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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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... Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Black Market Music: i Placebo in equilibrio su una supernova

L'apice prima del collasso.

Per una manciata di anni i Placebo sono stati sulla rampa di lancio che era pronta a mandarli nella galassia dello stardom mondiale. Black Market Music – a posteriori il più odiato da Brian Molko – era la navicella designata al viaggio interplanetario, benedetta anche dal Major Tom. Peccato che poco dopo la partenza ci siano stati dei problemi, Ground Control ha smesso di comunicare lasciando l’equipaggio in balia del cosmo e le ultime frontiere non sono state mai raggiunte. Ciò che resta è una storia emozionante e degna di essere (ri)scoperta, un diamante nero che continua a brillare di luce propria e che dopo vent’anni non smette di appassionare e far discutere.

L'inizio del millennio

Il 2000 è l’anno che non sarebbe dovuto esistere. Perlomeno così se la raccontavano in molti. Il mondo doveva finire, «mille e non più mille» diceva un certo Nostradamus. E qualcuno ci aveva creduto sul serio, vedi Valor dei Christian Death che arrivò ad autoesiliarsi a fine ‘99 dopo un tour di addio (oggi si è ripreso e sta lavorando a un disco nuovo).

A un livello meno mistico il panico diffuso era quello tecnologico: il millenium bug avrebbe bloccato tutti i computer del mondo mandando all’aria la società occidentale. Ma anche lì le cose non sono andate come previsto.

Per qualcuno il millenium bug fu anche un'opportunità.

La verità inconfutabile invece è che l’industria dello spettacolo cominciava a vacillare: dopo anni di dominio incontrastato appariva lo spettro lungo di internet e del file sharing, che di fatto per gli appassionati azzerava i costi di fruizione di film, musica, videoclip a discapito delle major e di conseguenza degli artisti stessi. Qualcuno provò ad alzare la voce, ma come spesso accade fu frainteso, deriso e messo alla gogna (il nanetto dietro le pelli dei Metallica non aveva completamente torto riguardo Napster, perlomeno a livello concettuale – il tempo probabilmente gli ha dato ragione).

Insomma i ‘90 erano finiti, e con loro anche l’hangover lungo post-grunge che ne aveva annebbiato la seconda parte, il britpop agli sgoccioli, il neonato trip hop che – come il nu metal – già cominciava a puzzare di vecchio e una società pre-11 settembre immersa nel limbo pionieristicamente anarchico che ha contraddistinto il passaggio dalla vita analogica a quella connessa in rete 24/7.

Poi a un certo punto l'hanno anche buttata sul ridere, eh.

2000, quindi. Un anno tra caos ed innovazione: Mentre in Italia il caso dell’omicidio della suora teneva le famiglie incollate alla televisione e ai giornali, la Chiesa festeggia il grande giubileo e divulga il terzo segreto di Fatima. In Finlandia viene eletta la prima presidente donna mentre in Russia e America prendono rispettivamente il comando Putin e Bush Jr. La Ferrari vince con Schumacher il mondiale di Formula 1, viene stampata l’ultima banconota da cinquemila lire, muore Charles Schulz (e con lui i Peanuts) e i ragazzini si fondono le sinapsi davanti alla PlayStation 2, prima di andare a ingolfarsi di BiscoPazzi al cinema guardando Il Gladiatore, X-Men e Mission Impossible 2. Bon Jovi spopola con It’s My Life, Tonino Carotone dichiara che è un mondo difficile ma gli U2 non sono daccordo, Britney Spears confessa di averlo fatto ancora e i Subsonica ammettono i propri errori.

In mezzo a tutto questo i Placebo pubblicano il loro terzo album.

Un passo indietro

1998 – i concerti più attesi dal popolo alternativo italiano: in estate dopo due anni di assenza tornano i Cure nella prestigiosa location di Villa Erba a Cernobbio per un live memorabile insieme a Marlene Kuntz (la coda del tour de Il vile), le meteore Cornershop e gli Estra. In autunno la (prima) reunion dei Bauhaus all’Alcatraz di Milano, Marilyn Manson (che, ucciso l’Anticristo Superstar tornava nelle vesti di Omega, creatura aliena e androgina) con il Mechanical Animals Tour e la prima data da headliner dei Placebo dopo i due concerti di supporto a Bowie e Sonoria nel 1996.

