Cattivi ma cool, Neil Hagerty e Jennifer Herrema sono trasformisti nati: assassini, creatori, intellettuali randagi, pazzi miracolati. Grazie a loro, quel che resta del rock è morto e risorto per l’ultima volta. E così sia.
Alla fine degli anni Ottanta, nel libro Music for Pleasure il sociologo e critico inglese Simon Frith dichiara il decesso del rock. Non si riferisce a un suono che fin dalle origini si comporta come un’araba fenice, ma all’idea che esso sia il perno della popular music e non uno fra tanti possibili linguaggi. Frith ha visto giusto, perché “crossover” e “post” stanno per diventare le parole chiave del decennio successivo, nel quale il processo iniziato da Sandinista! e Remain in Light decolla in via definitiva.
Insieme all’idea di centralità assoluta, svanisce anche il senso di innocenza legato a una cultura e un immaginario storicizzati. Soprattutto, la convinzione che il rock sia un elemento di rottura incuneato nella società: in realtà, come ogni forma d’arte moderna vive anch’esso sul crinale tra disubbidienza e mercato. Se una volta scardinava tabù, espandeva coscienze e metteva in discussione dogmi, per forza di cose oggi si trova spesso alle prese con il riciclo, le messinscene e la necrofilia. Di nuovo, come qualsiasi altro (sotto)genere. Ma se il cerchio si è chiuso, ciò non significa che le potenzialità espressive siano esaurite. Tutt’altro.
Lo smantellamento dell’innocenza inizia poco prima che Frith pubblichi la sua teoria. Nei medi Eighties, da efferatezze in bassissima fedeltà i Pussy Galore intraprendono una graduale presa di consapevolezza del passato e una rifondazione del rock più selvaggio: incompromissori e ruvidi, smontano gli elementi per ricavare altro. Qui sta l’importanza del gruppo in cui hanno militato Jon Spencer, Julia Cafritz, Cristina Martinez, Bob Bert e Neil Hagerty. E dubito dopo, nell’aver tracciato in largo anticipo le linee guida del ritorno a certe sonorità. Se vi pare poco…
Dopo i primi grezzi singoli e il curioso rifacimento su cassetta di Exile on Main St., ad accende sul serio la fiamma è il terzetto di album inaugurato nel 1987. L’esordio Right Now! accoltella un revival del garage in fase calante strapazzando i Rolling Stones e Captain Beefheart in fulminei, rumorosi e sarcastici assalti. Un biglietto da visita notevole, laddove il rito di passaggio è la cover di Yü Gung degli Einstürzende Neubauten contenuta nel mini Sugarshit Sharp. La copertina sovrappone il logo dei berlinesi alla celeberrima “boccaccia” restituendo il metodo che cancella i residui di purezza tra cadenze industriali e campionamenti dei Public Enemy.
Il gesto spiega che sul passato si può distruggere per costruire con un approccio dichiaratamente ammesso nelle interviste e approfondito dai lavori successivi: con un po’ di aiuto da parte di Steve Albini, la sperimentazione neoprimitivista di Dial ‘M’ for Motherfucker sradica il suono dai modelli di riferimento e prepara il terreno a Historia de la musica rock. Senza più le ragazze, il power-trio superstite perfeziona la dinamica tra attualità e retrospettiva nella grafica che richiama le enciclopedie vendute in edicola e in un elenco di falsi ma plausibili titoli della “collana” che chiarisce l’educazione sentimentale del gruppo.
Il senso ultimo della band è affidato a un blues metallurgico, sbiancato e ridotto ai minimi termini e a versioni iconoclaste di Little Red Rooster e Crawfish in cui la carica eversiva risucchia dalla tomba ciò che resta del classicismo. Stanchi e pieni di additivi chimici, i Pussy Galore si disgregano in una serie di ramificazioni che allo zombie chiamato rock daranno nuovi significati. I più profondi ed enigmatici saranno escogitati dai Royal Trux.
