da qualche parte bisogna pur partire.
Nell’autunno del ’76 Paloma si imbatte in Ari, il tipo di casinista perfetta per cantare nelle Slits. Presto Suzy cede il basso a Teresa “Tessa” Pollitt, studentessa di anni diciassette proveniente dalle Castrators e le sciamannate debuttano dal vivo il marzo seguente spiazzando Buzzcocks, Subway Sect e Clash con un rituale di performance art.
Entusiasti, Strummer e Mick Jones consigliano di sostituire Kate con la ragazza del secondo, Viv Albertine. Sangue britannico, elvetico e corso, dopo la scuola d’arte anche lei è transitata nei Flowers of Romance e il tutor d’eccezione Keith Levene le ha impartito un minimo di tecnica. Ciò la rende una virtuosa rispetto alle compagne, tuttavia i limiti esecutivi, che saranno comunque superati, impediscono qualsiasi approccio reverenziale verso il passato garantendo un’assoluta originalità.
La reazione di stupore e shock del pubblico si deve soprattutto a questioni antropologiche. Delle Slits sgomenta l’energia selvaggia liberata dopo secoli di remissività e patriarcato, di conseguenza gli uomini si sentono messi in discussione, quando non a disagio. Per le ragazze, invece, quel gesto equivale a scoperchiare un vaso di Pandora pieno di possibilità, come accompagnare i Clash nel tour di White Riot mentre il DJ/regista Don Letts per un po’ funge da manager.
La faccia sgradevole della medaglia sta nella difficoltà a essere accettate. Talvolta la combriccola si vede negare l’accesso a hotel e luoghi pubblici e si giunge all’aggressione fisica contro donne che “non stanno al loro posto”. Anche la stampa è disorientata, incapace di cogliere l’umorismo delle Slits e la portata della loro innovazione. La dice insomma lunga che Keith Moon potesse farla franca con i suoi stravizi e la sola presenza delle fanciulle fosse davvero disturbante.
Attento, come d’abitudine, John Peel invece capisce eccome e a settembre convoca le Slits per una prima session. Impetuosi e spontanei, quattro brani mostrano un embrione autodidatta già lontano dai cliché, dove Ari gorgheggia come può solo chi, per nascita e vocazione, sistema Berlino ai Tropici intanto che i ritmi tambureggiano e le chitarre graffiano.
Gli angoli vanno progressivamente smussandosi e l’insoddisfatta Romero se ne va ed entra nelle Raincoats poco prima che si firmi con la Island. Malgrado la verde età, le Slits sono tutt’altro che delle sprovvedute e si sono negate al burattinaio Malcolm McLaren, scegliendo l’etichetta in virtù di un catalogo dove abbondano artisti eccentrici e nomi giamaicani. Vogliono arrivare al traguardo del primo album con i mezzi per realizzare l’idea meravigliosa che ronza loro in testa. Così sarà.
Il tempismo e la stupefacente maturazione sono i valori aggiunti di Cut, che dal 1979 vanta l’incredibile freschezza dei classici e l’anima stralunata di un “a sé”. Qualità cui si aggiunge la regia di Dennis Bovell, in aprile già alle prese con il parimenti epocale Y del Pop Group. Produttore esperto, per due mesi e mezzo impone una disciplina recepita con entusiasmo dal trio e da Peter Clarke, alias Budgie, batterista in tutti i sensi “straordinario” poi assoldato da Siouxsie. Ai suoi fantasiosi telai ritmici Bovell dona spazialità applicando echi e riverberi tipici del reggae, dopo di che arricchisce le trame minimali con dettagli preziosi (reticoli percussivi, tastiere al limite del subliminale, incastri e stratificazioni di voci). Ne deriva una solida base per l’unione tra il pulsare del basso, una chitarra che grattugia accordi oppure semina schegge melodiche e la Forster, che erige ponti fra Yoko Ono e Björk con un campionario di passionalità brada, vibrato in saliscendi, sussurri e strepiti.
La scaletta si apre con Instant Hit e So Tough, manifesti che della black restituiscono una concezione fuori dagli schemi, percorsa da allegra frenesia e gioia nevrotica. La tensione rallenta nella spettrale Spend, Spend, Spend incentrata sul consumismo compulsivo, mentre i novantasei secondi della schizzata Shoplifting raccontano un taccheggio con tanto di stentoreo «svignamocela!» ripetuto a guisa di ritornello. La modernissima Newtown intreccia percussioni, oggetti trovati e ugole levitanti. Ping Pong Affair si apre al post-funk. Love und Romance è non solo un’incalzante filastrocca, ma anche uno dei brani (relativamente) più immediati, insieme all’ibrido di folk ed R&B FM e all’irresistibile ska-wave Typical Girls, promossa da trilli di pianoforte a 45 giri trainante con sul retro una strepitosa cover mutant-reggae di I Heard It Through the Grapevine.
Per concludere, Adventures Close to Home saluta ipotizzando i Talking Heads di More Songs about Buildings and Food in gita ai Caraibi, tra intarsi elettroacustici e romanticismo amarognolo. Ammirato, riparti da capo e ogni volta ti sorprendono particolari e sfumature inedite.
E poi – anzi: prima – c’è quella copertina. Come spesso accade con i capolavori, nasce istintivamente: Pennie Smith fotografa le ragazze nel giardino dello studio di registrazione con indosso soltanto perizomi africani e fango. Nello scatto che celebra il primitivismo naturalista rispondendo all’artwork di Y non ci sono ammiccamenti. In loro vece, tre orgogliose guerriere di fine Novecento. E un roseto sullo sfondo.
Strada in discesa? Figurarsi.
L’anticipo contrattuale è dilapidato in una tournée con i Creation Rebel e Don Cherry (sua figlia Neneh, giovanissima, si aggrega temporaneamente alla banda) e l’etichetta molla una formazione che non sa come gestire. Evidenti affinità “tribali” cementano l’intesa con il Pop Group e nel 1980 le Slits prendono in prestito il batterista Bruce Smith in cambio dell’eccelsa rilettura wave-dub di Man Next Door (supervisionata da Adrian Sherwood, lascerà scintillanti tracce a Bristol) e del gioiello In the Beginning There Was Rhythm. Singoli che annunciano la svolta di Return of the Giant Slits, LP edito nell’81 dalla CBS.
Tuttora futuristico, il suo etno-free da bambole isteriche a spasso nella giungla parla un linguaggio sperimentale oltre il quale era impossibile spingersi. Prova ne sia che Ari e Viv partecipano al progetto New Age Steppers allestito da Sherwood e resta tempo giusto per il concerto d’addio. Compiuta la missione, a fine 1981 le ragazze si separano in amicizia.
Arianne estremizza l’indole anticonvenzionale, prende la famiglia e per qualche tempo vive con gli indigeni nella foresta del Belize. Approdata infine a Kingston, nel 2005 pubblica l’interessante Dread More Dan Dead e con la sola Tessa rimette in pista le Slits in una trascurabile reunion.
Se ne tiene a debita distanza Viv Albertine, che dopo aver studiato cinema e aver lavorato per la BBC e il British Film Institute, pubblica nel nuovo secolo due volumi di memorie e un disco solista e infine si ritira dalle scene dopo la dipartita della madre.
La morte coglie anche Ari nell’ottobre di dieci anni fa: testardamente, si era rifiutata di curare il cancro al seno e aveva calcato il palco fin quasi all’ultimo. La immaginiamo che, nonostante tutto, sorride ancora con la felicità ribalda che si ha soltanto a una certa età. La felicità di una ragazzina che con le sue compagne di (serissimi) giochi sta scrivendo la storia.