A prescindere dalla capienza, molte facce presenti a questi eventi sono le medesime. Pochi mesi dopo, all’Heineken Jammin’ Festival ‘99 di Imola, insieme agli esordienti Verdena, i Bluvertigo di un Morgan pre-talent e i Creatures fronteggiati dalla regina della notte Siouxsie Sioux affiancata da Budgie, si sta svolgendo un passaggio del testimone: da una parte i Blur sull’orlo della crisi e le Hole ormai in dirittura d’arrivo, dall’altra i Placebo in ascesa irrefrenabile e il Manson di cui sopra, già in cima al mondo. Anche qui, stessa gente, più o meno. Eppure…

Alcuni giornalisti sono davvero pigri, e appena uno stronzo tira fuori la storia del goth, tutti dicono «Goth!». Come puoi vedere sto indossando dello smalto per le unghie argentato, non nero. Ho smesso di mettere quello nero per quel motivo, bastardi! Hanno un tale controllo su di me quegli stronzi! Non sento nulla di goth nella nostra musica, non vedo similitudini tra noi e i Mission, o i Sisters of Mercy del cazzo o – Dio lo vieti – quelle merde dei Fields of the Nephilim. (Brian Molko, 1998)
Due anni che sembrano venti.

Due passi indietro

Nati nel 1994 dalle ceneri degli Ashtray Heart, dopo un demo, un singolo per la Sub Pop e una manciata di concerti al fulmicotone, i Placebo vengono messi sotto contratto dalla Hut, sussidiaria della Virgin. Si fanno subito un nome, forti di un omonimo primo album eccezionale, fatto di pezzi orecchiabili ma intelligenti, con testi tipicamente tossico/adolescenziali e un’immagine ambigua e attraente che giocava con la sessualità androgina mutuata da un certo glam anni ‘70.

Beata gioventù.

Il power trio formato da Brian Molko, (chitarra, voce e pianoforte), Stefan Olsdal (basso, tastiere e chitarra) e il nuovo acquisto Steve Hewitt (batteria), con il secondo lavoro Without You I’m Nothing raggiunge una popolarità su larga scala, grazie a un singolo incredibile e una serie di canzoni che nel bene e nel male finiranno per segnare un’epoca, suonate in un tour di successo nei club e nei maggiori festival europei (compresa la sopracitata data al defunto Rolling Stone di Milano, con i validissimi Six By Seven di supporto e una Evil Dildo finale che ha fatto venire giù il quartiere).

Come successo ai Bauhaus il decennio precedente, David Bowie se ne innamora e dopo esserseli portati in tour un paio di anni prima, regala la sua voce alla rilettura della title-track. In più esce il film ispirato alla vita di Ziggy, Velvet Goldmine, dove i Placebo interpretano i T. Rex di Marc Bolan. Tornano di prepotenza i boa di struzzo, venduti anche alle fiere di paese, da abbinare a rossetto lucido, eyeliner sbavato, glitter e smalto laccato steso a caso su unghie smangiucchiate.

Tutto veramente molto glam.

Eccoci ai nastri di partenza

È in sella a questo ottovolante – con il cervello continuamente in up and down, dato lo stile di vita poco salubre, unito al continuo contrasto tra successo e aspettative – che i Nostri arrivano a registrare il loro terzo album.

Già da subito la situazione è caotica, con la band in preda alle paranoie personali di Molko – sempre più assuefatto dal mix fama/stupefacenti – e una band che cerca in tutti i modi di stargli dietro. Ne risulta una gestazione travagliata, portata avanti a fatica alternando tre studi londinesi (gli Olympic, i Townhouse e i Moody Studios), dove le splendide composizioni ancora solo abbozzate rischiano di perdersi nel caos fuori fuoco in cui la band si trova.