Per uno scherzo del destino, i Royal Trux nascono in parallelo alla maturità dei Pussy Galore dall’amore tra Neil Hagerty e Jennifer Herrema, che con un’invidiabile chimica creativa modificano geneticamente la coppia rock per antonomasia. Truccando le carte, Mick Jagger è un’emancipata bambola dall’ugola raucamente sexy e il “post” Keith Richards traffica con psicosi, riff obliqui e gorghi contorti. In entrambe i casi non è solo rock’n’roll, ma decostruzionismo da tossici che ti catturano nella loro visione delle cose fino a convincerti che sia l’unica possibile.
Spesso e volentieri hanno ragione, perché la risposta da bassifondi agli ex compagni di merende Boss Hog non conosce mezze misure o buone maniere ma vede oltre la musica. Anche se, a dire il vero, i primi passi sono piuttosto traballanti e Royal Trux racconta una materia più fuori asse che di testa. Sotto cieli grigi, la confusione va maneggiata con cura, pazienza e concentrazione. Doti necessarie per affrontare Twin Infinitives, ostico monolito che affastella avanzi di Can, Faust e Pere Ubu, sfregi atonali e allucinazioni selvatiche. Ispirato all’elettronica colta e concepito durante un soggiorno a San Francisco, è un test di Rorschach disegnato da Jackson Pollock.
Da un magma estremo oltre il quale non ci si può spingere si esce aggrappandosi alle radici e trasfigurandole. L’ossatura del nuovo stile è un’inebriante mistura di Velvet Underground, Stones, Stooges, spazzatura culturale e lampi psico-delici compressi in canzoni concepite come cartoline da un mondo torbido. Nel terzo LP – ancora omonimo, per sottolineare un’altra vita artistica – spiccano la Junkie Nurse dove Bob Dylan è davvero «like a Rolling Stone», l’incontro tra Syd Barrett e Neil Young di Air, la scomposta Move e una Sometimes che avvolge Raw Power in nebbie allucinogene.
Ancora meglio Cats and Dogs, fantasia su Lou Reed e John Cale che si incontrano con un lustro di ritardo per concedersi acid-hard di tetra sensualità (Teeth, Let’s Get Lost), ballate metropolitane malaticce (Turn of the Century, Up the Sleeve, Driving in That Car) e rock aromatizzati alla codeina (The Spectre). Se Skywood Greenback Mantra e Hot and Cold Skulls sono i Led Zeppelin che abbracciano la funkadelia, la raffinatezza stranita di Tight Pants saluta la scuderia Drag City. Alla Virgin stanno sventolando un assegno che supera il milione di dollari e solo dei pazzi direbbero «no, grazie».
I Royal Trux approfittano del boom alternativo per attuare un piano preciso: incassare l’anticipo, costruire una casa/studio nei boschi della Virginia e allestire una trilogia che rivisiti i decenni precedenti. Thank You comincia sbatacchiando i Sixties con la produzione per la prima volta affidata a un esterno. Sotto lo sguardo vigile di David Briggs, già al mixer per After the Gold Rush e Tonight’s the Night, il duo si libera della scimmia, impara i trucchi del mestiere e lima il suono.
Il gioco resta comunque dentro i confini di un labirinto spiazzante e anticonvenzionale, così che dei favolosi Sessanta è fotografato il tramonto e si aggiornano le inquietudini. Emergono da lì i Rolling Stones girati hard-rock di The Sewers of Mars e quelli modernizzati di Ray O Vac, una Granny Grunt in slalom tra California e Black Sabbath, la fenomenale epica younghiana con stacco latino Shadow of the Wasp, gli Aerosmith cupi di A Night to Remember, la malinconica Map of the City e il glam secondo i Crazy Horse di (Have You Met) Horror James? L’insania non è placata: il duo ha solo imparato a gestirla come si deve.
