New Music

Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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...Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Phil Spector, oltre il muro del suono

Una rockstar in sala di incisione (e le sue mille contraddizioni).

Dallo scorso gennaio Phil Spector non è più su questa terra, ma da molto tempo si era scollegato dalla realtà, perso in deliri e paranoie di ogni genere. Nonostante tutto, era e resterà un genio e un innovatore. Soprattutto, un pittore sonoro unico. Ed è per questo che vogliamo ricordarlo.

To know him is to love him?

Cercavo un suono potente, in grado di reggere un disco anche se la canzone non fosse stata di alto livello. Tutto stava nell’aumentare, sempre. Ogni pezzo si incastrava come in un puzzle.

Parafrasando il suo primo successo, conoscere Phil Spector è amarlo e spesso odiarlo. O meglio: adorare l’artista e – anche se costa fatica separarli – trovare a ragion veduta sgradevoli l’uomo e il crescendo di follie e nefandezze che ne ha costellato la vita. Tanto vale dirlo subito: l’aneddotica – qui ce n’è a non finire, con risvolti per lo più tragici – non ci interessa granché. Preferiamo adoperarla con molta discrezione e, soprattutto, siamo convinti che non debba mai sminuire l’arte.

A tal proposito, vorremo che faceste un esperimento: mettete su un Best of delle Ronettes oppure uno delle Crystals, o meglio ancora il fondamentale box quadruplo del 1991 Back to Mono. Mentre vi lasciate trasportare da sinfonie pop wagneriane, sforzatevi di guardare le cose dalla parte di chi ne fu l’artefice. Noi ci abbiamo provato, e per un attimo è parso che cercassero di riempire un vuoto interiore: quello lasciato dalla morte (un suicidio) del padre. Che fossero una ciambella di salvataggio offerta all’umanità sapendo sin dall’inizio di essere spacciati. Un prodigioso equilibrio che tentava di compensare l’instabilità di un io in frantumi.

Nella musica, infatti, i “pezzi” dell’inconscia, freudiana ammissione riportata sopra andavano sempre a posto mentre dentro di sé Spector nascondeva il caos, anche se rimanere sulla soglia dell’età adulta gli consentì almeno di toccare il cuore del mercato discografico. Ogni volta, prendeva canzoni scritte da/con altri – la crema dei team compositivi: Gerry Goffin e Carole King, Barry Mann e Cynthia Weil, Jeff Barry ed Ellie Greenwich – per donar loro uno spirito che arrivava a ragazzi e ragazze. Lui li capiva e loro ricambiavano, un successo dopo l’altro. Va da sé che ciò non perdona l’essere umano. Tuttavia aiuta a capire meglio la bellezza e l’importanza di ciò che ci ha lasciato, giacché immergersi in quello che ormai tutti conoscono come il wall of sound racconta un’influenza estesissima di portata sovragenerazionale.

Perdonate il gioco di parole, ma Phil è molto più di uno, ehm… spettro. Semmai, un pilone senza il quale i Beatles sarebbero stati diversi e Brian Wilson non avrebbe edificato le cattedrali Pet Sounds e Good Vibrations. Per tacer di Brian Eno, che ha mostrato di aver appreso la lezione in Here Come the Warm Jets e del romanzo di strada springsteeniano Born to Run, delle citazioni di Jesus & Mary Chain, della foschia caramellosa dei Cocteau Twins, della misurata pompa magna di Tony Visconti, Jason Pierce, Mercury Rev e Flaming Lips. In costui trovate la fonte dell’innocenza torbida di Rolling Stones e Velvet Underground, dei Walker Brothers e dello Scott solista, dei melodrammi concepiti da George “Shadow” Morton per le Shangri-Las e del feedback insieme astrale e compatto dei My Bloody Valentine. E la lista potrebbe continuare a lungo.