A mettere una pezza al tutto le mani di Dare Mason e soprattutto l’abilità di Paul Corkett (produttore veterano che si era fatto le ossa già negli ‘80 come ingegnere del suono di Chameleons, X-Mal Deutschland e altri), che – dopo aver terminato le estenuanti registrazioni di Bloodflowers dei Cure ed essere sopravvissuto a un Robert Smith continuamente scontento che gli modificava quotidianamente le richieste – si ritrova a far da fratello maggiore ai i tre sbandati e può finalmente dar libero sfogo alle sue capacità.

Paul Corkett alle prese con qualche scelta decisiva.

Grazie al suo lavoro incredibile dietro al banco, Black Market Music è un disco che suona divinamente, con un’attenzione estrema per la spazialità dei suoni, un mixing letale e una cura dei dettagli che a distanza di anni continua a regalare sorprese.

Tracklist

L’apertura è per Taste in Men, con il mantra «come back to me awhile» esplicitamente rubato da Catholic Block dei Sonic Youth e il famigerato sampler terribilmente identico all’incipit di Let There Be more Light dei Pink Floyd, loop portante di tutto il pezzo che ha fatto discutere per vent’anni gli appassionati (per coloro che ancora hanno dei dubbi sulla veridicità o meno del “furto” non accreditato, accelerare la parte di basso incriminata di Waters e mandarla al contrario dovrebbe chiarire ogni cosa).

«It's been this way since Christmas Day / Dazzled, doused in gin / Change your taste in men / Come back to me awhile / Change your style again / I'm killing time on Valentine's / Waiting for the day to end».

Già dalle prime battute si capisce che il mood è cambiato: siamo immersi in uno scenario noir, morboso, vizioso che ha poco a che fare con i sentimenti. Brian (doppiato dalla splendida Severe Loren) canta di sesso occasionale come alternativa – o compendio – alle dipendenze, che viene ricercato nuovamente nei momenti di noia, manipolando e giocando con la vittima di turno. Incredibile qui la mano di Corkett, che in mezzo a un tifone di feedback provenienti da ogni direzione fa esplodere il basso asciutto, distorto e senza riverberi, al centro del brano: da lì in poi sarà l’unico punto di appoggio per gli altri strumenti che a briglie sciolte disegneranno quadri apocalittici come bandiere strappate sottomesse da una tempesta elettrica.

«Days before you came / Freezing cold and empty / Towns that change their name / And a horn of plenty / Days before you came / Counting breaths inside me / Even crack cocaine / Couldn't start to hide me».

Il mood dell’opener si scontra con lo schiaffo in faccia nevrotico di Days before You Came, dove a chitarre spianate con sezione ritmica assassina viene cantata la dipendenza da eroina, paragonandola a una storia d’amore che può solo essere una spirale discendente.

«I'll describe the way I feel / Weeping wounds that never heal / Can this saviour be for real? / Or are you just my seventh seal? / No hesitation, no delay / You come on just like special K / Just like I swallowed half my stash / I never ever want to crash».
Questa non è una canzone su dei cazzo di cereali!

Tra i vari rapporti conflittuali di Molko c’è anche quello che ha anche con la ketamina – altro fardello di moda, soprattutto in quegli anni – citato esplicitamente nel titolo. Il gioco del testo è sempre quello: storia d’amore o dipendenza, con un utilizzo di termini chiave che funzionano sia per il loro significato sia per la loro musicalità. Impossibile resistere allo stacco centrale che esplode poi nel vero ritornello nascosto del brano, quel «Gravity…» (che era anche uno dei titoli provvisori dell’album, assieme a Passive Aggressive e Death Valley 99) da urlare a squarciagola ai concerti lasciandosi andare dentro gironi danteschi. Un vero e proprio (anti)anthem che di fatto rimane uno dei singoli più azzeccati dalla band, nonché la seconda – e ultima – collaborazione con Severe Loren.

«Jack loves his tragedy, Queen her desires / You look well suited like you came to win / Lust, spite and malice, your degrees of sin / Wrap me in your trauma and I may just give you mine / Queen take your chances / Ace take your time».

