“Mal di mare” Steve. Un bestione barbuto con una supposta (e in qualche modo coerente) vita da barbone e vagabondo del blues alle spalle, che ha raggiunto il successo solo una volta superati abbondantemente i cinquant’anni. Forse però c’è poco di vero a supporto della leggenda – tanto duro e sporco lavoro, molto meno romanticismo eroico. Ma in ogni caso, quando la musica è buona, ci sono forme di inganno più che lecite.
Il modo migliore per descrivere le sembianze fisiche di Seasick Steve a un alieno sarebbe fargli leggere un numero di Dylan Dog, e più precisamente il 196, Chi ha ucciso Babbo Natale?, in cui un gigantesco norvegese affetto da una rara sindrome riconducibile – nella mitologia razional-soprannaturale, fatta di connessioni improbabili, che è propria del fumetto ideato da Tiziano Sclavi – al fenomeno dei Vichinghi berserker, oltre che perseguitato da demoni risalenti all’infanzia, durante una crisi scappa da un istituto specializzato massacrando i suoi infermieri, uccide un giocattolaio vestito da Santa Claus, ne indossa gli abiti e inizia a far fuori gente di qua e di là perseguendo un disegno apparentemente oscuro.
Seasick Steve – all’anagrafe Steven Gene Wold, ma forse no, come vedremo – gli assomiglia veramente molto (simboli mistici sulla faccia che appaiono e scompaiono e raptus omicidi a parte, per quanto ne sappiamo). Un cristone dalle spalle larghe, barbuto e canuto, grezzo, alcolizzato e dalla voce sporca, che si presenta sul palco con una serie di chitarre una più bizzarra dell’altra, e con una storia irreale per quanto è perfettamente coerente col personaggio.
Tra le prime informazioni reperibili su Seasick Steve c’è la descrizione della sua strumentazione. Ladies and gentlemen, la Three-String Trance Wonder, una chitarra simile a una Fender Coronado, ma con sole tre corde. Oppure la One-Stringed Diddley Bow, che di corde ne ha una, di solito atta allo strusciamento di un bottleneck (che – e ti pareva – non poteva che essere sostituito da un cacciavite arrugginito). E che dire della MDM (Mississippi Drum Machine), una pittoresca stomp-box decorata dalla targa di una moto? E via così.
Ecco, cosa c’è di più blues di una slide guitar con una corda sola, o del suonare una cosa fatta con i coprimozzi di una macchina – una delle oltre cento che il Nostro dice di aver guidato – come la Morris Minor Guitar? Che c’è di più eroico e romantico di un chitarrista con due dita in meno o di un afroamericano che suona con una cigar box guitar? Che c’è di più accattivante di questi aneddoti che puoi raccontare ai tuoi amici a loro volta muniti di barbe esuberanti agli aperitivi, aspettando che i fratelli Coen ci facciano un film che sicuramente presto o tardi entrerà nel catalogo di Netflix – film nel quale peraltro non si farebbe un soldo di danno mettendoci Steve a recitare nel ruolo di sé stesso, o se proprio si trova il telefono occupato, chiamando Jeff Bridges per ovviare alla bisogna e truccandolo come nel remix de Il Grinta? Sempre posto che Steve ce l’abbia, il telefono, e che non sia un modello del 1934.
Comunque sia, arriviamo al vero e unico dato di fatto sulla questione: il vegliardo è riuscito a infiltrarsi tra le generazioni di ragazzetti con il gusto del vintage rimanendo autenticamente vecchio come sembra, nel chilometraggio effettivo e nell’apparenza.
È un grande onore avere gente giovane che pensa che tu non sia noioso, quando sei vecchio. Molti giovani pensano che i vecchi siano noiosi – e lo sono! Ma noi andiamo a suonare, e con loro la questione è semplicemente: sei fico, o no? Amo quando impazziscono, vuol dire che ce l'abbiamo fatta. (Seasick Steve)
Ma forse, il discorso da fare è se Seasick Steve sia chi dice e mostra di essere, perché la cosa riserva qualche sorpresa.
Nelle note biografiche dedicate a Seasick Steve in giro per il web, in genere la narrazione è quasi tutta al presente. Sembrerebbe che quest’omone tatuato e alcolizzato – nonostante la sua presenza intuitivamente poco occultabile – sia apparso dal nulla con alcuni video alla fine del 2006, che gli hanno fatto fare il botto – dapprima nel Regno Unito e dopo poco tempo ovunque, passando per il Sud degli Stati Uniti a cui così ovviamente appartiene, per nascita, stile e storia. Sì, ma quale storia?
