Sono bastati due singoli (Deutschland e Radio) e i relativi videoclip, nell’ultimo mese e mezzo circa, per risvegliare una fortissima voglia collettiva di Rammstein, di un disco di inediti e di esibizioni eccessive e spettacolari. La band tedesca più famosa del mondo, oggi: non male per dei ragazzotti cresciuti, loro malgrado, fra socialismo reale, Trabant e propaganda sovietica. Come sarà il loro settimo, imminente album, lo vedremo; per adesso, il culmine artistico, Till Lindemann e compagni l’hanno raggiunto con il gigantesco Mutter del 2001.
Nati e cresciuti in piena guerra fredda nella DDR di Erich Honecker e della Stasi (la terribile polizia “segreta” della Repubblica Democratica Tedesca), Till Lindemann (voce ed effetti pirotecnici), Richard Z. Kruspe e Paul H. Landers (chitarre), Oliver Riedel (basso), Christoph Schneider (batteria) e Christian “Flake” Lorenz (tastiere) danno vita nel 1993 all’espressione rock più ambigua, divertente e spettacolare che l’Europa abbia partorito da molto tempo. In quel momento, tuttavia, lo sanno loro e nessun altro.
Il gruppo vede la luce per iniziativa di Kruspe, Riedel, Schneider e – più tardi – Landers, storpiando il nome della località di una nota tragedia aerea. Lindemann è un amico di Richard; ex campione giovanile di nuoto, ex batterista di una punk band denominata First Arsch, è un ragazzone di quasi due metri dotato di una voce profonda e altisonante, di certo più adatta alla recitazione che al canto.
Pur con qualche incertezza iniziale nel suo ruolo dietro al microfono («Till, di mestiere, faceva l’impagliatore di ceste, non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire cantare!» – Paul Landers in un’intervista al magazine tedesco Zillo, 2001), Lindemann caratterizza rapidamente il suono e l’immagine dei neonati Rammstein.
Ultimo ad aggregarsi è un riluttante, perlomeno all’inizio, Lorenz.
Le loro origini da outsider del rock (da sempre un fatto “occidentale”), la scelta del cantato in lingua madre, la commistione tra chitarroni ipersaturi e inequivocabili ritmi e melodie techno: tutto sembrava relegare i Rammstein nella confortevole ma ristretta nicchia dell’industrial/alternative metal, già occupata da entità americane ben più blasonate – Nine Inch Nails, Ministry, Prong.
E invece, dopo aver debuttato nel 1995, nel volgere dei due album successivi i Rammstein s’impongono clamorosamente a pubblico e critica, sdoganando se stessi e un intero sottogenere a sé.
Già, uno stile unico e personale: ma quale? “Industrial” è un’etichetta che, sin dai primi passi, ai Rammstein va stretta o anche troppo larga – dilatata com’è per includere sia i rumorismi sperimentali della Cold Meat Industry (etichetta svedese di culto, oggi defunta), che Trent Reznor e Marilyn Manson, mattatori nella seconda metà dei ‘90 dei mercati globali, e contemporaneamente riciclata per sintetizzare la Neue Deutsche Härte (letteralmente: “nuova durezza germanica”), scuola sonora tutta tedesca basata su cantato in lingua, suoni crossover e suggestioni elettroniche.
I Rammstein preferiscono distinguersi, coniando un’etichetta rigorosamente monouso: suonano tanz metal (dance metal), un mix personale e accattivante, nonché consapevole, di musica, iconografia e spettacolo degli ultimi vent’anni.
La radice sonora dei Rammstein è inequivocabilmente metallica; delle derive “nu” del metal a stelle e strisce, così in voga nel periodo in cui ha iniziato, il gruppo berlinese non solo non sa che farsene: se ne propone come fiero avversario, piuttosto, schierando attraverso le chitarre di Kruspe e Landers un muro di distorsione che rimanda direttamente al metal di Megadeth, Slayer, Metallica e Pantera – influenze sempre dichiarate.
