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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Good morning, Spiderland!

Gli Slint in un passaggio cruciale della vita e dell'evoluzione del rock.

Di cosa parliamo quando parliamo degli Slint? Della nascita del post-rock. Di un capolavoro a sé, che però fa scuola e modella il tempo vivendone al di fuori. Parliamo di un enigma irrisolvibile, di un contorto bandolo impossibile da sciogliere. Parliamo di Spiderland.

Alternativi all’alternative

Pochi album sono stati altrettanto influenti e ignorati alla pubblicazione come The Velvet Underground & Nico. Nella ristretta cerchia di Cassandre così fuori sincrono da risultare sempre all’avanguardia, Spiderland condivide con la mitica “Banana” lo status di capolavoro e la portata innovativa, l’ampiezza dell’influenza e una letteratura critica fiorita a posteriori. Su un fenomeno under underground come gli Slint si è scritto infatti parecchio soltanto dopo che il “post” è salito alla ribalta, e nonostante l’esiguità del materiale a disposizione. Poche succinte notizie e nessun aneddoto piccante hanno creato un alone di mistero che fa rima con “austero” e costituisce il manuale metodologico e comportamentale del dopo rock.

Per capirci, è quello maneggiato da chi bada al sodo – alla musica, cioè – e non si lancia in vacui proclami, non ha smanie da star e se ne frega della vita da maudit. Di chi, tutt’al più, concede un pizzico di ironia o di sarcasmo, perché è costantemente focalizzato sulla propria visione e intento a trasformare il cinismo in amore. Gruppi così cambiano il corso della storia e non invecchiano neppure con tutta l’acqua passata sotto ai ponti dal 1991, che già all’inizio sistema le linee guida del decennio. A scorrerla, una lista dei dischi usciti in quei dodici mesi incute rispetto e suscita un misto di ammirazione e nostalgia, ché non saremo più testimoni di vendemmiate simili.

Giusto una manciata buttata lì, ma se ravanate sotto non avete idea di cosa ci abbia riservato il '91.

Alla fine di marzo, il secondo LP degli Slint sistema una pietra miliare che nessuno nota e rientra nell’oscurità. La band si era appena separata per la fatica e puoi capirli eccome: oltre ai risvolti umani che spieghiamo più avanti, l’alterità di Spiderland era irripetibile e saggiamente non fu ripetuta. La sua bellezza sfuggente ed elusiva parla sottovoce, eppure squarcia l’anima e si è imposta con la pura forza dell’arte. Ciò ha permesso di essere indenne allo scorrere del tempo e di elargire brividi ogni volta che quell’arpeggio annuncia un attimo epocale, eternamente e maledettamente vivo.

Prove tecniche di separazione.

Introversione is the new loud

Di fatto, anche accorgendosi della sua esistenza, Spiderland era impossibile capirlo davvero. Con tutta la perspicacia possibile qualcuno ne ha colto l’originalità, ma nel 1991 era una cosa così spiazzante, fuori dalle mode e avanguardistica che abbiamo dovuto rincorrerlo e tanti hanno ancora il fiatone. Troppo diverso sotto ogni aspetto, non ultimo il porsi riluttante come un racconto di Raymond Carver, nel quale pare non accada nulla ma sotto la superficie ti assalgono cento sfumature. L’emozione ruvida di Nevermind aveva un prezzo che qualcuno, suo malgrado, ha pagato con la vita: qui, invece, abbiamo a che fare con risacche oscure, graffi avvolti in un guanto, liriche criptiche come sciarade. Più avanti l’avremmo battezzato anche slowcore, questo rifugio dove l’introspezione è precaria ma sincera, dove l’emotività viene tenuta a distanza per studiarla e magari capirla. Tra palpiti rallentati e rabbia meditata, Spiderland è la prima volta in cui le onde crescono e non si spezzano, dove il non detto è in primo piano.

Per questo si è preso anni per infiltrarsi nella cultura pop, da corrente carsica che riaffiora da una citazione di Gilmore Girls e un omaggio dei Black Country, New Road. Benché sia un patrimonio espressivo consolidato, è sempre genuinamente postmoderno per come supera la tradizione tenendone conto. Per come, dopo averla smantellata, assembla i frammenti della memoria in fogge inaudite disseminate di trabocchetti. Sono loro che impediscono qualsiasi catalogazione troppo stretta, sottolineando quanto gli Slint siano un “genere” al pari dei Velvet Underground. Allo stesso modo abbiamo perso il conto di chi ha preso ispirazione da chitarre che macinano spigoli ed esotismo come un’idea hardcore punk dei King Crimson, da una psichedelia più “mentale” che formale, ridotta ai minimi termini nella sua scoperta di nervi di blues e country oltremondani, dalla voce che borbotta lontana oppure ti investe urlando.

«Chi cazzo sono gli Slint?» riassume benissimo il tutto.

