Esattamente a cavallo tra il ventennale di XTRMNTR e il trentennale di Screamadelica, ripercorriamo la carriera di una band geniale ed eccentrica, umorale e umanissima nel suo alternare meraviglie e scivoloni in un percorso imprevedibile. Un percorso che partiva da lontano e che lontano è arrivato.
Lo scorrere della sabbia nella clessidra gioca scherzi bizzarri. Distorce i ricordi, modula le emozioni, tinge di rosa e avvolge in una nebbia confusa. Ricordate la coda della cometa anni Novanta, tutta quell’ansia legata al nuovo millennio e al bug? Viene da sorridere con un filo di malinconia al pensiero, poiché i problemi informatici furono di entità minima e per cambiare sul serio la storia si prese un anno e nove mesi, anche se lo scempio accaduto a Genova nel luglio precedente il 9/11 già qualcosa suggeriva. Stilando un veloce bilancio, a vent’anni dal Duemila viene da dire che si stava meglio quando si credeva di stare peggio. Quando cioè ancora non ci eravamo rassegnati a un presente eterno, caotico, cupo.
Cercando conforto nella vendemmiata discografica di quell’anno, tra gli ultimi fuochi post-rock, il rinnovamento della tradizione americana e i campioni fuori categoria svetta un tris di assi che porta con sé le inquietudini e l’incombente senso di ignoto. Kid A, The Sophtware Slump e XTRMNTR condividono la scintilla che li ha accesi e la preveggenza di un sogno destinato a infrangersi lasciando un vuoto incolmabile. Con un approccio e una natura più viscerali rispetto a Grandaddy e Radiohead, anche i Primal Scream sono dei mutanti più umani dell’umano che trafficano con revivalismo e avanguardia, volando ad altezze stratosferiche quando utilizzano l’uno per porre le fondamenta dell’altra.
Anche lì si trova uno dei significati di Screamadelica, spartiacque che non a caso uscì nell’ultima annata di autentiche rivoluzioni nella musica popolare. Se è di crossover senza limiti che parliamo, tuttora è proprio lui (insieme, forse, a Blue Lines) a spandere attorno a sé lo spirito della nostra epoca ergendosi tra le macerie del muro crollato in mezzo a rock e club culture. Sono stati dischi così ad abbatterlo in via definitiva con percorsi inversi che a un certo punto si sono incontrati: partiti dalla dance, i Massive Attack sono approdati a peculiari forme di black contaminata, mentre i Primals hanno immerso la psichedelia e il krautrock negli acidi della house e nelle basi della techno. Ciò che state per leggere racconta cosa è accaduto prima, durante e dopo quel viaggio. Allacciate le cinture.
Lontano ci si arriva con qualche impedimento che tempra un carattere già piuttosto ispido e risoluto. Nato a Glasgow nel 1962, Robert Gillespie conosce alle superiori Alan McGee – futuro manager dei Jesus & Mary Chain e boss dell’etichetta Creation – e il giovanissimo chitarrista Andrew Innes. L’apprendistato lo porta a pestare sui tamburi emulando Moe Tucker per conto dei fratelli Reid e ad allestire con la sei corde di Jim “Navajo” Beattie i Primal Scream, sostanzialmente un embrione fino all’ingresso di Innes e dell’altra vecchia conoscenza scolastica Robert Young. Quando deve decidere tra i due impegni, Bobby non ha esitazioni e coglie in pieno il passaggio dal post-punk al recupero creativo dei Sessanta. I capelli si allungano e l’abbigliamento passa dal total black al pastello e nel frattempo R.E.M. e Smiths mescolano emozioni, folk rock e new wave tirando la volata al Paisley Underground e alla generazione C86.
Un contesto che la band scozzese critica aspramente, in ogni caso svettando grazie ai primi 7”: buono All Fall Down nell’85, addirittura un classico l’anno seguente Crystal Crescent / Velocity Girl, gioiello da Byrds che si risvegliano Velvet Underground e, tra echi degli Orange Juice, indicano la via agli Stone Roses.
Impressionato, l’amico McGee finanzia un intero album per la Elevation, sottomarca di breve vita nata da un accordo con la WEA. Dilapidato un bel malloppo con Stephen Street, nell’87 subentra la leggenda Mayo Thompson a benedire l’arioso jingle-jangle adolescenziale di Sonic Flower Groove. È un omaggio, un tributo, un riconoscimento, nonché il fiasco commerciale che causa la rottura con Beattie.
