Ci sono posti, in questo mondo, dove umanità e arte sono indissolubilmente intrecciate. Ci sono musiche che contribuiscono a immortalare paesi e città che, altrimenti, sfuggirebbero al nostro radar. Quella di Richard Hawley è la storia di Sheffield e, soprattutto, dei suoi sobborghi popolari, fatta tanto di accordi di chitarra quanto di tombini fumanti, di persone e piogge, di parole amare e pinte vuote, di fiumi di provincia e amori di quartiere. Il tutto sotto l’ombra del grande blues americano.
Sheffield. Tra Fargate e Church Street, con la cattedrale in vista. Dove c’erano i grandi magazzini dei Fratelli Cole. Se non ci si era mai visti, ci s’incontrava proprio là. Niente smartphone, niente Tinder, niente dating apps. Niente di tutto ciò.
C’era voglia di incontrarsi: di condividere le proprie storie, di ascoltarne altre. Magari di farsi una sveltina, pure. L’animo della città stessa e della sua gente veniva tratteggiata in quegli incontri & scambi: collisioni vitali che uccidevano via la solitudine delle altre strade e dei loro cliché.
Richard Hawley lo sa. Classe 1967: nato e cresciuto nel distretto operaio di Burngreave, palatoschisi infantile, ambizioni da crooner coltivate già in tenera età.
Lui lo sa bene, avendo ascoltato e assorbito Roy Orbison, Scott Walker, i dischi della Chess e della Sun Records, Johnny Cash ed Elvis Presley. I genitori – entrambi musicisti – divorziano durante la sua adolescenza; un ragazzino lasciato solo, o quasi, con una chitarra e una grande passione.
Il giovane non può che insinuarsi nel giro della musica più o meno professionale, appena possibile («Ho lavorato una volta sola, nella mia vita: nove settimane da HMV, a cavallo delle feste natalizie», affermerà molti anni dopo). Poco dopo i Treebound Story, sua prima band quando ancora frequenta la scuola, entra nei Longpigs, coi quali registra due dischi che, oggi, rappresentano dei piccoli gioielli semi-dimenticati: The Sun Is Often Out (1996) e Mobile Home (1999).
Il songwriting dei Longpigs – perlopiù firmato dal cantante e chitarrista Crispin Hunt – tende a declinare verso quelle ballate agrodolci, tutte inglesi, dove gli anni ‘90 scivolano in un pop languido, figlio del grunge e nipote del blues.
C’è Miss Believer, quella che non ti ha mai amato fino in fondo; ci sono i gangster locali e i bambini che guardano i cieli sporcati dal fumo delle fabbriche, poco più in là. E c’è l’idea di un vero pubblico cui rivolgersi: quello che avrebbe ascoltato anche la tua vicenda personale, prima o poi. Si avverte in maniera particolare in Dog Is Dead, da Mobile Home:
I pur bravi Longpigs scalpitano nelle retrovie del fenomeno Britpop, comunque, mentre l’industria musicale s’appresta a un cambiamento radicale causato dall’avvento di Internet (senza nemmeno accorgersene, in principio). E per Hawley – che, a scopo ricreativo, non disdegna droghe e dintorni – si profila un avvenire di culto, nella migliore delle ipotesi, lontano dalle luci dei grandi riflettori.
Dopo un breve ma intenso periodo come musicista “session” per i Pulp, in compagnia dei concittadini e amici Jarvis Cocker e Steve Mackey, nei primi mesi del 2001 Richard Hawley riesce a farsi produrre una demo di sette pezzi dalla Setanta Records, ovvero l’omonimo EP (più tardi ripubblicato con cinque bonus-track).
Non c’era ancora niente di davvero nuovo, a livello di scrittura: probabilmente, lo stesso autore non credeva che quei pezzi potessero raggiungere una produzione effettiva e, quindi, una pubblicazione. In fondo, poco importa: non è per un motivo specifico che Richard continui a strimpellare. È soltanto per stare bene.
Tuttavia, poco tempo dopo, nasce l’album Late Night Final, prodotto da Alan Smythe. Un’opera che introduce Hawley alla dimensione prettamente sheffieldiana del suo songwriting. Clash Magazine lo definirà, mirabilmente, “una collezione di calde ninne nanne evocative” – citando, tra le altre, The Nights Are Cold.
Lowedges, uno dei sobborghi cittadini, diventa l’occasione per proseguire a dipingere in modo ispirato quei suoi delicati ritratti urbani, due anni dopo. NME segnala il disco omonimo come uno dei migliori lavori del 2003.
Risulta ormai difficile ignorare Hawley: la sua timbrica sempre più personale, il suo tocco sempre più tipico. Un artista conscio del suo essere, della sua peculiarità, capace di modificare quegli standard da cui era partito e superare i pur lusinghieri paragoni con Bob Dylan, Nick Cave e il già citato Walker.