Il dibattito è aperto su cosa rimane di uno degli ultimi ribaltoni della musica popolare. In linea di massima, il post-rock oggi vive un meritato classicismo che, accanto a decine di emuli con poca sostanza e tanta maniera, sfocia nel clamore riscosso dai Mogwai – fan dichiarati della band di Louisville – e nell’inestinguibile fiamma dei Godspeed You! Black Emperor. Ma se chiedete a chi lo pratica sin dalla nascita, vi risponderà che è un’invenzione dei giornalisti e non significa nulla. Esatto, come il post-punk. Anche qui il prefisso spiega l’attitudine dietro tanti stili differenti: “dopo” significa “oltre”. Significa superare gli stereotipi con coraggio, lasciando trapelare un’ipotesi di umanità da contrapporre al nuovo Medioevo. Di tutto ciò e molto altro Spiderland pone fondamenta solide, alla faccia delle cinquemila copie vendute all’epoca.

Dark moon of Kentucky

Guai a disprezzare la provincia. Scavando sotto la coltre di monotonia e arretratezza, l’orgoglio e il distacco possono garantire originalità. Basta guardare le scene sbocciate in America dagli Eighties in poi, dove il decentramento si fonde con il genio e l’attitudine in una sorta di gusto tipico locale. In mezzo ai poli New York e Los Angeles spiccano la bohème sudista Athens, le storture elaborate a Chapel Hill, l’hardcore evoluto di Washington, i policromi sviluppi offerti da Portland e Olympia. E Louisville, “biggest city in Kentucky” fondata in onore di Luigi XVI di Francia che riposa pigra accanto alle cascate del fiume Ohio. Fino alla metà degli anni Novanta la si menzionava per Muhammad Ali e il Derby, il pollo fritto e le mazze da baseball. E poi…

Sai chi ti saluta dal Kentucky?

Poi Rodan e Will Oldham hanno donato nuova linfa alle chitarre e al cantautorato roots, ricordando che la scintilla iniziale va cercata negli Slint. Prima dei quali ci sono gli Squirrel Bait, combriccola di sbarbatelli che traffica con un hardcore trasversale e innovativo: vi militano il chitarrista/cantante Brian McMahan e il batterista Britt Walford, amici sin da che – undicenni! – suonavano punk nei Languid and Flaccid.

Walford presto se ne va con David Pajo (anch’egli chitarrista) a fondare i Maurice, progetto di breve durata ispirato dai Minutemen che si sovrappone alla fine degli Squirrel Bait. Nell’estate 1986 Walford e Pajo sono raggiunti dal bassista Ethan Buckler e cambiano nome poco prima che li raggiunga McMahan, entusiasmato da un caotico concerto in cui il gruppo ha svuotato la sala.

Se volete farvi un'idea più approfondita del tutto ecco qua – dura giusto il primo tempo di una partita di calcio.

Nella cantina di casa Walford smorzano il volume e temprano la furia in un’obliqua frenesia. Arrivato l’autunno ’87, gli Slint sono pronti per incidere un album e convocano Steve Albini, che li mette sotto torchio tra testi improvvisati al microfono e scherzi da nerd. Insoddisfatto del risultato, Buckler sbatte la porta. Lo sostituisce Todd Brashear e, considerato che Corey Rusk della Touch & Go di Chicago non si è più fatto sentire, manca un’etichetta che pubblichi il 33 giri. Soccorre il quartetto l’amica Jennifer Hartman, che nel 1989 finanzia un’esigua tiratura. Nel frattempo, Corey ha ascoltato Tweez, è rimasto di stucco e ha subito composto sul telefono il prefisso di Louisville.

Aracnofilia

Un po’ sorridi nel leggere che i ragazzi avessero come obiettivo la forza espressiva di High Voltage e On the Beach. Effettivamente, in Spiderland senti sia AC/DC che Neil Young. Come per ogni altra suggestione, però, sono lampi fulminei dentro un rompicapo che scaturisce dal fondersi tra maturazione artistica ed esistenziale. Superato lo scoglio dell’LP, i Nostri – dei veterani, a dispetto dell’età – hanno terminato il college. Stanno via da casa per mesi, appena tornano ci danno sotto con le prove e intanto diventano grandi. Il delicato momento di passaggio da una fase all’altra della vita è tra gli aspetti meno indagati della genesi di Spiderland, eppure riveste un ruolo fondamentale quanto la spinta a non cristallizzarsi dal punto di vista creativo.

Cercando un’evoluzione che tenga conto del vissuto, gli Slint evitano che la tecnica prevalga sui contenuti. Senza perdere di vista i valori estetici ed etici dell’hardcore sul quale si sono formati, crescono evitando barocchismi e orpelli e perciò la loro musica vanta un’anima e una naturalezza di sviluppo sconosciute agli epigoni. Pajo si impone di suonare più grezzo, Brian procede nell’altro senso e quando si incontrano nasce un’interazione chitarristica che smantella definitivamente i consueti ruoli di ritmica e solista. Come le tessiture e l’austera complessità, sono il lessico di chi ha speso ore ad adattarsi reciprocamente, a smussare gli estremi e incastrarli alla perfezione. Siccome il nuovo stile esige un differente approccio produttivo, al mixer siede Brian Paulson, produttore dei Bastro responsabile dell’atmosfera “dal vivo in studio”.

