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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Attenti a quei due! Un elogio dei Royal Trux

Rock da strada e sperimentazione insieme? Si può fare!

Cattivi ma cool, Neil Hagerty e Jennifer Herrema sono trasformisti nati: assassini, creatori, intellettuali randagi, pazzi miracolati. Grazie a loro, quel che resta del rock è morto e risorto per l’ultima volta. E così sia.

Suicidal Tendencies

Alla fine degli anni Ottanta, nel libro Music for Pleasure il sociologo e critico inglese Simon Frith dichiara il decesso del rock. Non si riferisce a un suono che fin dalle origini si comporta come un’araba fenice, ma all’idea che esso sia il perno della popular music e non uno fra tanti possibili linguaggi. Frith ha visto giusto, perché “crossover” e “post” stanno per diventare le parole chiave del decennio successivo, nel quale il processo iniziato da Sandinista! e Remain in Light decolla in via definitiva.

Insieme all’idea di centralità assoluta, svanisce anche il senso di innocenza legato a una cultura e un immaginario storicizzati. Soprattutto, la convinzione che il rock sia un elemento di rottura incuneato nella società: in realtà, come ogni forma d’arte moderna vive anch’esso sul crinale tra disubbidienza e mercato. Se una volta scardinava tabù, espandeva coscienze e metteva in discussione dogmi, per forza di cose oggi si trova spesso alle prese con il riciclo, le messinscene e la necrofilia. Di nuovo, come qualsiasi altro (sotto)genere. Ma se il cerchio si è chiuso, ciò non significa che le potenzialità espressive siano esaurite. Tutt’altro.

Lo smantellamento dell’innocenza inizia poco prima che Frith pubblichi la sua teoria. Nei medi Eighties, da efferatezze in bassissima fedeltà i Pussy Galore intraprendono una graduale presa di consapevolezza del passato e una rifondazione del rock più selvaggio: incompromissori e ruvidi, smontano gli elementi per ricavare altro. Qui sta l’importanza del gruppo in cui hanno militato Jon Spencer, Julia Cafritz, Cristina Martinez, Bob Bert e Neil Hagerty. E dubito dopo, nell’aver tracciato in largo anticipo le linee guida del ritorno a certe sonorità. Se vi pare poco…

Cominciamo da questi brutti ceffi.

Garage Days Revisited

Dopo i primi grezzi singoli e il curioso rifacimento su cassetta di Exile on Main St., ad accende sul serio la fiamma è il terzetto di album inaugurato nel 1987. L’esordio Right Now! accoltella un revival del garage in fase calante strapazzando i Rolling Stones e Captain Beefheart in fulminei, rumorosi e sarcastici assalti. Un biglietto da visita notevole, laddove il rito di passaggio è la cover di Yü Gung degli Einstürzende Neubauten contenuta nel mini Sugarshit Sharp. La copertina sovrappone il logo dei berlinesi alla celeberrima “boccaccia” restituendo il metodo che cancella i residui di purezza tra cadenze industriali e campionamenti dei Public Enemy.

Il gesto spiega che sul passato si può distruggere per costruire con un approccio dichiaratamente ammesso nelle interviste e approfondito dai lavori successivi: con un po’ di aiuto da parte di Steve Albini, la sperimentazione neoprimitivista di Dial ‘M’ for Motherfucker sradica il suono dai modelli di riferimento e prepara il terreno a Historia de la musica rock. Senza più le ragazze, il power-trio superstite perfeziona la dinamica tra attualità e retrospettiva nella grafica che richiama le enciclopedie vendute in edicola e in un elenco di falsi ma plausibili titoli della “collana” che chiarisce l’educazione sentimentale del gruppo.

Il senso ultimo della band è affidato a un blues metallurgico, sbiancato e ridotto ai minimi termini e a versioni iconoclaste di Little Red Rooster e Crawfish in cui la carica eversiva risucchia dalla tomba ciò che resta del classicismo. Stanchi e pieni di additivi chimici, i Pussy Galore si disgregano in una serie di ramificazioni che allo zombie chiamato rock daranno nuovi significati. I più profondi ed enigmatici saranno escogitati dai Royal Trux.

Per tutti quelli che "sì ma erano meglio i Pussy Galore": potete lasciare le vostre lamentele qua, un operatore vi risponderà il prima possibile.