Eccoci arrivati al crocevia fra le strade e le storie. 2005: sotto la raramente banale egida della Mute Records e dopo alcuni ritardi, esce a settembre il terzo album, Coles Corner.
Tutta la miglior poetica di Richard Hawley confluisce dentro questo emozionante compendio di rhythm & blues, soul, rock’n’roll e un pizzico di pop. Una chitarra, uno slide, poche sterline, qualche bicchiere e una manciata di sconosciuti il cui cuore necessita di essere riscaldato.
Il consenso della critica, in Gran Bretagna, è pressoché unanime. Anche i suoi “colleghi” sono consapevoli della sua caratura. Il pubblico, il grande pubblico… beh, prima o poi se ne accorgerà, no?
Quando altri illustri figli di Sheffield e paraggi come gli Arctic Monkeys – in quel momento ancora dei ragazzini-prodigio – prevalgono (anche) sul terzo sigillo di Hawley, in occasione del Mercury Prize 2006, il loro leader decreta pubblicamente il vincitore morale del “miglior disco dell’anno”. Un premio di consolazione, certo, ma significativo.
Nel 2007 è il turno di Lady’s Bridge, dal nome del ponte che sorge al centro di Sheffield, sopra il Don, e che si diceva unisse la parte povera a quella più borghese della città. Un po’ come la musica di Richard Hawley, a pensarci bene.
Un album molto importante, dal punto di vista intimo: l’arrivo dei “quaranta”, la perdita del padre. Lo stesso babbo che aveva suonato più volte nel locale della copertina, insieme a Muddy Waters e John Lee Hooker e dove adesso siede il figlio, trent’anni dopo.
Il connubio con la Mute prosegue due anni più tardi per Truelove’s Gutter: il disco che, pur ritraendo Hawley in una delle sue vesti più oscure, ne eleva finalmente il profilo commerciale (in tutti i sensi).
Sono due le canzoni che vengono scelte per spot commerciali, legate a Starbucks e Häagen-Dazs: Don’t Get Hung Up in Your Soul e Open Up Your Door. Tonight the Streets Are Ours viene poi inclusa nella colonna sonora del documentario su Banksy, Exit Through the Gift Shop; There’s a Storm Coming appare in quella del film Brighton Rock, invece.
Il titolo dell’album si riferisce di nuovo a Sheffield: a quella che ora si identifica con Castle Street e dove, una volta, il locandiere Thomas Truelove si faceva pagare per scaricare i rifiuti dei cittadini nella fogna che arrivava al fiume. L’incipit, paradossalmente, è una tenue dedica al canto di un uccellino: As the Dawn Breaks.
La Parlophone si aggiudica il sesto lavoro da solista di Richard Hawley, Standing at the Sky’s Edge (2012): un album che mette in mostra il lato più maturo del suo stile e che gli frutta una nuova candidatura al Premio Mercury.
Come di consueto, il richiamo alla città natale marchia a fuoco il disco. Skye Edge era un quartiere collinare di Sheffield, ove il crimine dettava legge. Qui le chitarre sono più marcate, il sound più aggressivo e distorto, le canzoni rivolte a quel sottile confine politico e sociale lungo il quale s’aggira l’odierno Regno Unito.
Dall’alto, Hawley osserva il baratro dubbioso, incerto e preoccupato sul futuro della città e dell’Inghilterra tutta (proprio nell’anno delle Olimpiadi di Londra). Come se qualcosa fosse cambiato, irrimediabilmente.
Hollow Meadows, 2015, infine: il suo ultimo lavoro, tuttora. Un rifugio per i malati, i feriti e i folli che risale alla Grande Guerra. Hawley continua a scavare negli anfratti più profondi del proprio spirito, quelli idealmente più vicino al parco nazionale Peak District.
Una figlia che si allontana da casa, serenate a un blu che si scolora, canzoni legate alla dimora interiore – e non solo – di un uomo. Il disco, infatti, è stato principalmente scritto in un periodo nel quale il cantautore si trovava a casa dopo un incidente con conseguenze dolorose per gambe e bacino.
Le riflessioni sono più distaccate, stavolta, legate cioè a una città che pare essere rimasta al di là del vetro. E lo sguardo del musicista torna a posarsi sull’interno delle proprie mura: The World Looks Down.
Hawley è un personaggio che parla sottovoce, ma difficile da zittire. Soprattutto finché ci sarà un angolo, un bar o uno scannatoio della “steel city” del South Yorkshire disposto ad accoglierlo, e a rivelargli i propri segreti da tramandare con sentimento e disincanto.
«Vedo poesie nella gente, sul serio. Noto delle cose cui la maggior parte delle persone non fa caso. Non sto dicendo di essere meglio degli altri, è solo che possiedo una visione leggermente distorta… Un tipo da bicchiere mezzo vuoto, io? Non se frequenti i ‘miei’ pub: lì vengono riempiti fino all’orlo, regolarmente»
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