Spite & Malice (un gioco d’azzardo) nasce inizialmente come una canzone contro l’omofobia, ma prende ben presto una piega diversa, ispirata dai May Day Riots, con tanto di motto del movimento della Pantera bianca. Il brano vede la collaborazione del rapper Justin Warfield degli One Inch Punch e musicalmente è una risposta a tutta quella scena nu metal che – trainata dal successo dei Limp Bizkit – all’epoca stava facendo faville. Inaspettatamente l’esperimento riesce alla perfezione, grazie soprattutto al dialogo equilibrato tra il cantato sofferto di Molko e il flow di Warfield, che insieme disegnano una storia intrecciata e sofferta in odore di monito tra gay, etero e “bi”. Incredibile il lavoro di Stefan al basso – mai come in questo caso vero e proprio Adam Clayton in nero – che con poche ma efficaci note riesce a creare cambi d’atmosfera e di tono letali. Riproposta dal vivo solo in un’occasione, rimane uno dei pezzi più atipici (e ben riusciti) della discografia dei Placebo.

«It's in your reach / Concentrate / If you deny this / Then it's your fault / That god's in crisis / He's over / Every time I rise I see you falling / Can you find me space inside your bleeding heart / It falls apart».

Passive Aggressive è il primo gancio verso i “vecchi” Placebo (perlomeno musicalmente) con una parte melodica e calda che – fermandosi in sospeso quasi in attesa – sfocia in una catarsi distorta che è un grido di dolore. La storia è simile, due persone innamorate che non riescono a sorreggersi come vorrebbero. Due tossici che stanno cercando di ripulirsi ma uno è più debole dell’altro. Due innamorati che lottano contro la malattia mentale di uno, che cerca di sollevare l’altro ma poi soccombe. Un senso di sconfitta sottolineato da quel cuore insanguinato che alla fine va in pezzi. Il less is more è sempre stato parte integrante del modo di scrivere di Molko (ricordate la splendida Bionic che con «harder, faster, forever after, none of you can make the grade» raccontava molto di più che un trattato sociologico?) e raggiunge qui un apice grazie all’unione tra parole, musica e silenzi. Memorabile, da tuffo al cuore.

«I was never faithful / And I was never one to trust / Borderline and schizo / And guaranteed to cause a fuss / I was never loyal / Except to my own pleasure zone / I'm forever black-eyed / A product of a broken home, broken home».

Black-Eyed odora ancora dei Placebo che furono: sia il testo (che tratta problemi di bipolarità, schizofrenia e personalità borderline) sia la musica sembrano davvero qualcosa di avanzato dalle session del disco precedente e – nonostante sia stata scelta come quarto singolo e abbia aperto tutti i concerti della prima leg – è forse uno dei due brani meno rappresentativi del disco.

«I read a book about the self / Said I should get expensive help / Go fix my head / Create some wealth / Put my neurosis on the shelf / But I don't care for myself».

L’altro brano minore è Blue American, che – al netto di un gioco di parole efficace nel titolo (“blue” si tradurrebbe con “triste”, ma in realtà fa riferimento al colore del Prozac, del Viagra e del Valium, a indicare una nazione dopata a norma di legge) – rimane una ballata che fa a gara con The Crawl in quanto a essere stucchevole e in qualche modo fine a se stessa (la classica frecciatina alla madre, seppur nascosta dalle parole dolci, è venuta bene solo a Lennon, Waters e pochi altri).

«Run away from all your boredom / Run away from all your whoredom and wave / Your worries, and cares, goodbye / All it takes is one decision / A lot of guts, a little vision to wave / Your worries, and cares goodbye».

Con Slave to the Wage invece torniamo su livelli altissimi. Sampler (stavolta accreditato) di Texas Never Whispers dei Pavement, Molko al Fender VI, tempo dritto alla You Don’t Care about Us, testo di condanna verso un certo stile di vita che «è una corsa per topi verso la morte», ovvero l’aspirazione massima di un posto fisso «dalle 9 alle 5», dove viene anche scomodata la famosa Maggie di Bob Dylan che «è una stronza con le braccia a pezzi». Una vita che è «labirinto per cavie», dalla quale è meglio fuggire il prima possibile. Niente tossici o travestiti stavolta: Molko parla della quotidianità dei più e avvia una vena lirica che man mano prenderà il sopravvento nelle sue composizioni in maniera spesso – ma non sempre – più che convincente.