He was a rebel

Musica di cime montane e vasti orizzonti. (Recensione di All Things Must Pass su Rolling Stone)

Primo a trasformare chi sedeva al mixer in un artista in tutti i sensi “per sé”, Phil Spector è ovunque. A maggior ragione oggi, che i dischi si registrano con fretta e sciatteria e manca la figura del produttore che dall’esterno interpreta ciò che sta aiutando a costruire. Per carità, bravissimi Nigel Godrich, Dave Fridmann e Dan Auerbach, ma appartengono a un’altra generazione e tanto rock odierno – indie o classico – paga a caro prezzo l’assenza di nomi di spessore. Tuttavia c’è stato un tempo in cui quel punto di vista contava. E c’è stato un tempo in cui colui che Tom Wolfe chiamò il tycoon of teen sancì il passaggio dall’artigiano Sam Phillips a un modello imprenditoriale con l’anima. Ma limitarsi a questo sarebbe riduttivo: più d’ogni altra cosa, Harvey Phillip Spector era un regista di sublimi cortometraggi pop.

Come in tutti i grandi c’è anche altro. Ad esempio, il narratore per interposta persona e le storie che nascondono un cupo “non detto” vicino alla visionarietà del giovane David Lynch. Nulla spaventa più dell’apparente normalità che suggella la realizzazione di un sogno adolescenziale o dell’aura che circonda i cuori spezzati e subito ricomposti. Avverti un vago stridore, come un retrogusto che fatichi a definire e, dolceamaro, ti riporta al mondo innocente dei primi anni Sessanta, in cui il lato oscuro della Pleasantville viveva sotto un rigoroso bianco e nero.

Ook, rigoroso fino a un certo punto – qui, per esempio, era tutto virato sul blu.

Presto i colori squarceranno il velo ma qualcosa già trapela. Per esempio, la sensualità in detonazione ormonale di Be My Baby e, al polo opposto, l’inquietante He Hit Me (It Felt Like a Kiss), farina del sacco di Goffin e King che dalla confessione della loro babysitter Little Eva, maltrattata dal fidanzato, tratteggiano un quadro fosco dove il tradimento perpetrato dalla ragazza viene scoperto e la violenza dell’uomo giustificata come atto d’amore. È il 1962, bellezza.

Di norma, la critica considera un’epoca buia il periodo che va dalla normalizzazione del rock’n’roll all’imporsi della beatlemania in America: lo è se non si osserva la popular music nel complesso. Gli anni dal 1960 al 1964 appartengono anche al folk revival e a un jazz che si libera verso le stelle: nel mezzo, Phil Spector impugna una pietra filosofale che unisce sperimentazione e orecchiabilità, arguzia e immediatezza. Qualcosa che chiama pop-blues e prorompe da radio e jukebox a 45 giri, il formato ideale che coglie l’attimo in cui si dispiega il pulsante beat della Giovane America.

Anzi, dei giovani di qualunque età ed epoca, perché non si tratta di canzonette usa-e-getta, ma di drammi concisi e lirici in cui testo, contesto e dettaglio rivelatore si legano indissolubilmente. Sono materia da perfezionista, da control freak che al pari di Stanley Kubrick si occupa di ogni aspetto creativo. A differenza del cineasta, però, Phil finirà per soccombere ai mostri che lo accompagnavano da sempre. Amaro destino che il responsabile di capolavori incentrati sull’amore non riuscisse a riceverlo né a elargirlo.

Let’s go back to mono

Sono entrato nello studio, e ho creato il suono che volevo sentire.

Talvolta le ipotesi più scontate si rivelano giuste. Non vorremmo scadere nella psicanalisi a buon mercato, ma è probabile che il malessere di Phil e i relativi comportamenti traggano origine dalla traumatica morte del padre. Il suicidio di un genitore non è indolore, figuriamoci a dieci anni: per questo nel ’53 mamma Bertha abbandona il Bronx e porta Harvey Phillip (nato il giorno di Santo Stefano del 1939) e la sorella a Los Angeles. L’intraprendente rampollo di ebrei ucraini suonicchia piano e chitarra, ma capisce alla svelta che il suo ambiente ideale sta al di là del vetro.

Il praticantato inizia ai Gold Star Studios con Lester Sill e Lee Hazlewood – insieme a Joe Meek, l’unico suo pari – mentre già compone e con amici del liceo allestisce i Teddy Bears. Dopo la prova generale Don’t You Worry My Little Pet, il malinconico doo-wop a presa rapida To Know Him Is to Love Him conduce l’epitaffio del babbo in vetta alla classifica. Quando le uscite seguenti non vanno da nessuna parte, l’esperienza viene archiviata amaramente, anche perché il giovanotto scopre di essere stato derubato di un’ampia fetta di royalties – che sia qui il germe delle paranoie future? – e ventila l’ipotesi di mollare tutto.

