Alla ricerca di certi occhi perduti, con l’ausilio di un paio di birre.
Da Rum, Sodomy & the Lash, ecco una ballata per due paia di occhi nocciola, scaciata nell’apparenza ma finemente costruita come tutta l’opera di Shane MacGowan.
Sostenuti dal suono inconfondibile dei compagni, i versi si dipanano in un racconto irresistibile. È l’incontro di due uomini: il primo è un giovanotto lasciato dalla ragazza, perseguitato, nelle sue notti innaffiate dall’alcol, dall’immagine e dal colore dei suoi occhi, e per niente aiutato dall’ambiente circostante (un vecchio sbandato che intona Where the Water Lilies Grow, Johnny Cash – cantore per eccellenza dell’amore depresso e senza speranze – e Ray & Philomena che si diffondono da un juke-box); l’altro, invece, è il classico «vecchio bastardo che al bar insiste per raccontarti la sua storia», anche se il ragazzo è ovviamente troppo preso dalle sue pene per starlo a sentire. Nel caso del secondo, gli occhi marroni sono quelli del soldato nemico ucciso, che rivede nei suoi incubi, ormai però metabolizzati abbastanza da impartire a giovani sconosciuti lezioni sulla sofferenza e sul mettere le cose in prospettiva.
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Inutile dire che la scena madre si svolge in un pub, oliata presumibilmente da una quantità mostruosa di pinte di Guinness. Anche se alla fine il ragazzo, sconsolato e molto poco lucido, trova rifugio fuori, all’aperto, e ha l’occasione di farsi una bella chiacchierata con i muri e di trovare un po’ di sollievo nella brezza della sera – portatrice di «sounds of long ago» – e nel canto degli uccellini, elementi che sembrano essere spesso puri e curativi nei versi trasandati di Shane.
A margine: poco prima di Rum, Sodomy & the Lash, era uscita Vive la Quinte Brigada di Christy Moore, che ha sicuramente procurato più di uno spunto per The Sick Bed of Cuchulainn. L’altro veterano del folk, amico e compagno di sbronze di Shane da sempre, ricambierà così (ma anche così e così).