La trap è uno dei fenomeni musicali “popolari” più eclatanti degli ultimi anni, Italia compresa – fra successi commerciali sorprendenti, cronaca nera (suo malgrado) e il freschissimo Sanremo vinto da Mahmood (la cui Soldi è prodotta da Charlie Charles, ovvero Paolo Monachetti da Settimo Milanese, il ras della trap italiana). Eppure la comprensione di questo sottogenere dell’hip hop è inversamente proporzionale all‘“hype” che lo circonda. Tranquilli, vi aiutiamo noi. E senza Auto-Tune.
Il 25 gennaio 2018 Rockstar di Sfera Ebbasta è entrato al primo posto della classifica italiana degli album più ascoltati (una volta si sarebbe detto “venduti”. Ma è un nuovo secolo). Di per sé, non è un’impresa tracotante; lui stesso, come altri giovani colleghi, ci era già riuscito con l’album precedente, che includeva il singolo Figli di Papà.
Ma in un anno Rockstar ha portato a Gionata Boschetti da Cinisello Balsamo (MI) quattro dischi di platino, facendone il ragazzo-copertina di Quella Trap Di Cui Tutti Parlano. La radio più nazionalpopolare del pianeta – RTL 102,5 – ha mandato a profusione il suo patatoso singolo Cupido, nonché il concerto integrale dal Fabrique di Milano (maggio 2018).
Con Rockstar, la trap è entrata nel mainstream. Scatenando un bailamme mediatico giocato sullo scontro tra generazioni, con vistose dichiarazioni di insofferenza per la old-school dell’hip hop (Malcolm McLaren avrebbe approvato), decine di articoli e post all’insegna del “se vi fa schifo è perché siete vecchi” (un modo sottile per saltare sul treno dei giovani – ma anche per non fare i critici musicali, che in realtà è noioso), ondate di indignazione e scherno per ragazzi gettati nel circuito del “virale” – soprattutto Young Signorino e la sua Mmh ha ha ha: ventisei milioni di visualizzazioni su YouTube, ma nessun reale successo commerciale.
Con la piena, sono arrivati anche numerosi articoli con infarinature storiche, dalle quali tutti o quasi hanno appreso gli elementi-base per arricchire la propria conversazione. Se vi serve un ripasso, sono:
Quando sentite che la melodia di sottofondo è ridotta all’osso, l’insieme è deliberatamente ipnotico e una voce che invece che sciorinare un flow tecnicamente impeccabile, lo spezza ritmicamente oppure canterella a metà tra il robot di OK Computer dei Radiohead e vostro cugino che parla coi rutti, molto probabilmente il brano ha influenze trappuse.
Ma attenzione, come nel rap (e come nel rock. Beato il pop, che non ha di questi problemi), c’è sempre da fare attenzione a sentenziare sui generi. La hit di Post Malone, Rockstar (un titolo che forse vi è familiare), è in odore di trap e non solo per la presenza di 21Savage. Ma non ditelo ad alta voce o si scatena il dibattito in Rete.
In ogni caso, per le conversazioni brevi, i cinque punti visti sopra bastano. Per conversazioni più lunghe, ecco qualcos’altro. Cominciamo da Atlanta, città di Via col Vento e della Coca-Cola, oggi perno del traffico di droga della East Coast (grazie anche a un aeroporto immenso).
Questo è un documentario in brevi puntate di Noisey Usa che spiega come i due business, spaccio e discografia, siano astutamente intrecciati. Non fate caso alla traduzione italiana cretinella (jail = “gabbio”, let’s go man = su, zio… e via così). Vi raccomandiamo la frase «When a rapper is rapping you should be able to smell the dope cooking» («Quando un rapper sta rappando dovresti essere in grado di annusare la roba», approssimativamente).
Atlanta è importante di per sé, ha una tradizione recente molto solida – da Jermaine Dupri agli Outkast – e fa anche da punta dell’iceberg di tante altre “scene” del sud degli Stati Uniti: il Texas di Travis Scott, la New Orleans di Lil Wayne, la Florida di XXXTentacion. Molti artisti non sono nativi di Atlanta, come (si è scoperto da poco) lo stesso 21Savage o Rich The Kid, ma si sono giovati della sua funzione di nuova mecca musicale, testimoniata anche dalla serie televisiva FX intitolata (toh!) Atlanta, creata da Donald Glover/Childish Gambino.