Nel 1958, al Perry Como Show – ciuffo e chitarrina: con il senno di poi, quasi irriconoscibile.

Fortuna vuole che i mentori caldeggino una collaborazione presso la premiata ditta Jerry Leiber & Mike Stoller. Tornato a New York, il ventunenne pone le fondamenta della propria estetica tra la stesura del prototipo latin soul Spanish Harlem di Ben E. King e session con i Drifters, Ray Peterson e Curtis Lee. Di nuovo in California, lavora ancora (bene) per Hazlewood e Sill, con il quale a fine 1961 fonda l’etichetta Philles. Viene promossa con lo slogan “la musica di domani, oggi” e non è vanagloria, perché dopo essersi assicurati le Crystals, l’uno-due del lento There’s No Other (Like My Baby) e dello stranito gioiello spagnoleggiante Uptown si affaccia nelle chart.

Mentre gironzola negli uffici della Liberty, Phil ascolta un inedito dell’amico Gene Pitney: il passo ribaldo di He’s a Rebel gli piace al punto che corre ai Gold Star – che ora sono il suo regno – e la mette su nastro con la corista Darlene Love. Il singolo esce a nome Crystals, centra il numero uno e mette in moto la macchina.

Due settimane in vetta.

Il magnate fa fuori Sill e con Darlene, Fanita James e Bobby Sheen crea Bob B. Soxx & the Blue Jeans, cui affida il trittico Zip-a-Dee-Doo-Dah, Why Do Lovers Break Each Other’s Heart e Not Too Young to Get Married. Ricevuta quindi una telefonata dalle semisconosciute Ronettes, trasforma le sorelle Estelle e Veronica Bennett più la cugina Nedra Talley nelle stelle di una floridissima azienda, dove il clima resta ancora disteso nonostante l’impegno e il perfezionismo siano ai massimi livelli. E dove un classico tira l’altro e hit segue hit.

Anno frenetico il 1963: un matrimonio che non durerà, slavine di singoli e A Christmas Gift for You from Philles Records, capostipite di tutti gli album natalizi e l’unico a poter vantare una dignità artistica. Ne gioisce comunque poco l’America, scioccata lo stesso giorno della pubblicazione dall’assassinio di Kennedy.

Unchained melodies

Volevo un approccio wagneriano al rock‘n’roll: piccole sinfonie per ragazzi.

Della sensazionale sfilata radunata in Back to Mono colpiscono la cura meticolosa dei suoni e la disinvoltura nel costruire variazioni sul tema. Ma non pensate a roba da catena di montaggio, poiché profondità e sentimento scorrono in gemme che mettono assieme pop, doo-wop, R&B, soul, Brill Building e molto altro. Invidiabile la varietà di accenti, impressiona l’abilità nel trovare ogni volta la voce adatta a tradurla, che si tratti dei distillati di euforia da infatuazione He’s Sure the Boy I Love e A Fine, Fine Boy, della compostezza di (Today I Met) The Boy I’m Gonna Marry, del gioioso vorticare di Da Doo Ron Ron, del mal d’amore di Is This What I Get for Loving You? e I Wish I Never Saw the Sunshine.

Se Strange Love è l’imprinting di Brian Wilson, He Hit Me (It Felt Like a Kiss) arreda la stanza dove sibileranno le fruste di Venus in Furs, la mesta Soldier Baby of Mine fa i conti con il Vietnam e Little Boy, Do I Love You? e Baby, I Love You sono testi sacri per i Ramones.

La storia insegna che un impero può espandersi fino a un certo punto, dopo il quale le invasioni che si avvicinano dai confini e la decadenza che serpeggia all’interno ne segnano il declino. I mutamenti del gusto scalzano il pop spectoriano, benché – ironia della sorte – la British Invasion lo ammiri e ne sia ispirata. All’altezza del fiasco commerciale River Deep, Mountain High, un individuo disgustato dall’industria musicale prende a isolarsi, nel ‘69 sposa Ronnie, un anno dopo partecipa in un cameo da spacciatore in Easy Rider e produce qualche altra robetta.