«Sleep may be the enemy / But so's another line / It's a remedy / You should take more time / You're the one who's always choking trojan / You're the one who's always bruised and broken / Drunk on immorality / Valium and cherry wine / Coke and ecstasy / You're gonna blow your mind».

Commercial for Levi è un divertissement con Olsdad al Fender VI accompagnato solo da batteria e xilofono dove Brian canta un episodio accaduto due anni prima a Milano. A poco era servito l’aver visitato nel pomeriggio l’associazione Alma Matters (amicizia che dura tutt’ora e che ha permesso a Walter Zanca, fondatore e docente, di esibirsi come opener nella data milanese del 2016 al Forum di Assago, in sostituzione dei Joy Formidable che avevano dovuto annullare lo show all’ultimo per problemi con il van). Prima del concerto al Rolling Stone, il leader della band – in stato visibilmente alterato da sostanze lecite e non – decide di uscire dal ristorante dove stava cenando di fronte al locale, nei pressi di una strada trafficata. Dopo essere saltato sul tettuccio di una Fiat Punto cantando Nancy Boy per i ragazzi in fila all’entrata, il tecnico del suono e tour manager (Levi Tecofski) lo tira giù di peso prima che il proprietario – appena giunto sul posto – si incazzi sul serio. Brian allora decide di attraversare la strada all’improvviso per raggiungere il suo pubblico, e per fortuna che il sempre attento Levi lo riprende per un braccio strattonandolo dietro, perché proprio in quel momento sta passando un auto a velocità sostenuta che avrebbe potuto mettere le ali vere al corpicino efebo di Brian. La paternale sul darsi una regolata subita dall’amico è riportata nel testo, ma suona un po’ come una presa in giro giovanile. Una filastrocca da Peter Pan: in pratica un omaggio che sta un po’ a significare «sono un idiota, so che hai ragione, ma sono anche troppo cazzaro per ammetterlo».

«I was filled with incoherence / Theories of conspiracy / The whole world wants my disappearance / I'll go fighting nail and teeth / You've never seen such perseverance / Gonna make you scared of me / Cause haemoglobin is the key / To a healthy heart beat».

Una delle vette dell’album e della discografia tutta della band inglese è la apparentemente semplice Haemoglobin. Musicalmente si posa su due note sulla quale vengono costruiti strati e strati di chitarre e distorsioni in un crescendo emotivo lancinante, guidati dai colpi di Howett e la voce straziata di Molko. Grandissimo lavoro in sede di mixaggio e mastering (tutte le tracce “seppellite” nel mix esplodono letteralmente in cuffia) per un pezzo che è una gemma nascosta di tutto il rock dei primi Zero. Il testo nasce come tributo a Strange Fruit di Billie Holliday e gioca in maniera efficace con l’argomento del razzismo, raccontando in prima persona ciò che accade a un afroamericano impiccato dal Ku Klux Klan. Ma è solo una faccia della medaglia: Brian forse sta usando questo grido di denuncia anche contro se stesso, dato che parte delle parole potrebbe rimandare a un arresto cardiaco in seguito a un’overdose. Comunque la si voglia leggere, l’interpretazione, il pathos e il crescendo sonoro rendono il tutto incredibilmente coinvolgente.

«It seemed a place for us to dream / You'd better keep it in check / Or you'll end up a wreck / And you'll never wake up»

Narcoleptic prosegue la tradizione delle ballate sognanti e malinconiche alla Ask for Answers: liquida e rarefatta, con un cantato a mezza voce che dolcemente – ma in maniera sofferta – annuncia la fine di un amore, sia verso qualcuno che verso qualcosa. Non c’è rabbia, né risentimento. Solo affetto – ma non amore – e svegliarsi dal sogno di una vita insieme (o dipendente l’uno dall’altro, appunto), è la cosa giusta da fare per non arrivare a uccidersi. La band è coesa, con un Molko alla chitarra che ha imparato bene la lezione da un certo tipo di wave tra Smiths e And also the Trees, riuscendo a essere sempre preciso e mai invasivo.