Nell’immaginario americano c’è una distinzione di cui dovremmo tenere conto, che differenzia nettamente il vagabond propriamente detto (che non ha lavoro e non lo cerca) e il beggar (che vive di elemosina) dallo hobo. Quest’ultimo è una figura archetipica legata a doppio filo con il blues e con la roots music, che si sposta(va) a ufo sui treni merci, di città in città, facendo lavori temporanei e stagionali, umili e spesso faticosi (Steve dice di aver fatto il bracciante agricolo, il vaccaro e addirittura il circense), e sempre con la chitarra in spalla e un bel carico di esperienze di vita accumulate lungo la strada.
Seasick Steve si presenta da subito in questi esatti termini, senza equivoci possibili, e questa è la storia che racconta nella maggior parte delle sue canzoni. Intorno agli anni ‘60, ha vagato tra il Mississippi e il Tennessee, facendo esattamente quelle cose che ci si aspetterebbe da uno hobo con tutti i crismi. È stato uno spiantato che viveva alla giornata fino alla fama improvvisa, raggiunta intorno ai 65 anni – perché è nato nel 1941, condividendo così virtualmente la culla con Bob Dylan, Joan Baez e Paul Simon. Stevie sings the blues, insomma, a partire dal nome – dopotutto si sa: il diavolo è nei dettagli.
Perché è proprio vero. Ho sempre mal di mare. (Seasick Steve, rispondendo a una domanda sul perché del suo nome d'arte)
Poniamo che non l’abbiate mai sentito e siate capitati su questa pagina per puro e vibrante caso. E che non abbiate proprio idea, né vi siate in alcun modo posti il problema di che immaginario possa creare questo energumeno, a chi possa ispirarsi, che discorso voglia portare avanti. Dovete figurarvi che una guida turistica guercia – con un dente d’oro e un cappello di paglia, che puzza di alligatore e uovo marcio – vi porti il menu Seasick, in offerta speciale fino alle 18 per via del coprifuoco (anzi, fino alle 19, perché se non si è almeno un pizzico al di sopra della legge dove sta la coerenza con quanto detto finora?).
La proposta musicale alla carta del nostro berserker hobo gira intorno al blues più grezzo, che spesso diventa parecchio groovy, al country malmostoso da boscaioli con più whisky che sangue nelle vene, che qualche volta si fa addirittura melodico e (molto relativamente) morbido, alle ballate che quasi ce lo consegnano redneck, con tanto di occasionali ricami di violino che fanno un bel contrasto cromatico con la voce bassa e fumosa, al rock-blues con massicce sfuriate di slide. Tutto distribuito lungo una decina di dischi e una quindicina d’anni.
I riferimenti sono antichi, anzi, si potrebbe dire che più lo sono e meglio è. E siccome cantare «I talk that talk, I walk that walk» con una produzione e una cura del suono post-2000 faceva ancora troppo poser, allora perché non rilasciare un disco registrato con un microfono degli anni ‘40? Maldimare Steve l’ha fatto proprio nel 2020, a sorpresa, per i suoi fan. Blues in Mono è la risposta definitiva alla domanda che lui stesso si è posto, alla sua esigenza di diventare quello che è nel modo più credibile e assoluto.
Tutto bello. O no? Perché poi non è che le cose stiano proprio così. Tanto per cominciare, Steven Gene Wold, alla nascita, si chiamava Steven Gene Leach. Che però forse non suonava abbastanza blues, grezzo e boscaiolo, motivo per cui si è preso il cognome della seconda moglie. E si è addirittura dato da solo dieci anni in più, che non ha difficoltà a dimostrare con quel barbone grigio. Ma in realtà è nato nel 1951, non nel ‘41.
E se vogliamo proprio dirla tutta, quel tizio che viveva sui treni merci probabilmente non navigava in così cattive acque, né era proprio di primo pelo nell’industria musicale, anche se ci era entrato un po’ dal lato. In effetti, sotto il nome di Steve Leach si ritrovava un bel curriculum come session man e ingegnere del suono, aveva fra le tante cose suonato con Lightnin’ Hopkins, prodotto l’esordio dei Modest Mouse e fatto parte di un curioso gruppo sperimentale chiamato Shanti, dedito alla meditazione trascendentale e totalmente diverso rispetto all’immagine del rozzo uomo di blues che si è costruito in seguito.
E allora, perché rinnegare (tante) esperienze professionali e aggiungersi qualche chilo di vecchiaia sul groppone? Perché fabbricarsi questa maschera da girovago? Perché tutti questi trucchi? C’è da fidarsi di Seasick Steve?
Di sicuro qualcuno si sarà incazzato – il fan integralista in senso proprio, che vorrebbe tutti i suoi idoli puri e monodimensionali come se li immagina, non manca mai.
