Un modo indimenticabile di andare in frantumi.
In seguito all’uscita nelle sale cinematografiche di “Arancia Meccanica” nel 1973, furono segnalati numerosi episodi di violenza, probabilmente a causa di alcuni gesti di emulazione legati al film. Nonostante difendesse la libertà di espressione artistica, Kubrick restò particolarmente scosso dalla cosa, arrivando a decidere di vietarne la proiezione nel Regno Unito.
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Il successo di The Scream galvanizza la band, che comincia però a mostrare i primi segni di rottura al suo interno. Il nucleo formato dalla coppia (all’epoca anche di fatto) tra Siouxsie e Severin tende a tagliare fuori gli altri due, in un crescendo di situazioni al limite del mobbing.
È in questa atmosfera tesa e caotica (a partire dalla copertina raffazzonata all’ultimo momento, ricavandola da una session fotografica presso il Guards Division War Memorial, dato che l’originale concepita da John Maybury fu scartata per problemi di copyright e resuscitata solo 36 anni dopo per una ristampa con un inedito – la visionaria Infantry) che Join Hands viene concepito e registrato, consegnando alla storia uno degli album più neri mai ascoltati sino a quel momento.
Con dietro al mixer Nils Stevenson e Mike Stavrou, la spirale horrorifica dei nostri raggiunge qui il suo punto di non ritorno: il terrore è nel quotidiano, tra malattie, morti, guerre passate e presenti, litri di dolore e ansie versati sull’individuo per mano di famiglia, religione e società. Non c’è un singolo raggio di sole in questo platter, dove l’unico momento di respiro è la seconda sezione di Icon, brano che deve aver colpito non poco gli allora imberbi Bono e The Edge, tanto hanno fatto loro quel tipo di progressione epica sviluppata in ampiezza.
Il carillon di Mother/Oh Mein Papa (che risuona il motivo Oh Mein Papa scritto da Paul Burkhard su cui Siouxsie recita due testi in contemporanea: uno pregno di amore e uno di odio nei confronti della stessa madre) è il preludio alla rilettura in studio di The Lord’s Prayer, registrata in presa diretta ed efficace tanto quanto le versioni live. I due minuti di silenzio simbolici dell’incipit Poppy Day, marcia funebre sulla prima guerra mondiale, aprono la strada a Regal Zone incentrata sulla guerra in Iran. Tutto è perfetto: dal grido lancinante di Siouxsie al basso costantemente suonato in upstroke da Severin (retaggio da autodidatta che fa impallidire i puristi ma che gli ha regalato uno stile unico e riconoscibile tra migliaia), dal drumming minimale e tribale di Morris fino alla chitarra anaffettiva di McKay, vera antitesi del guitar hero che porterà l’uso della sei corde a un altro livello influenzando schiere di chitarristi noise e meno canonici negli anni a venire, con dissonanze, effetti sovraccaricati e rumori che diventano parte integrante dei brani rendendoli unici e vivi.
Il singolo scelto fu quello spettacolo alienante e alienato di Playground Twist, nenia paranoide puntellata dal sax acido di McKay, che trattava in maniera cruda e spietata il tema delle sofferenze legate all’infanzia. Sul lato B un altro capolavoro: Pulled to Bits descriveva i fatti di cronaca nera accaduti in seguito all’uscita nelle sale di Arancia Meccanica, e lo faceva in maniera dolorosamente vivida. Solo basso e voce senza un filo di riverbero per descrivere l’epilogo emotivo di uno dei concetti più concretamente dolorosi mai affrontati dai Banshees. Sullo sfondo, qualche accordo di chitarra acustica e voci filtrate di bimbi al parco giochi (un richiamo al lato A), quasi a sottolineare il parallelismo tra la violenza infantile e quella adulta. Le versioni live degli anni seguenti guadagneranno in musicalità e spessore, ma la crudezza dolorosa qui esposta non sarà mai più replicata.
Il giro di concerti e partecipazioni televisive del 1979 subirà un brusco stop. Le date inglesi con i Cure come supporto saranno interrotte dopo un paio di serate in seguito alla fuga (in senso letterale) di McKay e Morris, ormai saturi delle tensioni continue in seno alla band. Saranno rimpiazzati in pochi giorni da Budgie (ex Big in Japan e Slits, su raccomandazione di Paul Cook dei Pistols) e Robert Smith, che pur di concludere il suo primo tour vero e proprio si offrì di suonare due set a serata (Siouxsie ricambierà il favore cantando sulla B-side del singolo Jumping Someone Else’s Train / I’m Cold).
The show must go on, ma la MARK1 dei Banshees muore qui e con lei un certo tipo di estetica, di immagine artistica e di ricerca sonora che aveva contraddistinto i primi anni della band.