Vengono invece direttamente da Atlanta e dintorni georgiani T.I. (autoproclamatosi “King of the South”), Gucci Mane, Lil Yachty, J.I.D., Future, Young Thug – reso ricco dal featuring in Havana di Camila Cabello, che cita espressamente Atlanta – e una lista di altri che omettiamo per brevità.
Ma non omettiamo i Migos, piccola impresa familiare con cui tutti vogliono lavorare: Quavo, Takeoff e Offset, con il loro flow molto sincopato, i video con le immagini rallentate, l‘“immaginario Casamonica” e i brand dell’alta moda e delle macchine di lusso messi in bella evidenza (e deliziati dall’esserlo, vedi la megahit Versace), i loro “skrrr!” (fonema che dovrebbe indicare un’automobile che sgomma), hanno fissato più di tutti i canoni della trap. Quella che segue è Bad and Boujee, n.1 negli States nel 2017.
Ottocento milioni di visualizzazioni su YouTube per un’ode sincera al capitalismo che potrebbe esser stata scritta da Donald Trump, anche se naturalmente ci si può sforzare e vederci dell’ironia e della critica sociale – si può fare tutto, è un Paese libero e liberista.
Il produttore – o, se siete fighi, beatmaker – che ha valorizzato le caratteristiche sonore dei Migos a partire dal 2013 è l’atlantino Zaytoven. Un personaggio interessante: cristiano praticante, pianista, innamorato di soul e blues. Non nega che sia inutile cercare rivoluzioni nei testi che, come negli ultimi vent’anni di hip-hop, consistono soprattutto in rime su droga, Lamborghini, droga, “hoes” (se va bene, “bitches”), droga, vestiti firmati, droga, armi da fuoco, droga – e se rimane il tempo, droga.
Il suo manifesto musicale potrebbe essere questo brano del 2014, intitolato (toh!) Trap, che vede insieme gli altrettanto atlantici Rich The Kid e Gucci Mane.
In tutto questo, l’hip hop regnante, i legittimi ancorché un po’ affannati eredi della old-school, come si sono comportati? In generale, tentando di assimilare la nuova tendenza. Un esempio eclatante è Drake, che si è avvicinato ai Migos quando ancora non era la cosa ovvia da fare.
Si può discutere su HUMBLE. di Kendrick Lamar, ma tra 808 e “triplets” secchissime è difficile negare che stia quanto meno guardando nella stessa direzione dei trapper.
Quanto a Cardi B, ne ha addirittura sposato uno, Offset. E non trascuriamo il gran matto Kanye West, la cui Father Stretch My Hands è una sorta di giochino trap – per quanto possa esserlo un brano prodotto da Rick Rubin (personaggio lanciato da Jovanotti).
Del resto, anche il rock e il pop flirtano: per esempio Neil Young e i Gorillaz hanno chiamato a collaborare DRAM (nativo della Virginia). E anche l’establishment si sforza di apprezzare il nuovo verbo, come dimostra la candidatura a un Grammy per Broccoli di DRAM e Lil Yachty, il reuccio della bubblegum trap, quella più giocherellona (se il verso «Put that dick up in her pussy bet she feel it in her toes», che non traduciamo perché mamma non vuole, non vi pare ispirata poesia… è perché siete vekki, vekki e anzyani). Il brano è anche uno dei tre migliori del 2016, secondo Billboard, e tra le “50 Best Songs of 2016”, secondo Rolling Stone. Nulla a che fare con i broccoletti di Alessandro Cattelan: è un gergale per una droga leggera e, da qualche parte, legale.