Personality Crises

Per uno scherzo del destino, i Royal Trux nascono in parallelo alla maturità dei Pussy Galore dall’amore tra Neil Hagerty e Jennifer Herrema, che con un’invidiabile chimica creativa modificano geneticamente la coppia rock per antonomasia. Truccando le carte, Mick Jagger è un’emancipata bambola dall’ugola raucamente sexy e il “post” Keith Richards traffica con psicosi, riff obliqui e gorghi contorti. In entrambe i casi non è solo rock’n’roll, ma decostruzionismo da tossici che ti catturano nella loro visione delle cose fino a convincerti che sia l’unica possibile.

Spesso e volentieri hanno ragione, perché la risposta da bassifondi agli ex compagni di merende Boss Hog non conosce mezze misure o buone maniere ma vede oltre la musica. Anche se, a dire il vero, i primi passi sono piuttosto traballanti e Royal Trux racconta una materia più fuori asse che di testa. Sotto cieli grigi, la confusione va maneggiata con cura, pazienza e concentrazione. Doti necessarie per affrontare Twin Infinitives, ostico monolito che affastella avanzi di Can, Faust e Pere Ubu, sfregi atonali e allucinazioni selvatiche. Ispirato all’elettronica colta e concepito durante un soggiorno a San Francisco, è un test di Rorschach disegnato da Jackson Pollock.

Da un magma estremo oltre il quale non ci si può spingere si esce aggrappandosi alle radici e trasfigurandole. L’ossatura del nuovo stile è un’inebriante mistura di Velvet Underground, Stones, Stooges, spazzatura culturale e lampi psico-delici compressi in canzoni concepite come cartoline da un mondo torbido. Nel terzo LP – ancora omonimo, per sottolineare un’altra vita artistica – spiccano la Junkie Nurse dove Bob Dylan è davvero «like a Rolling Stone», l’incontro tra Syd Barrett e Neil Young di Air, la scomposta Move e una Sometimes che avvolge Raw Power in nebbie allucinogene.

Ancora meglio Cats and Dogs, fantasia su Lou Reed e John Cale che si incontrano con un lustro di ritardo per concedersi acid-hard di tetra sensualità (Teeth, Let’s Get Lost), ballate metropolitane malaticce (Turn of the Century, Up the Sleeve, Driving in That Car) e rock aromatizzati alla codeina (The Spectre). Se Skywood Greenback Mantra e Hot and Cold Skulls sono i Led Zeppelin che abbracciano la funkadelia, la raffinatezza stranita di Tight Pants saluta la scuderia Drag City. Alla Virgin stanno sventolando un assegno che supera il milione di dollari e solo dei pazzi direbbero «no, grazie».

Abbiamo detto innamorati pazzi, mica pazzi e basta.

Another Rock’n’Roll Swindle

I Royal Trux approfittano del boom alternativo per attuare un piano preciso: incassare l’anticipo, costruire una casa/studio nei boschi della Virginia e allestire una trilogia che rivisiti i decenni precedenti. Thank You comincia sbatacchiando i Sixties con la produzione per la prima volta affidata a un esterno. Sotto lo sguardo vigile di David Briggs, già al mixer per After the Gold Rush e Tonight’s the Night, il duo si libera della scimmia, impara i trucchi del mestiere e lima il suono.

Il gioco resta comunque dentro i confini di un labirinto spiazzante e anticonvenzionale, così che dei favolosi Sessanta è fotografato il tramonto e si aggiornano le inquietudini. Emergono da lì i Rolling Stones girati hard-rock di The Sewers of Mars e quelli modernizzati di Ray O Vac, una Granny Grunt in slalom tra California e Black Sabbath, la fenomenale epica younghiana con stacco latino Shadow of the Wasp, gli Aerosmith cupi di A Night to Remember, la malinconica Map of the City e il glam secondo i Crazy Horse di (Have You Met) Horror James? L’insania non è placata: il duo ha solo imparato a gestirla come si deve.

Lo status di mainstream lo sancisce il piccolo schermo — eccoli a The World, 1995.

