Che la terra d’Irlanda susciti un fascino trasversale non c’è bisogno di dirlo. Nella sua enunciazione più superficiale, anche a fronte di tutto un immaginario incollato un po’ a forza: fate, folletti, quadrifogli, magie, evocazioni pseudomedievali o fantasy – in cui puntualmente viene usata musica scritta nel diciottesimo-diciannovesimo secolo – e la poco corretta etichetta di musica celtica.
C’è poi una frangia tutta particolare, che in linea di massima schifa tutte queste cose, che ascolta i Clash, i Sex Pistols e i Social Distortion e che è più incline a look appariscenti, fiumi di birra scadente, vita da strada e vicoli di periferia. Qual è lo snodo che collega il mondo del punk a quello dei leprecauni che occhieggiano da tutte le cartoline per turisti?
La risposta, se siete su questa pagina, probabilmente la sapete già: i Pogues, band che dire unica sarebbe farle un torto – anche se non sono mancati gli emuli – e che trova il crocevia delle due dimensioni nella figura peterpanica e istrionica di Shane MacGowan, ovvero il figlio mai nato di un incrocio sperimentale tra un ragazzotto con la coppola grigia di fine Ottocento e un punkettone londinese del ‘77 con tanto di chiodo e cresta.
Facile lasciarsi irretire dall’immagine piratesca di questo animale da palco e, soprattutto, da bancone. Meno immediato capirne la grandezza letteraria. Sì, perché la tesi di fondo è questa: Shane è un cazzo di poeta, erede ideale di Yeats, Joyce, Beckett, Shaw e Brendan Behan. E se non ci credete, eccovi dieci pezzi che lo dimostrano.