Comunque, tutti vogliono un pezzo di trap. E non solo in America. Nella nostra nemica Francia, dove il rap è più forte che nel Regno Unito (malgrado gli spintoni delle major), ha attecchito con decisione, anche se soprattutto mediante le star già consolidate. Il vecchio Booba ci si è buttato, Lacrim ha fatto un featuring coi Migos, Kaaris con Future. Che diamine, ha attecchito pure in Cina! Sentite come flexa il buon Ty, infatti:
Padronissimi di ironizzare, ma la cosa rilevante è la facilità con cui il codice viene adottato. C’è qualcosa nella trap di realmente ipnotico, anche per chi per qualche motivo vorrebbe opporre resistenza. Se provate ad assaggiare una delle mille playlist di Spotify, o nei canali tematici di YouTube tipo Trap Nation, le probabilità che rimaniate in trap sono ingenti – un po’ meno forse con quelle italiane, perché davanti a certi testi il neurone maggiorenne si ribella.
Forse perché si è mosso tutto molto rapidamente, per la trap italiana. La fase di stanca dell’hip hop italiano old-school, il boom delle piattaforme di streaming, i brand e i media desiderosi di nuovi volti e fenomeni. Era solo il 2015 quando Panette, autoproduzione di Sfera e del suo Brian Eno, l’allora ventunenne Charlie Charles, attirava l’attenzione di Shablo e Marracash, tanto da chiamarli nella loro Roccia Music. Dal video dell’allora diciasettenne, e oggi richiestissimo Alessandro Murdaca non emerge ancora l’estetica trap – anzi, l’inizio con le voluttuose volute di fumo è un must dell’hip hop, così come il testo abbastanza banale da favorire l’identificazione dei tredicenni (non quelli più brillanti).
Ma il suono già faceva la differenza: bassi potenti, base secchissima, una sorta di carillon malevolo in sottofondo e un ruscello di Auto-Tune sulla voce. Il manifesto della trap italiana resta quello, anche se il suo We Are the World resterà sempre il brano Bimbi. Formalmente è un pezzo di Charlie Charles nel quale si susseguono – senza incontrarsi mai – i golden boys della trap generation italiana. Izi, Rkomi, Sfera Ebbasta, Tedua, Ghali.
(Bimbi esce nel marzo 2017. In quei giorni, alla Milano Fashion Week i trappisti escono dalle fottute pareti per sfilare, presenziare, instagrammare)
Tra gli adolescenti della Capitale, intanto, è già ai massimi la smania per la Dark Polo Gang, ghignosa soap opera giovanile messa in piedi da quattro giovani della Roma-bene, anche loro benedetti dalla presenza di un genietto delle basi, Sick Luke. Da Napoli, Capo Plaza dilaga con Giovane Fuoriclasse, pubblicata con la Sto, l’etichetta indipendente di Ghali.
Quest’ultimo guarda intenzionalmente al pop e arriva a una fetta ancora più grande di pubblico con l’edificante Cara Italia, che ne fa il poster-boy degli italiani di seconda generazione come lui e un ospite perfetto per Fabio Fazio. I media si fomentano l’un l’altro. Fiorello ha un’intuizione eccellente e, con l’aiuto di Danti, interpreta Fatti Mandare dalla Mamma di Gianni Morandi in versione trap. Perché per certi aspetti è proprio questo che sta succedendo: la trap è il nuovo yéyé e, come negli anni ‘60, viene alimentata la contrapposizione tra i giovani e i matusa che non capiscono.
A fine 2017 il terreno era pronto, gli influencer si erano pronunciati, l’hype era incandescente: a quel punto la casa discografica di Sfera Ebbasta – la più grande del mondo – mostrò il giovane Gionata alla massa dei milanesi con memorabili gigantografie in metropolitana, in cui appariva colorato come un fagiano e vestito nel modo più pomposo possibile, mentre il musulmano Ghali giganteggiava su una parete della cattedrale dei milanesi (sempre cristianamente disposta a offrire l’altra facciata, se ci sono i “danée”).
Con il sostegno entusiasta di Spotify, ansiosa di presentarsi come piattaforma supergiovane, Rockstar fece il botto. Boschetti da Ciny si ritrovò a tu per tu con pubblici imprevisti, da quello del Primo Maggio ai bambini delle elementari che impazziscono per lui, puffo oltraggioso e colorato che inneggia a codeina e Rolex (come i loro genitori, in fin dei conti). L’età media giovanissima del suo pubblico è testimoniata tragicamente dal disastro di Corinaldo (AN), quando una serata che avrebbe dovuto vederlo come ospite d’onore ha portato alla morte nella calca di cinque ragazzi tra i quattordici e i sedici anni, e la mamma di una undicenne.