Lo conferma Sweet Sixteen, autentico sputo in faccia a un’etichetta che chiedeva di sfornare hit. Gli anni ’70 sfilano sotto una lente deformante che ne accentua la magniloquenza e la pacchianeria con il disincanto che spinge Jennifer a posare per Calvin Klein. Ne deriva un bubblegum di psichedelia da cartone animato – per capirci: Todd Rundgren al soldo di Meat Loaf, però molto meglio – che esalta nella baraonda su riff elastico 10 Days 12 Nights e nella centrifuga Can’t Have It Both Ways, in una title track che strapazza Iggy Pop e nella contagiosa Morphic Resident, nella Don’t Try Too Hard che copre di lustrini i Flaming Lips e in una disturbata Pol Pot Pie.

Il licenziamento è una conseguenza ovvia, probabilmente cercata fin da una copertina sgradevole come poche. La strana coppia si ritira a guardare la televisione, giocare in borsa e concludere il trittico con Accelerator. Il rientro nell’underground interpreta gli anni ’80 con un caos senza bassi compresso e filtrato in modo parossistico. Roba da prendere o lasciare: noi prendiamo, in particolare la lugubre ballata New Bones, le programmatiche Liar e I’m Ready, una stordente Juicy, Juicy, Juice, il soul stranito Stevie (for Steven S.).

Avanzano i soldi anche per un video, comunque.

(Second) Skins

Prima del capolavoro bisogna svuotare i cassetti e ripescare gemme sparse in Singles, Live, Unreleased, riassunto di una carriera e inventario di musiche beffarde che getta nel calderone omaggi e oltraggi, sfregi e deviazioni. Puntualmente, in coda al secolo Veterans of Disorder consegna l’estetica del gruppo a un’impostazione “da vinile”. In una sorta di non luogo ai confini di qualsiasi realtà il tipico dualismo complementare dei Royal Trux – guardarsi indietro senza rinunciare agli esperimenti – raggiunge la perfezione.

A una Waterpark che inchioda Joan Jett rispondono la trasognata rilassatezza di Stop e l’intreccio tra piano saltellante, voce demente e chitarra nervosa The Exception. Creando attesa per la seconda facciata, Second Skin la butta in glamorama da ghetto, Witch’s Tit comprime la psichedelia in anfratti mentali, ¡Yo Se! e Lunch Money poggiano su un efficace impasto di esuberanza e alienazione.

Torniamo subito indie con il classico footage riciclato da una performance live.

Su quelle basi, gli antieroi allestiscono un policromo trip nel quale Sickazz Dog germoglia da spasmi kraut per snodarsi in tribalismi e vocalità ieratica, Coming out Party profetizza un country-psych per la fine del mondo e la dilatata Blue Is the Frequency sparge ceneri rock-blues. Da quelle spire escono dei torvi vincitori che hanno riso in faccia alla morte. L’eternità è dalla loro, adesso.

White Trash

Ciò nonostante, l’ultima parola spetta alla grande livellatrice. Jennifer scopre che il padre è affetto da un male incurabile e scivola di nuovo nella tossicodipendenza. A rapporto sfaldato, Pound for Pound mostra la crisi in controluce con dignità e il sipario si chiude nel 2001. Interrotto il viaggio in comune, i protagonisti rispondono alle difficoltà in modo coerente. Mentre i discepoli Kills passano alla cassa, la carriera solista della femme fatale conosce esiti mediocri e Neil si rifugia nel proprio universo.

Per chissà quale (il)logica, la seconda metà degli anni Dieci vede un’insensata reunion che ha come risultato un live raffazzonato e lo spento White Stuff, disconosciuto dal dimissionario chitarrista. Addio per sempre? Staremo a vedere. L’autentico post scriptum è Hand of Glory, che nel 2002 porta alla luce vecchi nastri con le prove generali di Twin Infinitives. Allo stesso modo, si tratta di precognizioni del nostro qui e ora, così oscuro, privo di senso e prospettive da impedirci di vivere serenamente anche la quotidianità. Tanto vale accettarne e cavalcarne il lato oscuro, come chi trent’anni fa aveva capito in che razza di guai ci saremmo andati a cacciare. Tu chiamala, se vuoi, luccicanza.

Da cui la necessità di opportuni occhialoni da sole.

Royal Trux Pussy Galore John Spencer Neil Hagerty Jennifer Herrema Boss Hog 

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