Lo conferma Sweet Sixteen, autentico sputo in faccia a un’etichetta che chiedeva di sfornare hit. Gli anni ’70 sfilano sotto una lente deformante che ne accentua la magniloquenza e la pacchianeria con il disincanto che spinge Jennifer a posare per Calvin Klein. Ne deriva un bubblegum di psichedelia da cartone animato – per capirci: Todd Rundgren al soldo di Meat Loaf, però molto meglio – che esalta nella baraonda su riff elastico 10 Days 12 Nights e nella centrifuga Can’t Have It Both Ways, in una title track che strapazza Iggy Pop e nella contagiosa Morphic Resident, nella Don’t Try Too Hard che copre di lustrini i Flaming Lips e in una disturbata Pol Pot Pie.
Il licenziamento è una conseguenza ovvia, probabilmente cercata fin da una copertina sgradevole come poche. La strana coppia si ritira a guardare la televisione, giocare in borsa e concludere il trittico con Accelerator. Il rientro nell’underground interpreta gli anni ’80 con un caos senza bassi compresso e filtrato in modo parossistico. Roba da prendere o lasciare: noi prendiamo, in particolare la lugubre ballata New Bones, le programmatiche Liar e I’m Ready, una stordente Juicy, Juicy, Juice, il soul stranito Stevie (for Steven S.).
Prima del capolavoro bisogna svuotare i cassetti e ripescare gemme sparse in Singles, Live, Unreleased, riassunto di una carriera e inventario di musiche beffarde che getta nel calderone omaggi e oltraggi, sfregi e deviazioni. Puntualmente, in coda al secolo Veterans of Disorder consegna l’estetica del gruppo a un’impostazione “da vinile”. In una sorta di non luogo ai confini di qualsiasi realtà il tipico dualismo complementare dei Royal Trux – guardarsi indietro senza rinunciare agli esperimenti – raggiunge la perfezione.
A una Waterpark che inchioda Joan Jett rispondono la trasognata rilassatezza di Stop e l’intreccio tra piano saltellante, voce demente e chitarra nervosa The Exception. Creando attesa per la seconda facciata, Second Skin la butta in glamorama da ghetto, Witch’s Tit comprime la psichedelia in anfratti mentali, ¡Yo Se! e Lunch Money poggiano su un efficace impasto di esuberanza e alienazione.
Su quelle basi, gli antieroi allestiscono un policromo trip nel quale Sickazz Dog germoglia da spasmi kraut per snodarsi in tribalismi e vocalità ieratica, Coming out Party profetizza un country-psych per la fine del mondo e la dilatata Blue Is the Frequency sparge ceneri rock-blues. Da quelle spire escono dei torvi vincitori che hanno riso in faccia alla morte. L’eternità è dalla loro, adesso.
Ciò nonostante, l’ultima parola spetta alla grande livellatrice. Jennifer scopre che il padre è affetto da un male incurabile e scivola di nuovo nella tossicodipendenza. A rapporto sfaldato, Pound for Pound mostra la crisi in controluce con dignità e il sipario si chiude nel 2001. Interrotto il viaggio in comune, i protagonisti rispondono alle difficoltà in modo coerente. Mentre i discepoli Kills passano alla cassa, la carriera solista della femme fatale conosce esiti mediocri e Neil si rifugia nel proprio universo.
Per chissà quale (il)logica, la seconda metà degli anni Dieci vede un’insensata reunion che ha come risultato un live raffazzonato e lo spento White Stuff, disconosciuto dal dimissionario chitarrista. Addio per sempre? Staremo a vedere. L’autentico post scriptum è Hand of Glory, che nel 2002 porta alla luce vecchi nastri con le prove generali di Twin Infinitives. Allo stesso modo, si tratta di precognizioni del nostro qui e ora, così oscuro, privo di senso e prospettive da impedirci di vivere serenamente anche la quotidianità. Tanto vale accettarne e cavalcarne il lato oscuro, come chi trent’anni fa aveva capito in che razza di guai ci saremmo andati a cacciare. Tu chiamala, se vuoi, luccicanza.
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