La necessità di mostrarsi contemporanei e giovani arrivava ovviamente anche in sedi come X Factor, dove l’enorme sedicenne Emanuele Bertelli ha tentato di portare la sua trap-soul alle masse, e una band metallara (Seveso Casino Palace) si è adattata a cantare Ricchi per Sempre di Sfera Ebbasta, accolta da consensi a catinelle.
Poi, appena hanno provato a far altro, li hanno gettati via come coriandoli. Ma intanto, il messaggio era passato: la trap era una figata, rendeva figo chiunque. Il programma, la band, i giudici, il pubblico, i giornalisti, gli stilisti, i linotipisti. E anche i rapper della generazione precedente. Ecco Marracash con Rkomi, Gué Pequeno con Capo Plaza (in Trap phone), Fabri Fibra con Laioung. Ed ecco pure Fedez con Trippie Redd e la Dark Polo Gang.
Malgrado la provocatoria cesura rispetto alla “vecchia scuola” esplicitata da Sfera Ebbasta in Tran Tran («Non mi frega di niente / Non c’entro col rap, no / Con quello e con l’altro / No scusa, no hablo tù lingua / Ma sicuro piace a tua figlia». Sa di ennesima trollata, chi lo sa quando è il caso di prendere sul serio un genere che guarda così volentieri al LOL rap?), alla fine la trap italiana non può dirsi lontanissima dall’immaginario in cui gli zii della leva calcistica precedente avevano portato l’hip hop, a partire proprio da Gué Pequeno.
Se proprio la codeina (lo “sciroppo”, la purple drank ottenuta con la Sprite) mancava, di certo egotrip, lusso e troie (pardon) erano già lì. Così DJ Shablo, intervistato da Sandro Giorello su Rolling Stone:
«Le basi trap oggi si assomigliano un po’ tutte, hanno giri banalucci, sono scure, usano sempre gli stessi accordi e gli stessi synth. Siamo passati dagli anni ’90, dove c’era un uso spropositato del sample, ad oggi, dove c’è un abuso di batterie 808 o di suoni tutti uguali. (…) Il rap è nato come un genere di protesta dove le parole avevano un’importanza fondamentale e oggi quest’importanza si è persa. Ci sono certi personaggi al limite del lol rap che hanno produzioni formalmente perfette, ma non capisci cosa dicono. Il contenuto ha lasciato spazio alla forma».
Il che forse favorisce anche il ritorno all’interesse per quel che succede oltreoceano. Dopo anni in cui persino Drake e Kanye West non sono riusciti a bucare l’autarchia delle classifiche tricolori, nel 2018 Travis Scott è arrivato alla vetta degli album in Italia con Astroworld. Ok, era estate. Però è successo.
Una svolta storica? Occhio, perché alla stragrande maggioranza del pubblico della trap, della storia, inclusa la storia della trap, non frega niente. Cosa che la avvicina al pop. Va consumata intensamente, questo sì.
La trap è ora, è adesso; un brano trap, anche uno con cinque miliardi di ascolti, tra un anno o al massimo due sarà giudicato obsoleto, vecchio come il vostro telefonino di tre mesi fa.
Per questi motivi, andare a frugare nel tentativo di trovare una trap “purista” migliore di quella proposta dai soggetti di maggiore successo è un’idea che può venire a chi si è formato col rock’n’roll – o con la Storia dell’Arte. Anche per questo Rolling Stone Italia del 2017 diventa teenager e sbrodolino, e intitola i pezzi «L’esordio della Dark Polo Gang è trash, una ficata» o «La trap sta facendo il culo all’indie?» (così, senza alcun imbarazzo per se stessi o per i propri familiari).
Ma del resto per l’hip hop non erano usciti giornali come Teen Trap, coloratissima come Cioè, piena di poster e coi fumetti che escono dai crapini dei divi. Su una copertina, quello di Sfera Ebbasta dice: «Penso solo al cash». Provocatorio? La provocazione è una categoria vecchia. LOL rules everything around you.
Mahmood Charlie Charles Sfera Ebbasta Young Signorino Marracash Ghali Shablo Fabri Fibra