Roba buona, sempre.

Un giorno del 1970 squilla il telefono della sua villa e all’altro capo c’è Allen Klein, alle prese con la fine dei Beatles:

Su, Phil, vieni a Londra, ti farà bene cambiare aria.

Infatti su Instant Karma! fa un’opera egregia al punto che George e John chiedono che assembli un trentatré giri dalle bobine di Get Back. Data forma a Let It Be e messo dell’ottimo suo in All Things Must Pass, Plastic Ono Band e Imagine, rimpatria in piena paranoia. Riversata l’eccentricità nel buco nero che sta per inghiottirlo, combinerà poco tra casini di alcol e droga, vessazioni a musicisti e cantanti e alla povera Veronica. Nel marzo del ’74 quasi muore in un terrificante incidente d’auto: scagliato fuori dall’abitacolo, resta sull’asfalto di Hollywood con le pulsazioni al minimo e lo salva un’operazione di svariate ore.

Punto di non ritorno dopo il quale c’è pochissimo da riferire che esuli da manie di onnipotenza e depressione, da divorzi e matrimoni, dalla passione per le armi e dalla grottesca esperienza con Leonard Cohen. Giusto una zampata con i Ramones e l’arcinoto resto mancia di cronaca nera.

Il COVID-19 infine stronca il fisico sempre più cagionevole di chi sarebbe potuto uscire in libertà vigilata nel 2024.

Wall of fame

Importante aprire una parentesi su uno stile produttivo che fu subito rivoluzionario e da decenni rappresenta un archetipo. Piuttosto lineare, il percorso che portò Phil Spector a costruire il wall of sound: una graduale, relativamente rapida messa a fuoco di linguaggi e visione con alla base l’apprendistato in giovane età, utile ad apprendere i trucchi del mestiere. Con Leiber e Stoller in seguito il ragazzo affina le influenze latine, l’uso delle percussioni e un approccio inaudito di massimalismo controllato, con cui costruisce spazi sonori ed emotivi dove ogni elemento si mescola ordinatamente. Prova ne sia che in Spanish Harlem compare la prima “finestra” di archi che letteralmente arieggia il pezzo: trovata in seguito ripresa svariate volte per impedire che l’impasto strumentale divenga claustrofobico e magniloquente.

La prima finestra si spalanca al minuto 1:40 – senti che spifferi!

Lo stesso dicasi per gli studi Gold Star, dove un’eccellente camera d’eco garantisce il riverbero e la nitidezza delle tessiture. Qui il nocciolo della questione: sonorità di lieve compattezza, ossimori che si realizzano e si mantengono integri e puliti anche a volumi elevati. La sapiente disposizione dei microfoni – lasciati aperti per catturare il “rientro” di ogni strumento e le reciproche spazialità – permette inoltre di catturare l’ambiente circostante in una trasparenza solida che respira con noi lungo le pause che a volte inframmezzano le canzoni. Alla faccia di chi ancora definisce il tutto monolitico.

Il metodo di lavoro viene fissato con Zip-A-Dee-Doo-Dah e non subirà modifiche: la strumentazione ricca (pianoforti, chitarre, batterie e raddoppiati o triplicati, profusioni di cori, archi, fiati) esegue per ore le partiture all’unisono ottenendo un impatto e una pienezza da orchestra. Un’autentica squadra di professionisti – assi come Hal Blaine, Larry Knechtel, Carol Kaye, Glen Campbell, Leon Russell – va assemblandosi sotto il comando di Jack Nitzsche e il nome The Wrecking Crew, con pieno vantaggio di una densità cui offrono un contributo fondamentale l’ingegnere del suono Larry Levine e la registrazione monofonica, preferita per evitare che l’ascoltatore alteri l’immagine spostando i diffusori.

