Non diteci che lo conoscete ancora solo per il Supercafone di 20 anni fa. O forse ditelo, perché a Piotta farà piacere stupirvi, mostrandovi la sua maturazione artistica e ribadendo il suo ruolo nella musica italiana odierna.
In un contesto giornalistico nel quale si fa a gara a chi pubblica per primo una notizia, ha i suoi vantaggi essere gli ultimi a fare richiesta per un’intervista che vada oltre gli scopi promozionali e tiri le somme dei lavori recenti e di quello che è successo (e potrà succedere) sul lungo termine.
Nel caso specifico, Piotta ha appena finito il suo tour estivo, e il suo ultimo disco (Interno 7) ha appena compiuto un anno di vita: è il momento perfetto, poco dopo il concerto alla Festa dell’Unità di Milano, per fare una chiacchierata prendendosi tutto il tempo che serve per approfondire qualche argomento e – nell’ottica di “music discovery” promossa da Humans vs Robots – farci consigliare una manciata di brani, ognuno buono per essere ascoltato in situazioni ben precise: nei momenti di malinconia, o magari d’estate, o piuttosto per caricarsi in vista di una qualche lotta politica.
Per chi avesse bisogno di un riassunto sulla vita di Piotta, al secolo Tommaso Zanello, lo si può definire un rapper eclettico, che alterna al microfono il ruolo di produttore, deejay, attore, sceneggiatore e giornalista. Interno 7 è il nono album di una carriera in cui ha collezionato un disco di platino (Comunque vada sarà un successo, 1999) e un disco d’oro (La mossa del giaguaro, 2000). Nel 2003 ha fondato l’etichetta indipendente La Grande Onda, con la quale ha ottenuto notevoli soddisfazioni sia a livello personale che contribuendo al lancio di nuovi artisti della scena hip-hop, fra i quali Jesto e Debbit.
E poi sì, a fine Novanta il mondo conosceva quasi esclusivamente uno soltato dei suoi alter ego, il Supercafone. Ma vent’anni dopo la maturazione artistica è evidente, con Interno 7 dedicato a esplorare le emozioni personali di un classe 1973 che ha saputo tenere la barra dritta in qualsiasi circostanza.
Hai chiuso il tour estivo a Milano, in un’occasione particolare come la Festa dell’Unità. Altri artisti non suonerebbero per paura di esporsi troppo, o proprio per disinteresse politico. Che senso ha per te la Festa dell’Unità, nel 2019?
Quando mi hanno proposto la possibilità di chiudere il tour a Milano, ho accettato con piacere perché con la capitale lombarda ho un forte legame musicale e umano. Non ho alcun problema a suonare a una Festa dell’Unità, avendoci già suonato in passato, ma anche avendola frequentata fin da piccolo, imparando ad ascoltare la musica degli altri, senza mai trovare ostacoli o censure quando mi sono esibito. Anzi, è solo un caso se questo mio tour è in realtà un po’ meno “politico” rispetto a quello di qualche anno fa – i sound sono meno aggressivi e i testi riflettono il percorso che mi ha portato a Interno 7, con un faro puntato più sul mio lato emotivo. Questo non vuol dire che ai concerti non ci siano osservazioni alla società di oggi, e una battuta su Matteo Salvini era impossibile non farla scappare, ma in generale con questo tour ho portato la mia musica in posti un po’ diversi dal solito.
Ti ho fatto questa domanda perchè mentre guardavo il video di Maledetti quegli anni 90, YouTube mi consigliava caldamente il tuo concerto a Roma il Primo Maggio 2004. Così alla fine ho cliccato ed è stata l’esibizione più di sinistra che mi possa ricordare – hai iniziato con Chi non lavora non fa l’amore, seguito da un ricordo a tua mamma che era stata con la CGIL 40 anni, poi un grido: “lavoro, lavoro”…
Fa una lieve differenza con l’aver visto Sfera Ebbasta su quel palco quest’anno, se posso ironizzare un po’. Ebbi l’onore e l’onere di aprire quel concerto, soprattutto dal lato televisivo: la PFM si esibì prima di me, ma era più un riscaldamento per il pubblico e un soundcheck, visto che poi suonarono in diretta TV più tardi. Quindi l’apertura fu tutta a carico mio e fu una bella responsabilità visto che era la mia prima volta… e davanti a tutte quelle persone.
Tu avresti mai immaginato 15 anni fa che le cose nel mondo sarebbero peggiorate, anzichè migliorare?
Ormai cambia tutto così velocemente che ad esempio non avrei mai potuto pronosticare, quando iniziai a far dischi, che il web avrebbe avuto questa predominanza sulla musica. Internet ha cambiato tutto, ed è difficile farlo capire a chi non ha vissuto questo cambiamento, a chi non conosce cosa c’era prima e cosa si faceva – ormai mi sembra di essere mia nonna, quando mi raccontava che da bambina non aveva la televisione, e io non riuscivo a immaginare cosa potessero fare loro la sera dopo mangiato…
Una cosa che ti ho visto fare nel video del 2004 – e che fai tuttora – è presentare tutti i brani quando ti esibisci dal vivo. Ti piace contestualizzare la tua musica, o ti piace semplicemente parlare sul palco?