«I'm just a peeping tom / On my own for far too long / Problems with the booze / Nothing left to lose / I'm weightless, I'm bare / I'm faithless, I'm scared».

L’atmosfera liquida e sognante si mantiene anche per la definitiva Peeping Tom, dove per la prima volta davvero Brian mette a nudo le sue paure e le sue fragilità. Una prima apertura che avrà sempre maggiore importanza nelle liriche a venire. Il voyeur a cui fa riferimento è infatti proprio lui stesso, inteso come essere fragile e incapace di prendere decisioni e assumersi responsabilità. Per esteso, di crearsi una vita propria reale. La dipendenza da sostanze illegali o il dover essere sempre qualcosa di più o di meglio crea degli alter ego che devono essere nutriti e che vengono esposti al pubblico prendendo il posto della persona che li ha generati. Ma quando l’individuo dismette quei costumi, è esposto al mondo in tutta la sua fragilità. E per paura, si nasconde. Un po’ come fanno oggi molti personaggi da tastiera, vere e proprie tigri dietro a un pc ma completamente inermi faccia a faccia. In questi casi – sia che siano presenti, in aggiunta, problemi di alcol e droga o meno – la necessità di una qualche dipendenza prende comunque il sopravvento, ed è lì che nella vita reale si creano rapporti nocivi e malsani, dove l’altro viene idealizzato erroneamente come unica salvezza per poi diventare, al primo fallimento personale, il capro espiatorio dei propri problemi.

«There's a place within her mind / With rains already falling / She's insane, this friend of mine / And she's always bawling / Hear her calling».

Chiude il disco la splendida traccia nascosta, tradizione che verrà di qui in poi interrotta (quasi a sottolineare come Black Market Music sia la chiusura di un ciclo ben definito). Black Market Blood è il pezzo più intimista e oscuro del disco, accompagnato da una sezione d’archi che odora di Björk e da un testo arrendevole come non mai.

Bonus Tracks

Le B-sides hanno sempre ricoperto un ruolo importante nei primi dischi dei Placebo, e anche stavolta come retro dei singoli abbiamo dei piccoli capolavori. Little Mo (un cut-up alla Burroughs/Bowie su base in aria Radiohead), Leni (un omaggio forse involontario ma bellissimo a Slowdive e My Bloody Valentine con un testo di pura poesia BDSM), Bubblegun (il pezzo più americano mai scritto da Molko fino a quel momento, con tanto di testo da rockstar tossica in un momento di lucida autocritica che viene poi annullata dalle solite vecchie pulsioni), Dub Psychosis (uno strumentale electro rock dove il titolo dice tutto) e Theme from Funky Reverend (utilizzata come intro nella prima parte del tour) sono le cinque punte di una stella splendente che per inventiva e idee sarebbe potuta essere la base consistente sulla quale i Placebo avrebbero dovuto costruire l’album successivo.

Il piacere del collezionismo.

Addirittura se queste canzoni avessero trovato posto in Black Market Music (magari sostituendo i brani che più ricordano l’era WYIN) lo avrebbero trasformato in qualcosa di ancor più innovativo e coraggioso, sicuramente più ostico da ascoltare per il popolo “pop”, ma capace di rendere pubblico (e non relegato nei lati B) il lato più squisitamente sperimentale della band. I vari remix possono piacere o meno ma quei cinque pezzi meritano sicuramente un ascolto più approfondito.

Le due cover dell’epoca invece (I Feel You dei Depeche Mode – uscita originariamente nel 1999 solo su cassetta per il fan club – e Johnny & Mary di Robert Palmer) sono forse le meno riuscite fino a quel momento.