L’incredibile pesantezza del suono è fornita, inoltre, dalla batteria di Schneider, che con la precisione e la delicatezza di un panzer scandisce mid-tempo marziali e ipnotici. Su questa struttura si introduce il lavoro di Lorenz e Lindemann.
Christian è un tastierista eclettico e, soprattutto, un eccellente arrangiatore, autore della componente elettronica – mutuata dalla potente scena electro/industrial tedesca – e decadente della musica della band.
Quanto a Till, di tutto si può dire meno che sia un buon cantante: almeno nel senso classico del termine. A trovargli un parallelo italiano, viene in mente Giovanni Lindo Ferretti, che con i suoi CCCP aveva definito un nuovo ruolo dietro il microfono – quello del “declamatore”.
Il cantato di Lindemann è monocorde e recitativo, l’interpretazione delle liriche vince sulla loro mera intonazione: le parole escono di bocca con gli angoli ulteriormente acuminati, dotate di una rinvigorita potenza espressiva. La sua abitudine ad arrotare le “r” gli crea pure qualche problema: ai detrattori connazionali della band ricorda niente meno che la parlata di Adolf Hitler nei discorsi alle folle del Terzo Reich.
Ma la pronuncia non è l’unico argomento in mano a quanti accusano i Rammstein di simpatie neo-naziste. Sotto giudizio è l’intera iconografia messa in mostra negli artwork dei dischi, nelle foto promozionali e, in particolare, nei live. I Rammstein si presentano come un collettivo in cui le identità dei singoli si annullano; vestono di nero e di pelle, sfoggiando in ogni tour delle improbabili uniformi vagamente bondage; il videoclip di Stripped, una cover dei Depeche Mode, include alcuni spezzoni del film Olympia di Leni Riefenstahl, passata alla storia come “la regista di Hitler”; le stesse movenze di Lindemann sul palco sembrano in effetti quelle di un capo-popolo che arringa la folla; e da nessun altra parte come a un concerto metal si trova una folla meno che adorante, altrettanto disponibile a farsi dominare con la durezza dei suoni, della voce, delle immagini.
Che dietro vi sia un’indubbia fascinazione per l’estetica dei totalitarismi è fuori discussione; ma è pur vero che non si tratta di un “percorso” inedito: pensiamo ai Kraftwerk, vent’anni prima, e ancor di più ai Laibach. La formazione slovena, fra i padrini della musica industriale in Europa, è stata talvolta accusata di simpatie totalitarie ora da destra, ora da sinistra; in realtà la sua natura profondamente anarchica, volutamente ambigua e sempre iconoclasta è spesso sfuggita a critici e osservatori vari.
Di fatto, pur avendo sempre rispedito al mittente ogni accusa di simpatie esplicitamente destrorse, ai Rammstein non dispiace l’ambiguità che li circonda; su di essa hanno costruito bene o male un’immagine e, su questa, una carriera vincente.
I Rammstein centrano l’obiettivo fin dall’esordio. Herzeleid, ai giorni nostri, può sembrare acerbo, vagamente artigianale, con un Lindemann non ancora del tutto padrone delle sue corde vocali; eppure rappresenta già l’intero manifesto sonoro e visuale della band.
Ammirando da sempre David Lynch, la band riesce poi a contattare lo stesso regista americano, proponendogli di girare un videoclip promozionale. Lynch rifiuta, ma l’album risulta talmente di suo gradimento da includere Heirate Mich nella colonna sonora del film che sta girando in quei mesi, Strade Perdute, che uscirà poi nel 1997.
L’ultima traccia di Herzeleid si chiama proprio Rammstein, che spiega anche il significato del nome: Rammtein è un pezzo sulla tragedia aerea del 1989 della cittadina tedesca di Ramstein (con una m sola), in cui 3 aerei delle Frecce Tricolori, entrando in collisione per una manovra errata, causarono la morte di 67 persone tra quelle convenute ad assistere lo spettacolo.