Ci sono due scuole di pensiero: so che c’è chi preferisce lasciar parlare solo la musica, ma a me piace la radio, mi piace introdurre il brano, ricordando il momento in cui è nato, cosa me lo ha ispirato… Trovandomi a riassumere più di due decenni di carriera su un palco, voglio spiegare tutto il percorso di evoluzione artistica e personale che lega un brano vecchissimo a un nuovo, parlando dei miei vent’anni, trent’anni, quarant’anni – è quel che piacerebbe vedere a me, come spettatore di un concerto.
Per raccontare le varie canzoni di questo tour, hai trovato ispirazione nella scatola del trasloco di Interno 7, dalla quale hai tirato fuori ricordi fisici come cassette, vhs, vinili, libri. Ti hanno aiutato a comporre la scaletta di questi concerti?
Interno 7, come disco, nasce dopo aver dovuto svuotare la casa di famiglia, quella dove sono cresciuto. Durante il trasloco ho trovato molti oggetti che mi hanno riportato alla memoria certi momenti particolari. Quando è arrivato il momento di mettere insieme il tour ho iniziato a pensare ai brani da proporre e poi mi sono immaginato che sarebbe stato figo raccontare la mia storia attraverso oggetti simbolo di un certo momento particolare, tutta roba che avevo ritrovato durante il trasloco. Ecco quindi il walkman argentato della Sony, il mangiadischi arancione della Penny: oggetti che appena mostrati sanno inquadrare un periodo storico per chi l’ha vissuto. In questo modo penso di essere riuscito a far entrare le persone anche fisicamente nella mia vita: con Interno 7 mi racconto nudo e crudo, ma con questi oggetti condivido la mia storia.
In molti si sarebbero limitati a proiettare le foto su un megaschermo, ma la trovata di tenerli in mano e appoggiarli sul palco è decisamente un tocco “analogico” di classe.
Anche a livello scenografico abbiamo studiato questa idea di avere sul palco un po’ di scatoloni da trasloco, ma al centro c’è il mio scatolone, quello da cui tiro fuori a sorpresa i vari oggetti – parlo di “sorpresa” perché gli oggetti, e quindi le canzoni, variavano di sera in sera. Alcuni sono fissi, così come certe canzoni sono fisse in scaletta, ma certe cose che ho tirato fuori a Milano magari qualcuno un paio di sere prima non le ha viste e viceversa a Milano non avete visto qualche “cimelio” che mi sentivo più in vena di condividere in altre date.
Ti ho visto arrivare prima del concerto, stringendo al petto la scatola. C’è qualcosa che hai lasciato a casa perchè avevi paura che si rovinasse, portandolo in tour?
Quegli oggetti non li ho comprati per far scena, sono veramente i miei ricordi, quindi li porto con me quando arrivo al concerto, prima di salire sul palco, per evitare di perdermeli! Ho lasciato a casa tantissime cose, ma principalmente per motivi di spazio: ad esempio ho un registratore Sanyo a cui sono affezionato come al Sony (lo comprai durante un viaggio), ma era inutile portarmi due walkman in tour. Lo stesso per libri o vinili: mi sono costretto a trovare un pezzo-simbolo per ognuno, perché altrimenti mi sarei portato dietro tutta casa!
Dal vivo questa estate ti abbiamo anche visto sul palco con Jovanotti a Cerveteri: è bastata la classica telefonata fra amici, per quella ospitata che ci ha regalato Lorenzo che canta la barra “di corsa alla banca del seme: Robba Coatta”?
Sì, è nato tutto in amicizia e senza complicazioni: quando fu annunciato il tour, gli scrissi per complimentarmi per l’idea, e quando ho visto che la data di Cerveteri era di martedì e io non ero impegnato con il tour, gli ho detto che sarei stato presente. Dopo poco mi ha risposto chiedendomi se sarei voluto salire sul palco per una jam. Ho risposto «da paura» e mi sono presentato lì nel pomeriggio, senza dover provare nulla, se non l’ingresso con Supercafone. Tutto il resto – la jam e il freestyle – sono stati improvvisati: siamo andati avanti un quarto d’ora… pensavo di dover scendere dal palco, ma Lorenzo continuava a dirmi che non c’era problema! È stato interessante vedere che un concerto da 40.000 persone aveva solo una scaletta di massima, che poi veniva lasciata all’improvvisazione e in mano agli ospiti.
In Maledetti quegli anni 90, canti di quando «i vorrei sono meno di quelli di prima / e gli avrei voluto si mettono in fila», quindi la domanda si scrive da sola: cosa vorresti, ora? Che obiettivi hai?
Vorrei fare un nuovo album e ovviamente ci riuscirò. Ma non voglio limitarmi a “farlo”, voglio creare qualcosa che stupisca me stesso e chi mi ascolta. Come esempio prendo Battiato, che ogni volta che pubblicava un disco la gente si chiedeva cosa avrebbe fatto, come sarebbe stato diverso rispetto a prima.
E gli «avrei» invece? Forse sono irraggiungibili? C’è qualche rimpianto?