La famosissima foto di copertina, ormai sfondo di innumerevoli meme, originariamente scattata – si narra proprio da Will Oldham – mentre i ragazzi fanno un bagno in uno sperduto lago di Utica, Indiana.

Dopo di che il destino ci mette del suo. McMahan scampa per miracolo a un incidente d’auto e l’esperienza gli si conficca nel profondo, l’evidenza della fragilità si trasforma in fatalismo e infine cede alla depressione. Di conseguenza, un’altra interessante chiave interpretativa del disco sta nel vulnerabile vigore del cantato, che alterna un sommesso spoken ad aspre e roche sfuriate.

Chi afferma che il post-rock è freddo e distaccato, non ha “sentito” Spiderland: lo ha ascoltato, però gli è sfuggito lo spessore di sentimenti che si liberano in maniera inaudita, rispecchiando il gioco di tensione e rilascio di canzoni colte in diretta per conservare energia e intensità. A completare il quadro, l’ansia da prestazione causata dal contratto con la prestigiosa Touch & Go, McMahan che vomita dopo ogni take vocale per lo stress e il dramma di lasciarsi alle spalle la giovinezza.

Adult angst

Messo tutto nero su nero del vinile fino a essere palpabile, quanto sopra rende Spiderland qualcosa d’altro. Lo consegna a una trascendenza che svela subito la novità in Breadcrumb Trail, carro armato dai cingoli di velluto che procede tra grovigli di corde, armonici aguzzi, una dinamica di pieni e vuoti che affronta l’angoscia con il contegno degli adulti. Un ipnotico, dissonante riff a volteggiare sopra rullante e tamburi, il moderno acid-hard Nosferatu Man si snoda tortuoso per morire nel feedback. Don, Aman è un involucro d’aria tesa, una stasi solo apparente attraversata da chitarre che paiono scariche elettrostatiche.

Giri il disco e i quasi nove minuti della dolente magnificenza di Washer saldano il conto con la neopsichedelia e le ballate alla Neil Young nel mentre codificano lo slowcore. Lo strumentale For Dinner… profuma della quiete che prelude alla tempesta, cielo scuro e denso che minaccia e infine rimanda la bufera a Good Morning, Captain. Accordi secchi, batteria che incalza stranita, impennate travolgenti e un crescendo a squarciagola culminano in uno straziato «mi manchi!» riferito al fratello di Brian che assume peso universale.

Si chiude così: sulla collera indifesa che sale dentro l’anima quando devi rinunciare a qualcuno, non importa se per poco o per sempre. Su una rabbia che esplode, attutita dalla ferita che brucia e dall’evidenza di non poter fare nulla, tranne urlare fino a perdere la voce o il senno.

Il demo, già prometteva quello che poi manterrà.

Non a caso, il giorno seguente la fine delle registrazioni McMahan entra di sua spontanea volontà in un ospedale psichiatrico. Si riprenderà, ma prima che il disco veda la luce tutti prendono vie diverse. Ci saranno un paio di tentativi di rientrare in pista nel biennio ’92-’94, dopo di che prevale un silenzio lungo e assordante. Il culto cresce assieme ai volti della copertina, malinconici venti-e-qualcosa fotografati dall’amico Oldham presso un lago dell’Indiana. Viene in mente uno scatto simile che ritrae i Beatles in piscina, moderni Cesari all’apice della gloria però in fondo dei ragazzi pure loro. Una di fianco all’altra, le immagini spiegano che diventare uomini significa dire addio all’innocenza, guardarla svanire all’orizzonte di una terra di nessuno che attraverserai con i tuoi mezzi. Spesso in quel luogo nascono capolavori, e così è stato per gli Slint.

Eccolo.

Avanza ancora un po’ di spazio per accennare alle successive imprese, dagli apprezzabili For Carnation di McMahan a un Britt Walford in incognito con le Breeders, passando per David Pajo, attivo principalmente con Will Oldham, Tortoise, Zwan e in solitaria.

Trascurabili le estemporanee reunion senza Brashear tra 2005 e 2014, anno in cui l’investitura di Spiderland culmina in una deluxe edition con estratti live, demo e il documentario Breadcrumb Trail. Dopo le celebrazioni, nessun diluvio. Basta e avanza l’enigma che perdura anche se ci illudiamo di saperne di più. Il suo fascino è racchiuso in sei canzoni immense che brillano di una rigorosa, eccitante ipotesi di futuro cui attaccarsi in tempi incerti. Materia preziosa, oggi più che mai.

Ricordiamoli così, un attimo prima di togliersi i pantaloni per buttarsi in acqua.

Slint Steve Albini Mogwai Godspeed You! Black Emperor 

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