Proprio nel 1997 i Rammstein danno alle stampe il loro secondo lavoro, Sehnsucht, quasi un concept-album incentrato sul sadomasochismo e le devianze sessuali. Musica e cinema si ritrovano ancora insieme nei video di Engel, un tributo a Dal Tramonto all’Alba di Robert Rodriguez, e in quello di Du Hast, dove viene citato Le Iene di Quentin Tarantino.
Il “giro” si chiude quando la medesima Du Hast, tuttora una delle canzoni più note del gruppo, viene inclusa nella colonna sonora di Matrix, nel 1999.
Nel complesso Sehnsucht è un ottimo lavoro, pieno di reali e/o potenziali singoli e che ritrae un gruppo pienamente consapevole dei propri mezzi, mostrati per intero nel corso del lungo tour successivo e, infine, fotografato nel doppio Live Aus Berlin (‘99).
Quando nell’aprile del 2001 esce Mutter, sempre prodotto dal fido Jacob Hellner, pochi tra i fedeli fan della prima ora credono si possa fare persino meglio di Sehnsucht; in ogni caso, vengono immediatamente smentiti. Il nuovo disco non cambia di una virgola la proposta sonora del gruppo, già ben delineata; semplicemente, porta all’apice la cifra della Rammstein-canzone – quella che, nelle parole di Kruspe, «ha la potenza, ha la melodia, ha un’atmosfera epica, quindi tutti gli ingredienti per una buona hard-pop song». E, infatti, tutte gli 11 pezzi che compongono l’album promettono di fare fuoco e fiamme.
Mein Herz Brennt apre le danze: un mid-tempo che incede marziale e quasi monocorde nella strofa, per poi aprirsi in toni drammatici nel chorus centrale. Il tema musicale, per archi in questa versione e per solo piano nella versione alternativa pubblicata insieme al singolo, è valsa l’utilizzazione come colonna sonora di uno spot della Mercedes Benz. Nonostante sia il primo brano del disco, è di fatto l’ultimo di cui si sia realizzato un video: addirittura 11 anni dopo. Forse per farsi perdonare il ritardo, ne girano addirittura due: quello ufficiale e la versione per solo piano di cui sopra.
Sonne (“sole”) è il primo singolo: a confermare la loro perversa vena goliardica, i Rammstein s’inventano un video in cui una procace Biancaneve tiranneggia i sei nani – il gruppo stesso – e li costringe a scavare polvere d’oro in miniera; una sniffata di troppo della polvere gialla manda all’altro mondo la bella, però. A discapito del kitsch che trasuda da ogni secondo della pellicola, Sonne è una delle composizioni più intense e solenni della band.
(curiosità: il tema musicale di Sonne è ripreso al termine dei videoclip del recente singolo Deutschland)
Links 2-3-4 è la risposta dei Rammstein a chi li accusa di avere simpatie destrorse: il titolo è quello di una marcetta militare tedesca (traducibile in qualcosa come “… 2, 3, 4… fronte-sinistr…”), ma gioca sul termine “links” (“sinistra”) quando Lindemann canta «Sie wollen mein herz am rechten fleck / Doch seh ich dann nach unten weg / Da schlägt es links» («Vorrebbero il mio cuore battere a destra / Ma quando guardo in basso / Batte a sinistra»).
Ich Will (“io voglio”) ha una storia del tutto particolare: incentrata sull’ossessione della cultura moderna per i media, ne viene girato un video in cui la band rappresenta un gruppo di terroristi che assalta una banca, solo per poi essere inquadrati dalle televisioni di tutto il mondo. Il video esce il 10 settembre 2001: una tempistica chiaramente infelice col senno di poi (in Usa viene ritirato dopo i tragici eventi del giorno seguente).
Feuer frei! (equivalente al nostro “fuoco!” di estrazione militaresca) è già un anthem notevole su disco, ma diviene assolutamente irresistibile dal vivo, costituendo un meraviglioso pretesto per una band che non aspetta altro che giocare con effetti pirotecnici assortiti. Cosa che, in questo caso, significa dotarsi di un lanciafiamme ad altezza volto e usarlo per sparare fiammate di alcuni metri nella parte conclusiva del pezzo. Feuer frei! è stata anche parte della colonna sonora del film xXx (discreto action movie con i bicipiti di Vin Diesel e le smorfie di Asia Argento): regia di Rob Cohen che, infatti, qui dirige anche il video.