Si risponde con un balzo citazionista da Monterey ad Altamont che in un biennio sposta l’asse su Stooges e Stones. Da figli dei fiori a randagi dei vicoli si fa tuttavia tanto rumore per quasi nulla: l’opaco Primal Scream conta giusto per l’arrivo del tastierista Martin Duffy dai disciolti Felt, ma soprattutto per un brano destinato a cambiare la carriera della formazione. E non solo.
Sempre scarse le vendite, i nostri antieroi sbandano gonfi di droga cattiva nel mezzo della Second Summer of Love. L’euforia decollata da Ibiza a ritmo di acid-house travolge Albione e l’universo indie metabolizza l’accaduto nella “pazza” Manchester. Superato l’iniziale scetticismo, i Primal Scream si sistemano nell’epocale snodo accompagnati da Andrew Weatherall: istigato da Innes, preleva I’m Losing More than I’ll Ever Have dal secondo LP e la destruttura cucendo assieme un groove metà Stones traboccanti soul e metà downtempo a venire, campioni da un bootleg “italo” della What I Am di Edie Brickell, Gillespie che intona Robert Johnson e la voce di Peter Fonda dal film I selvaggi. Il risultato è Loaded, aureo pop postmoderno che entra in classifica lungo pigre dilatazioni hip hop, r&b oppiaceo e flemma dub. Per il 33 giri ci si espande con ospiti di rango e peso (Hypnotone, Orb, Jah Wobble, Weatherall, Jimmy Miller) in una significativa mistura di presente e passato, nella quale il veterano Miller conduce ai convitati di (ehm…) pietra Jagger & Richards evocati dall’innodica Movin’ on up.
Attacco falsamente rétro – ascoltate la base ritmica – che dal punto di vista strategico è cruciale per porre ancor più in risalto l’immensa cover di Slip Inside This House – Roky Erickson sballottato e (s)ballato in volute elettro-funk orientaleggianti – e la sinfonia che fonde psichedelia e un dub che ne è la traduzione giamaicana. Il dualismo sfocia nell’armonia e ogni tassello compone la pietra miliare: se Don’t Fight It, Feel It sculetta hip house di classe sull’ugola di Denise Johnson, recentemente scomparsa, le sirene celestiali a gravità zero Inner Flight, Shine Like Stars e Higher than the Sun disegnano incanti pop da prefissare ambient e dream. A una Come Together che sparge suadente euforia disco-gospel rispondono la melanconia stile Beggars Banquet di Damaged e l’intreccio fra jazz ed elettronica di I’m Coming Down. Dopo la perfezione, però, qualcosa si rompe.
L’unico difetto dei Primal Scream è non saper dare immediato seguito alla grandezza, nel senso che talvolta faticano a dominare l’istinto – lo stesso che ha permesso loro di cavalcare i tempi più volte – e dalla crisalide esce solo un abbozzo della farfalla che sarà. Di conseguenza, dopo la pregevolissima postilla dell’EP Dixie-Narco, i primi ‘90 svoltano verso il rock-blues sudista e la funkadelia. Give out but Don’t Give up viene completato con fatica e – benché sia tutt’altro che brutto – risulta troppo ligio al manuale per convincere fino in fondo e, dopo tanto avveniristico genio, pare un ripiegamento.
Il momento critico prosegue nel tour di spalla ai Depeche Mode in cui si sfiora il tracollo, evitato con l’ingresso di Gary “Mani” Mounfield, ex bassista degli Stone Roses. Con Brendan Lynch e Weatherall ai controlli, nel ‘97 Vanishing Point riporta i Nostri in vetta con la colonna sonora virtuale dell’omonima pellicola post-hippie, avvolta in una superba claustrofobia ispirata a Tricky e Motörhead, a Can e Lee “Scratch” Perry.