Ma forse la domanda va capovolta, e la questione presa molto più alla larga. Di cosa parliamo quando parliamo di musica? Cioè, magari – di sicuro, anzi – c’è pure gente che si diverte genuinamente a parlare per intere serate di progressioni di accordi, scale, proporzioni delle casse armoniche degli strumenti e roba del genere, ma probabilmente non è del tutto sano nemmeno per un musicista professionista.
Perché va bene discutere dei colori di una tavolozza quando li si deve scegliere e usare, ma non un secondo di più: poi conta il quadro, la big picture, la visione d’insieme – il succo, il messaggio insomma. E il folk (e il blues, che in fondo ne fa parte) ce lo spiega da sempre, specie da quando genti diversissime si sono mescolate negli USA, portando un bagaglio di racconti di vita messi in musica – immaginari o reali, conta fino a un certo punto – buoni se non altro per contaminarsi a vicenda. Detta in breve, è la storia la parte importante. In ambito social abbiamo preso a chiamare storytelling quello che spesso è soltanto lo sfoggio di mitomania di personaggi senza talenti particolari, ma allora – e se vogliamo da Omero in giù – era proprio questo lo scopo: raccontarsi, come facevano le tribù di nativi americani intorno al falò, in occasioni specifiche e ritualizzate. Perché la vita di un musicista folk – o blues – è un dono, coloratissimo, vivo e autentico anche quando a ben vedere non lo è.
La creazione di mitologie personali è qualcosa che l’uomo ha sempre fatto. Siamo sicuri che ci saremmo ricordati così di Django Reinhardt se non avesse perso due dita in un incendio, rovinandosi la carriera di banjoista ma inventandosi un modo tutto nuovo di suonare la chitarra che avrebbe formato generazioni e generazioni di eroi, o se non avesse detto una volta al suo violinista Stéphane Grappelli, candidamente:
Scale? Che cos'è una scala?
Siamo sicuri che Robert Johnson sarebbe stato ugualmente Robert Johnson senza tutta la leggenda del patto col diavolo stretto a quel famoso crocicchio, se quest’ombra non l’avesse perseguitato lungo quelle 29 canzoni, registrate tutte insieme con la faccia contro il muro, se non fosse morto misteriosamente – fondando pure involontariamente il Club 27 – tra dicerie soprannaturali, avvelenamenti di barman gelosi e cani neri che si portano via l’anima?
Quanto hanno inciso le vite dei bluesmen, tra risse, pistole, donne e whisky, sul loro successo? E, per dirne una, Howlin’ Wolf, con la sua voce da demonio rognoso, ci sarebbe piaciuto se avesse ammesso che in fondo faceva una vita abbastanza normale come agricoltore, e non si è mai lasciato andare agli eccessi che vantavano gli altri? Eppure lo sentiamo devastante e vero quando ci dice, senza peli sulla lingua, cos’è veramente il blues:
Quando non hai un centesimo, non puoi pagarti l'affitto né da mangiare, quello è il blues. Perché è allora che ti vengono i pensieri cattivi. Ogni volta che hai pensieri cattivi, stai vivendo il blues. (Howlin' Wolf)
E Hendrix, con i suoi riti selvaggi, le Fender suonate da mancino, con i denti, dietro la schiena, fatte esplodere come bombe durante l’inno americano e poi bruciate, “stuprate, sodomizzate”? Jim Morrison, poeta oscuro figlio di Blake, che forse è ancora vivo, si chiama Barry Manilow e osserva con scherno i ragazzini che lo citano malamente sui social?
E ancora i Led Zeppelin che hanno rubato Stairway to Heaven direttamente a Satana, Mick Jagger, le sue schiere di donne e la sua compassione per il diavolo, Paul McCartney morto di nascosto, Ozzy Osbourne e il suo pipistrello, Bowie venuto dallo spazio profondo.
Il rock vive anche e soprattutto di storie, gran parte delle quali false, e Seasick Steve si è limitato ad aggiungere un tassello di vita vissuta o forse no, un altro buon racconto intorno al fuoco invece che i fatti puri e duri – e diciamocelo, ha ottenuto brillantemente la nostra attenzione, e se la tiene tuttora, ghignandosela e godendosela dall’alto del suo successo.
Il momento migliore della mia vita è quello che sto vivendo proprio ora – e dire che era una cazzo di avventura anche prima! (Seasick Steve)
E c’è la sua musica: le sue storie, la sua presenza, le sue strane chitarre grattate e accarezzate, le strade che racconta, i trucchi che ha imparato. Perché sì, qualche nuovo stratagemma, a questo vecchio cagnaccio, glielo puoi insegnare. In caso contrario, se proprio vuole, in barba a tutti, lo imparerà da solo.
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