Mutter (“madre”) rivela che cosa succede ai Rammstein quando abbassano i ritmi: la potenza svanisce, ma rimane la pesantezza dei suoni e, soprattutto, emerge un pathos epico e drammatico altrove accennato solo saltuariamente. Anche a livello lirico, appena pubblicato come quarto singolo, diventa un classico della migliore produzione Rammsteiniana, già densa di scenari surreali, orrorifici e fantascientifici. La vicenda narrata – la nascita di un bambino in laboratorio, fuori dal grembo materno – sarebbe metafora della relazione, o mancanza di essa, tra Till e la madre (Brigitte Hildegard Lindemann), ai tempi giornalista per una compagnia radiotelevisiva. Come ebbe a osservare qualcuno, avremmo molte ottime canzoni in meno se vi fossero meno famiglie disfunzionali.
Spieluhr (“music box”, “carillon”… insomma, avete capito) è un altro ottimo brano, insolitamente melodico, con il ritornello che segue la melodia disegnata dal carillon e le voci di Lindemann e quella, filtrata, di una bambina – la figlia di Kruspe – che si alternano. La storia? Un bambino si finge morto e viene seppellito, ancora vivo, con un carillon tra le mani (Edgar Allan Poe non è vissuto invano).
E se Zwitter riprende il mito, più che il tema, dell’ermafroditismo («Ich bin alleine doch nicht allein / Ich kann mit mir zusammen sein»; «Sono da solo ma non solo solo / Posso essere insieme con me stesso»), Rein Raus appare decisamente più prosaica e disimpegnata: «Ich bin der reiter / Du bist das ross / Ich hab den schlüssel / Du hast das schloß»; qualcosa del tipo “Io sono il cavaliere e tu il cavallo, io ho la chiave e tu la serratura”. Nulla che Madonna non canticchiasse già anni addietro («I hold the lock / And you hold the key», 1986), anche se alcune ottave sopra.
Adios è, di fatto, un remake di una canzone registrata dalla band nel 1994 e mai pubblicata. Giocata su continue accelerazioni e pause, ed è perfetta per introdurre la chiusura epica e struggente del disco – affidata a Nebel (“nebbia”), ovvero “leben” (“vita”) scritto al contrario. Il tema musicale è di quello che rimane stampato in mente per giorni, così come l’intensità delle liriche: una coppia di amanti, i giorni migliori dietro le spalle, il mare, la malattia, la consapevolezza della morte imminente per lei («Sie tragt den Abend in der brust»; «Lei porta la sera nel suo petto», immagine superlativa), un ultimo bacio perso nella memoria, la solitudine successiva di lui.
A cadenza via via sempre più dilatata, le opere successive del sestetto riscuotono altrettanto successo a livello commerciale, assorbendo con una certa disinvoltura anche la progressiva contrazione del mercato discografico, ma poco aggiungono in termini di novità e freschezza rispetto a quanto detto fino al 2001.
Il perno assoluto della loro attività diventa così il concerto: assistere a una loro esibizione significa farsi totalmente coinvolgere in uno spettacolo dentro lo spettacolo, tanto sbalorditivi (e costosi) sono gli effetti speciali e i classici giochi pirotecnici che si susseguono, oltre alle altrettanto tradizionali gag che conferiscono un tocco sardonico al tutto. Manterranno lo stesso livello i Rammstein per il tour 2020, quando toccheranno l’Italia il 13 luglio 2020 a Torino? C’è da sperarlo.
Difficile rinchiudere i Rammstein in una sola categoria, nel 2019: anche perché, se mai ci fosse il bisogno di ribadirlo, sono loro che comandano il gioco (e noi a subirlo, con piacere un poco masochistico).