Giusto così. Il mono trattiene il calore emotivo, la profondità dell’ordito, il bilanciamento minuzioso e la superba unitarietà di una musica imponente e mai soffocante. Il wall of sound è esattamente ciò che il nome promette: un muro in cui ogni mattone gioca un ruolo preciso senza prevalere sugli altri. Architettura sonica di bellezza ed eleganza somme, è arte pop come di rado ne abbiamo ascoltata e mai più ne ascolteremo.

Phil's jukebox

Non senza imbarazzo della scelta, abbiamo estratto dieci momenti fondamentali, equamente divisi in caposaldi dell’epoca d’oro e dischi controversi ma in realtà sorprendenti.

🎵 Ronettes – Be My Baby (Philles Records, 1963)
Forse gli anni Sessanta americani iniziano nell’estate del ‘63, con una crepa nella diga del perbenismo scavata da una sensualità sorridente e solare. Una crepa nella quale presto si introdurranno i Beatles facendo crollare l’intero argine con l’esibizione da Ed Sullivan: chiusura del cerchio, sull’aereo che portava i Cesari alla conquista del nuovo mondo c’era anche Phil Spector. Piace pensare che il decennio favoloso inizi su un ritmo marziale nato per caso – al batterista Hal Blaine pare sia caduta una bacchetta e lui ripeterà l’errore per camuffarlo – che scoperchia la mente come due anni più tardi il rullante di Like a Rolling Stone. Sul memorabile incipit decollano stratificazioni magistralmente avvolte in eco e riverbero che traducono l’eccitazione di quando ci si è appena innamorati, un oceano elettrizzante sul quale la voce della diciottenne Ronnie dispensa passione (tra lei e Phil c’era infatti un legame sentimentale) quasi del tutto liberata dagli “oh oh oh” che trasformano il muro in un ponte sulla nuova era.

🎵 Crystals – Then He Kissed Me (Philles Records, 1963)
Poiché Be My Baby è di una categoria superiore, con la frenetica Da Doo Ron Ron spetta all’incantevole sfoglia emotiva Then He Kissed Me incarnare il concetto di sinfonia tascabile per ragazzi. Potete riarrangiarla in chiave spettrale – come la bravissima Moe Tucker sull’album I Spent a Week There the Other Night – o ipotizzare i Devo gonfi di anfetamina come ha fatto St. Vincent, e resterà un capolavoro traboccante il misto di esaltazione e malinconia che abita in ogni deserto adolescenziale. Il segreto risiede nella perizia con la quale Spector sceglie l’interprete. Delle Crystals al microfono c’è soltanto La La Brooks, una quindicenne mai stata baciata che deve cantare praticamente al buio per concentrarsi sull’immaginazione del desiderio. Da lì arriva l’ineffabile tenerezza – ulteriormente messa in rilievo dal malizioso verso «poi gli diedi tutto l’amore che avevo» – che il mondo divorerà e che ci consola da adulti ormai cinici. A proposito di cinismo, è l’ultima hit delle ragazze prima che il produttore si dedichi alle Ronettes.

🎵 Bob B. Soxx & The Blue Jeans – Zip-A-Dee-Doo-Dah (Philles Records, 1962)
La produzione preferita di Brian Eno è un avanguardistico studio sulla subliminalità, nonché la canzone che stabilisce il modus operandi del muro sonico. Bob B. Soxx & The Blue Jeans sono un trio vocale utilizzato sovente dal padrone di casa, e per l’occasione si cimentano con un pezzo del 1946 tratto dal film della Disney Song of the South. In un gioviale soul imbevuto di doo-wop risalta in ogni caso la chitarra elettrica di Billy Strange, che si separa improvvisa e spigolosa: secondo Larry Levine, l’effetto fu ottenuto spegnendo il microfono di Billy, ma tenendo aperti quelli limitrofi e lavorando successivamente sui rispettivi volumi. Colpo di genio che spiega il ruolo “fantasmatico” di un elemento che c’è ma non si sente fino a quando l’assolo non lo rivela con una fulminea epifania. Idea modernissima in base alla quale si cattura l’ambiente adoperando lo studio di registrazione come uno strumento vero e proprio. Su queste intuizioni, Eno inizierà a teorizzare – e soprattutto a praticare – con le felici conseguenze che sappiamo.