Gli «avrei» ormai sono veramente irraggiungibili, perché sono legati al desiderio di avere accanto a me qualcuno che purtroppo non c’è più – partendo da mia madre e da mio padre (la canzone al quale Maledetti quegli anni 90 è dedicata), ma anche amici come David, Primo Brown.
A livello molto più basso, posso chiederti se ti ha fatto rosicare il fatto che Noyz Narcos l’anno scorso abbia trovato il modo di inserire la voce di Gabriella Ferri in una canzone, anzichè averlo fatto tu?
No, sinceramente no. Il pezzo mi è piaciuto, non ho nessun problema con Noyz e ovviamente ho molta stima per il lavoro di Gabriella Ferri, la mia cantante romana preferita. Trovo importante che artisti come la Ferri, o Franco Califano, possano godere di una notorietà anche fra il pubblico più giovane.
Interno 7 è indubbiamente un disco di Piotta, ma hai mai pensato di presentare al mondo questo tuo lato introspettivo usando il nome di Tommaso Zanello, che potrebbe risultare meno carico di suggestioni o pregiudizi?
Io penso che esista questo disco che mette a nudo Tommaso solo perché oltre vent’anni fa nacque Piotta. È una naturale evoluzione: allora non avevo la capacità compositiva, canora, ma anche carismatica per gestire un disco in cui parlo in maniera vera dei miei sentimenti anche su un palco. A dirla tutta il disco è firmato “Tommaso Piotta”, anche perché mi ci ha mezzo costretto Spotify, quindi un segno di differenza c’è.
Insomma, non possiamo nasconderlo: nella testa di molti “Piotta” per sempre farà subito saltare in mente il Supercafone. Come vivi questa cosa?
In molti forse pensano che me la viva male, ma in realtà la vivo benissimo. In fondo stiamo parlando di idee che hanno in testa persone che non mi seguono, che hanno sentito un pezzo vent’anni fa e poi basta, mentre chi mi segue non si fa di questi problemi. C’è una terza via poi, quella dei giovani che ascoltano Supercafone perché la mette su lo zio o qualche parente, ma loro non hanno idea del fenomeno che fu all’epoca, la vivono come una canzone divertente, poi ascoltano qualcosa di più recente, magari la sigla di Suburra, e mi dicono che rimangono stupiti dal fatto che sia lo stesso artista. In ogni caso, mi aiuta a fare proseliti, non potrò mai lamentarmene. E poi mi piace che sia legata ai miei vent’anni, li rappresenta bene. L’importante è che poi ci sia un pezzo che rappresenta i miei trenta, i miei quaranta (che alla fine sono racchiusi in Interno 7), e in futuro anche i cinquanta…
Molti tuoi coetanei non seguono il consiglio «meglio il silenzio che un pezzo sulla Lambo», contenuto su Fa ‘na buona jobba…
Se quello è ciò che gli piace, a ogni età, bene per loro. Io mi accontento dei miei vinili.
Cosa vuol dire aver passato i 40 anni e seguire la cultura hip-hop in Italia?
È un gran lavoro, cercare di far capire che è una cultura molto variegata, con un menù molto ampio che va al di là della moda trap, ma si può mescolare al rock, alla dubstep, andando a cercare le radici “black” piuttosto che l’ego-trip. Bisognerebbe però mantenere un atteggiamento da zio, da fratello maggiore, senza fare il bacchettone integralista per il quale era tutto meglio prima. Ogni età trova il tipo di hip-hop che può rappresentarla.
Molti artisti italiani fanno tour all’estero, ma alla fin fine suonano per italiani emigrati. Tu sei stato in America, al Warped Tour nel 2008, davanti a un pubblico non tuo: cosa se ne faceva all’epoca un pubblico anglofono di un cantante hip-hop italiano?
Eravamo sette palchi e settanta band, ognuno faceva uno showcase di circa venti minuti, ma a volte c’erano grande curiosità e stupore. A Toronto ho trovato quasi esclusivamente italiani, magari di seconda generazione, mentre a Tokyo erano tutti giapponesi e avevano riempito il club dove stavo! Negli Stati Uniti del Sud c’era una forte presenza di ispanici sotto al palco, perché erano abituati alle sonorità latine che portavo. Andare all’estero per me resta magico, perché penso al fatto che mi abbiano chiamato a suonare così lontano da casa grazie alla musica che scrivo fin da quando ero sui banchi di scuola.»
Si dice che chi scrive un testo, lo rivolga sempre a un pubblico idealizzato. Tu per chi scrivi, oggi?
Mah, io scrivo solo per me stesso. Non vorrei sembrare poco generoso, ma è vero: io scrivo per me, sia per quel che riguarda la musica, sia per quel che riguarda i testi. Magari è anche un difetto, non voler cercare qualcosa che piaccia a un ampio pubblico, ma in realtà in molti si ritrovano in quello che racconto. Parlo di quel che sta intorno a me, ma ho una vita e un’età nella quale ci si può identificare.
Tutte le foto live a corredo dell’articolo sono state scattate da Paolo Bianco al concerto del 7 Settembre 2019.
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