La copertina

L’album viene pubblicato in tutto il mondo il 9 ottobre 2000. Dedicato a Scott Piering, morto di cancro pochi mesi prima, è avvolto da una splendida copertina a opera di Kevin Westenberg.

A suo tempo c'è chi l'ha scambiato per un pettine, chi per un residuato della rivoluzione industriale. E invece…

Il gioco dei contrasti sta anche lì: se il fronte è un dettaglio di un carillon del 1700 –arrugginito eppure così “vivo” e affascinante – all’interno siamo catapultati nel presente, con schede e circuiti che nonostante il rosso sangue in cui sono immerse sanno di inanimato.

Il passaggio dall’analogico al digitale, nonché la trasformazione – e soprattutto il crollo – del mercato discografico alle porte (il riferimento anche nel titolo è al P2P – veicolo per il “mercato nero della musica”) viene ulteriormente sottolineato con una foto di gruppo in cui troviamo i tre bellocci davanti a uno sfondo che non può non ricordare una rilettura sarcastica degli screensaver Windows, veri surrogati (e in breve tempo sostituti) del totem che aveva inchiodato le generazioni precedenti sul divano: la TV.

I Placebo sono coscienti di vivere in una fase di cambiamento radicale e la loro sottile rappresentazione grafica di quel preciso momento storico non fa altro che accrescere il valore intrinseco di un album già di per sé eccellente.

Trattamento Photoshop antirughe per tutti!

Il collasso

Terminate le registrazioni dell’album riparte il circo promozionale, tra tour, festival e comparsate televisive. Dopo un avvio di slancio le cose cominciano a prendere una piega diversa, non tanto per la resa musicale in sé, ma per l’atmosfera pesante creata dai colpi di testa di Brian. La parte glamour viene sostituita dalla spocchia e per molti fan della prima ora il gioco comincia a non valer più la candela.

Hangover perenne.

8 Novembre 2000, Milano. A San Siro il Milan ospita il Leeds per la Champions League. In città viene vietata la somministrazione di alcolici per paura di disordini a causa degli hooligans venuti in trasferta. All’ Alcatraz invece, durante il concerto sold out per promuovere Black Market Music, qualcuno (indovinate chi?) si lamenta del non poter bere, dichiarando odio verso il calcio, non prima di aver interrotto il concerto incazzato con uno del pubblico, reo di stare riprendendo con una telecamera.

Ma non erano le major – e non gli artisti – a odiare i bootlegs per una mera e puerile questione economica, dato che le registrazioni illegali dei concerti erano carissime e proprio per questo riservate a fan sfegatati, che già avevano speso tutto lo spendibile in prodotti ufficiali?

Il concerto sarà comunque bello, le ragazzine continueranno a urlare, ma in molti usciranno dal locale meneghino con qualche dubbio. Dubbio che verrà rafforzato da scene analoghe ripetutesi l’anno successivo nelle 4 date italiane (Napoli, Perugia – dove lasceranno il palco dopo 10 pezzi – Roma, Pordenone – con nuovi battibecchi con i fan che fanno foto).

In pratica, il rapporto con parte del pubblico di vecchia data viene a rompersi. Senza dimenticare la famigerata ospitata al festival di Sanremo, che scandalizzerà giusto i benpensanti, mentre il popolo di Brian sbadiglierà e poco più.

Poteva sembrare cool vent'anni fa, ma a riguardarla adesso è solo la dimostrazione di qualcuno che non ha capito perché sta lì e cosa deve fare, e invece che usare modi più efficaci ed eleganti per prendere in giro il pubblico inscena un "teatrino r'n'r" invero fuori luogo.