🎵 Righteous Brothers – You’ve Lost That Loving Feelin’ (Philles Records, 1964)
Il cambiamento nella continuità era uno dei pregi di chi spingeva al limite la creatività e i collaboratori. Accade soprattutto in You’ve Lost That Loving Feelin’, dimostrazione che l’ormai famoso muro potesse essere spazioso ed elastico. Phil chiede a Barry Mann e Cynthia Weil qualcosa che valorizzi la vocalità di Bill Medley e Bobby Hatfield, in arte Righteous Brothers. Poi sistema il solo Bill a brevettare il crooning di Scott Walker, Mark Almond, Nick Cave e Jarvis Cocker e rallenta la cadenza in una tensione che deflagra nel ritornello. Infine dissemina il crescendo di stacchi e pause, dove concentra universi emotivi fino alla finta chiusura. Con il gioco di chiamata e risposta, il capolavoro trionfa verso la gloria del wall of sound – termine coniato da Andrew Loog Oldham per presentare il disco in Inghilterra – mentre Spector plasma la realtà da prestigiatore. Dato che in quel periodo le radio non trasmettono pezzi superiori ai tre minuti e qui si lambiscono i quattro, sull’etichetta stampa un sarcastico 3’01” degno di Malcom McLaren.

🎵 Ike & Tina Turner – River Deep, Mountain High (Philles Records, 1966)
Apogeo e inizio della fine. L’ottantottesima posizione raggiunta negli Stati Uniti dal costosissimo diamante River Deep, Mountain High è la goccia che fa traboccare il vaso per un uomo che è stato messo all’angolo da un’evoluzione come il rock non ne conoscerà più. Tuttavia, per l’ultima volta vince l’ingegno di chi convoca Tina Turner ad affrescare una personale Cappella Sistina. Esaltante e impetuosa, la canzone lascia senza fiato tra pianoforti, cori e ottoni che sembrano registrati nella stanza accanto e sul refrain abbattono le pareti. Dalle macerie fumanti salgono la fenomenale voce della Turner – sbattuta sulla graticola a ripetere il cantato centinaia di volte (Ike è citato solo per questioni contrattuali) – e un arrangiamento tutto potenza e calibrazione, che racchiude un’ode all’amore incondizionato in una rovente fusione di pop, rock, soul. La magnifica contaminazione arriva però con troppo anticipo e in madrepatria non viene capita dal pubblico bianco né da quello di colore. Andrà meglio nella più ricettiva Inghilterra, ma ormai la frittata nel cervello di Phil era fatta.

🎵 The Beatles - The Long and Winding Road (Apple, 1970)
Nell’accidentato percorso che conduce i Beatles alla separazione ufficiale, una delle stazioni obbligatorie è l’intervento spectoriano su Let It Be e, nello specifico, il tanto vituperato trattamento riservato a The Long and Winding Road che mandò su tutte le furie Paul McCartney e tuttora divide fan e critici. La difesa annota che in sua assenza i nastri dell’abortito Get Back non avrebbero visto la luce e sarebbe venuto a mancare un tassello importante della vicenda. Ciò detto, il problema legato a remix, taglia-e-cuci e tinteggiatura dipende dal palato di ognuno. Al netto di veleni e diatribe, per noi il lavoro è buono e addirittura egregio in quella valanga di violini, cori femminili e archi, che prende un abbozzo malmesso (per quale ragione non fu sottoposta una versione migliore tra le tante disponibili, questo sì è un mistero – non la presunta morte di Paul) e consegna una hit. Riascoltiamola: non c’è nulla di melenso (piuttosto tanta malinconia, com’è giusto) nel pathos che disegna il tramonto di un’epopea lunga e tortuosa.