È l’inizio di un periodo di grazia in cui ogni gesto rappresenta una reazione al “qui e ora” e un ponte sul domani: se Adrian Sherwood cura Echo Dek, azzeccata rivisitazione dub di Vanishing Point, nel successivo EP If They Move, Kill ‘Em è Kevin Shields dei My Bloody Valentine a remixare il brano omonimo. Così XTRMNTR prende forma mescolando rumore e metafisica pop, suggestioni techno e ritmi krautrock mostrando la consanguineità dell’insieme e sterminando da perfetto nomen omen l’estetica del decennio al tramonto. Parla chiaro in tal senso un nuovo plotone di collaboratori, dove tra gli altri spetta a Shields, David Holmes, Chemical Brothers e Dan the Automator chiarire l’aria che tira. Apertamente politico nei temi, XTRMNTR immagina una Detroit dove i profili dei Belleville Three e degli Stooges sono (con)fusi dallo schiaffo Swastika Eyes.
Proposto nel raffinato “martellone” marca Chemical e in un tellurico mix di Jagz Kooner, quel delirio irresistibile simboleggia una sintesi che sfocia nei trip hop malevoli di Kill All Hippies e del brano omonimo, nell’Iggy alle prese con la techno di Accelerator e nel rhythm and blues secondo i Neu! della torrida Blood Money. Altrove l’immane MBV Arkestra (If They Move Kill ’Em) smonta il Miles Davis elettrico, Insect Royalty e Pills sono dei Beastie Boys britannici e post-punk, Keep Your Dreams testimonia la resurrezione dei Suicide e Shot Speed / Kill Light sfreccia su un’autostrada dalla Motor City alla Ruhr. Tutto magnifico ed esaltante come la relativa tournée, durante la quale i ragazzi eseguono un inedito presto disgraziatamente profetico, Bomb the Pentagon.
Con atmosfere debitrici ai Public Image Limited, la ribattezzata Rise infonde ulteriore vigore a un successore finalmente degno. Evil Heat – A.D. 2002 – in parte riassume e in parte confonde i recenti punti cardinali e non se ne butta via nulla, dalla cover di Some Velvet Morning (ancora con Kate Moss, qui addirittura alle controvoci) alle squisite rivisitazioni di Germania anni ’70 (Deep Hit of Morning Sun, A Scanner Darkly, Autobahn 66), passando per saturi e moderni spigoli hard (Detroit, Skull X), blues del dopobomba con Robert Plant (The Lord Is My Shotgun) e viziosi dancefloors (Miss Lucifer). Approdo finale una redenzione chiesastica degna di Brian Wilson e Jason Pierce intitolata Space Blues #2, dalla quale potevamo attenderci un disinvolto e maturo planare. Ma per i Primal Scream il contropiede è un’arte e dunque figuriamoci se si azzecca mai un pronostico.
Quattro calendari dopo, si torna a suoni privi di fronzoli con la passione sufficiente a farla franca tra i boogie’n’roll, le cartoline da Gram Parsons e Let It Bleed, le schegge glam e doorsiane della scorrevole enciclopedia Riot City Blues. Aspetto e sostanza raccontano un divertissement d’autore piacevole che non desta preoccupazioni, laddove nel 2008 Beautiful Future cucina una mediocre zuppa di krauti, new wave e ricercato pop oscuro trascurando ingredienti basilari come verve e scrittura.
Il pentimento si traduce in un temporeggiare sotto la coperta di Linus del ventennale di Screamadelica, celebrato dal vivo e con una lussuosa ristampa. Tra le braccia della retromania la gang perde Robert Young – che lascerà questo mondo nel settembre 2014 – e Mani. In retrospettiva, le defezioni conteranno parecchio anche sotto il profilo artistico.
Nonostante ciò, la reazione “a pelle” è da primi della classe. Nel 2013 More Light sa ancora stupire offrendo ipotesi di Rolling Stones in jam con Sun Ra e Duke Ellington, funk al silicio, crash ballardiani tra Psychedelic Furs e Hawkwind e diverse altre intriganti diavolerie. Fosse stato un addio, sarebbe stato perfetto. Sfoggiando il loro tipico squilibrato rigore, invece, di lì a tre anni i Primal Scream toccano il fondo con il synth pop sciatto e senza nerbo di Chaosmosis.
Da allora soltanto segnali poco beneauguranti da chi ha ripescato dall’archivio le session perdute di Give out but Don’t Give up e tappato un altro buco con una pleonastica antologia. Impossibile stabilire se si tratti dell’ennesima pausa rigenerativa o di un’autocelebrazione che preannuncia i saluti definitivi. Per quanto pazzi, questi cavalli sono di razza (im)pura e non bisogna mai abbassare la guardia.
Bobby, Andy: vi andrebbe di stupirci un’ultima volta?
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