E pensare che poco prima sul palco dell’Ariston si era esibito nientepopodimeno che il “pericolosissimo” Eminem, preso di mira nei giorni precedenti addirittura dal Centro degli studi teologici di Milano tramite esposto della Procura di Sanremo. Motivo? Assicurarsi che il testo della prevista The Real Slim Shady non contenesse termini impropri, inadatti al pubblico della kermesse. Il risultato? Il brano aveva passato l’esame della censura, Eminem era salito sul palco senza troppe scene, infilando nel pezzo spezzoni di I’m Back e Purple Hills, zeppi di frasi davvero pesanti, e mostrando il medio alla platea mentre rappava e ballava. Il tutto con una scioltezza e furbizia tale che nessuno sul momento se ne accorgerà: applausi a non finire e la Raffa nazionale che addirittura lo richiama sul palco per ringraziarlo. Il giorno dopo lui sarà un idolo furbo che aveva fatto incazzare Arcigay, ministri e presidenti della vigilanza e i sanremesi dei polli che si erano fatti infinocchiare, mentre i Placebo solo degli sciocchi che avevano fatto un po’ di scena.

Vista da un altro lato, potremmo dire che Brian non era stato altrettanto scaltro, ma semplicemente se stesso: un uomo pieno di talento il cui ego lo ha spesse volte sopraffatto, scavalcando il limite sottile che separa l’ambizione dall’inaffidabilità. E proprio questo ci porta al punto fondamentale: ciò che era stato il propellente che aveva permesso alla band di emergere, si stava trasformando nel liquido infiammabile che di lì a poco avrebbe fatto poco altro che terra bruciata intorno a lei.

Col senno di poi, forse proprio questa mancanza di equilibrio ha compromesso il salto definitivo della band, che – va sottolineato – nel 2000 era in compagnia di Muse e Coldplay a livello di popolarità per quanto riguardava il rock alternativo inglese ed europeo. A distanza di tempo è palese che qualcuno ce l’ha fatta e qualcuno no, ed è davvero un peccato. Per questo Black Market Music – a modo suo – è un testamento: il suono di una stella glitterata in nero e sull’orlo dell’implosione, l’ultimo atto incredibilmente spettacolare – ma al contempo autodistruttivo – del ciclo evolutivo di una band incredibile che da quel momento in poi inizierà a perdere lentamente i colpi.

I trucchi del mestiere.

Epilogo

In un’Europa che aveva vissuto il grunge solo per sentito dire, i Placebo sono stati sul finire dei ‘90 il fenomeno alternative rock che più di altri ha saputo incarnare un certo tipo di spleen generazionale, ereditando da Cure e Smiths il senso della poesia drammatica applicata al tossico del quotidiano di fine millennio, e infarcendola di chitarre iper-effettate sopra le quali l’inimitabile voce androgina e nasale di Molko ha cantato il disagio di esistere e di crescere cercando di sopravvivere a ciò che restava della generazione X. Erano la band giusta al momento giusto, i loro pezzi raccoglievano consensi sia da chi amava Radiohead o Nirvana, sia da chi aveva abbracciato le nuove sonorità elettroniche di Bristol, sia ancora da chi era un nostalgico ancorato al passato con i lettori CD che consumavano dischetti di Chameleons, Siouxsie o Joy Division.

Da quel punto di vista, Black Market Music è stato un apice che ha chiuso un ciclo: da lì in poi la band si è un po’ persa, tornando di tanto in tanto in pista con musica e testi sicuramente più adulti ma meno incisivi, a tratti quasi artificiali, utilizzando l’elettronica in maniera non sempre convincente, e andando a perdere parte dell’urgenza comunicativa che rendeva il power trio così efficace. Negli anni si sono susseguiti una serie di lavori che spaziano dal molto bello al dignitoso – mai un passo davvero falso, bisogna ammetterlo – ma dell’evoluzione sonora genuina che era stata il motore trainante dei loro esordi è ormai difficile trovare tracce.

Anche per questo Black Market Music è da conservare come una gemma: pur rimanendo uno dei loro album più discussi, riesce a mantenere il suo fascino, con una coerenza lineare impeccabile e un mood definito che lo rende unico – caratteristiche che lo fanno restare ben saldo sul podio assieme all’omonimo primo album e al successivo capolavoro Without You I’m Nothing. Un tris d’assi irripetibile che non ha avuto degni rivali in seguito, con buona pace di fantasmi, medicine, battaglie o amori vari.

Da (ri)scoprire. In cuffia. Ad alto, altissimo volume.

Placebo Brian Molko 

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