🎵 George Harrison - Isn’t It a Pity (Apple, 1970)
Confermando la teoria secondo la quale l’artista è il peggior giudice di sé, George Harrison ha sempre detestato le scelte produttive di All Things Must Pass. Confusione, suoni opachi e poco definiti, cose così. Ma non fu lui a dire River Deep, Mountain High perfetta dall’inizio alla fine e a caldeggiare con Lennon il maquillage di Let It Be? Contraddizioni che si sommano (si veda il resto della discografia, spesso di un’opulenza che imita Spector alla caricatura) nell’animo di chi sta attraversando un periodo delicato e sulle sei facciate di un’opera enorme come All Things Must Pass stipa il materiale ammucchiato nei cassetti. Materiale di prima categoria che Phil Spector impacchetta in una nebbia dalla quale traspaiono lontane avvisaglie di shoegaze e, contemporaneamente, il senso di pensoso smarrimento tipico di un’epoca di passaggio. Anche in questa atmosfera irripetibile sta il segreto di canzoni che si porgono romantiche anche quando rockeggiano, di svagate dolcezze che suggeriscono pomeriggi infiniti trascorsi a sognare.

🎵 Dion - In and Out of the Shadows (Phil Spector Records, 1975)
Reduce dagli impegni con i Beatles, Phil sbrocca sul serio e nel resto dei Settanta cava dal cilindro un 33 giri che fa bel paio con il disfacimento definitivo della sua psiche. Ciò che andrà storto con Leonard Cohen riesce nel ritorno sulle scene del coetaneo Dion, star nei primi ‘60 con i Belmonts che a metà decennio ha sostituito l’eroina con il fervore religioso. In un’odissea quinquennale di session all’insegna della perenne ubriachezza e di un caos ben più che strisciante, il sarto taglia su misura aeriformi decadenze gospel, autocitazioni e teatralità da bassifondi. Sulla carta Born to Be with You sarebbe un’indigesta brodaglia kitsch, eppure la realtà appartiene a un cult record dal quale Dion si dissocia all’istante e che il Nostro pubblica a sue spese. Bisognerà aspettare l’acclamazione di Spiritualized e Primal Scream per riscoprire un viaggio al centro della follia non privo di fascino malato. Con il successivo Death of a Ladies’ Man, invece, la maionese uscirà impazzita. Né più né meno come lo chef.

🎵 John Lennon - Instant Karma! (Apple, 1970)
Lo spartiacque tra i Fab Four e John Lennon è il terzo singolo della Plastic Ono Band. Uscito a inizio 1970, Instant Karma! è un nomen omen buttato giù in un’oretta, sviluppando alcune conversazioni sui massimi sistemi con l’ex marito di Yōko, Tony Cox. I dieci giorni che separano dalla pubblicazione servono a Spector per ispessire un invincibile inno rock, il telaio del quale era stato registrato ad Abbey Road con un fidato quartetto (George Harrison alla chitarra, il tastierista Billy Preston, la sezione ritmica di Klaus Voormann e Alan White). Compito dell’amico americano conservare l’immediatezza e arricchire con misura: mixata la batteria in avanti, aggiunti un’abbondante eco Fifties, il famoso pianoforte triplo e un coro reclutato in un nightclub, coglie l’idea dell’autore di applicare il dinamismo concettuale della pubblicità – «tutti splendiamo con il karma istantaneo!» – a una dimensione spirituale. Ecco un classico di successo utilizzato anche in un vero spot e la picconata definitiva al gruppo più grande di Gesù.

🎵 Ramones - Baby I Love You (Sire Records, 1980)
Non date retta ai fan che avrebbero reiterato all’infinito un punk cartoon stile Wile E. Coyote. E non ascoltate nemmeno i finti fratelli newyorchesi, scontenti di End of the Century finché sono stati in vita. In realtà, l’album funziona perché è costruito attorno a Joey Ramone, l’anello di congiunzione tra lo spirito del ‘77 e il suono spectoriano cresciuto con le Ronettes nelle orecchie e nel cuore, come spiega un’ugola dolce però tagliente, sempre pronta a prenderti per mano lungo melodie appiccicose. Nonostante il solito incubo di minacce e brani risuonati all’infinito, Spector volle fortissimamente la collaborazione e in effetti si era proposto al timone già per Rocket to Russia. La mossa è di notevole maestria e idem una grandeur ben imbrigliata che dona colore e profondità all’anthem Do You Remember Rock and Roll Radio?, al festoso tumulto Rock n’ Roll High School, alla meditativa Danny Says. Apice la cover di Baby I Love You che inscena una simbiosi e il saluto del genio. Di simili momenti vive il pop più aureo, e così sia.

Ronettes Ramones Beatles Phil Spector 

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