Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sulla depravazione e non avete mai osato chiedere.
Se “apocalittico” è uno dei primi e più appropriati aggettivi da associare alla musica dei Pogues e alle liriche di Shane MacGowan, in questo caso lo è doppiamente. E viene pure da chiedersi: «How does it feel / To be without a home / Like a complete unknown?» All’inno beat di Dylan, questo poeta disgraziato nato in seno a Londra e adottato di ritorno dai suoni materni dell’Irlanda contrappone una storia, ancora una volta bukowskiana, di perdizione nella grande città. «When I first came to London I was only sixteen / With a fiver in my pocket and my old dancing bag / I went down to the Dilly to check out the scene / And I soon ended up on the old main drag».
Non manca niente: dipendenza da sostanze di tutti i tipi, anche rimediate (viene fatta menzione del tuinol o tuinal, un composto di due barbiturici molto di moda negli anni del punk), prostituzione, risse, pestaggi da parte degli sbirri, vagabondaggio e accattonaggio. Come in una discesa nelle malebolge, Shane è un po’ Virgilio, un po’ Dante, e un po’ uno qualunque dei dannati. Perché se già la drammatica situazione degli homeless a Londra durante il thatcherismo era stata descritta da altri, e poi da altri ancora, con tono di pietà caritatevole e romantica, il nostro qui non si fa problemi a entrare – descrivendola con crudezza e verismo – dentro una realtà che aveva probabilmente vissuto in prima persona, almeno in parte, e almeno a giudicare da come ne è uscito.
Un’ultima nota: avete mai letto Fame di Knut Hamsun? Provate a farlo ascoltado i bassi prepotenti della fisarmonica di James Fearnley – poi mi dite.