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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Nel profondo di Peter Gabriel, e di tutti noi

US, un disco in prima persona plurale, fatto di emozioni fragili e miracoli sonori.

Un artista con un apostolo e un arcangelo tra nome e cognome, capace di reincarnarsi in più di una vita luciferina, fuggire dai Genesis dopo aver plasmato con loro il progressive rock e alla fine reinventarsi piovra della world music. Un album che è come un anno di psicoterapia, o una singola, potentissima magia catartica e guaritrice.

Dal paradiso all'inferno

Alzi la mano chi, nella vita, ha fatto almeno una seduta di psicoterapia. Uno tenderebbe a scommettere che – per una serie di resistenze personali e stigmi sociali che non è questa la sede per indagare – siano meno di quelli che ne avrebbero bisogno, ma non è questo il punto.

Se foste Peter Gabriel, che abbiate o non abbiate mai messo le mani dentro la vostra scatola cranica – o, per quel che vale, dovunque crediamo che siano la mente, le emozioni e lo spirito – e che sia stato qualcun altro ad aiutarvi a farlo o che ci abbiate provato da soli, probabilmente ci avreste scritto su un album, e quello sarebbe stato un capolavoro, un universo a sé, un pozzo di colori e sfumature.

Ma andiamo con ordine, perché non è un’impresa facile afferrare ciò che passa nella testa dell’uomo con uno dei nomi più biblici della musica mondiale (in un colpo solo Pietro, custode delle chiavi, e l’arcangelo Gabriele), né così immediato capire perché sotto questo carico anagrafico troviamo invece una creatura luciferina e prometeica che è stata nelle profondità dell’inferno per riuscire ad accendere il suo personalissimo lume e a portarlo alla gente.

Un normale mercoledì pomeriggio nel Petermondo.

From Genesis to Revelation

Nel 1992 Gabriel ormai ce l’ha fatta una seconda volta. Da più di un decennio, spinto da una di quelle forze inarrestabili che ti obbligano a chiudere un capitolo, ha lasciato i Genesis orfani del suo genio drammaturgico, della sua immensa capacità di performer e del suo timbro vocale che sembra venire da chissà quali luoghi dimenticati del nostro subconscio.

Dell’eredità condivisa con la band simbolo del progressive rock non ha quasi voluto saperne, evitando (quasi sempre) di portarla in concerto. Sulle ragioni del suo addio – addirittura aiutate da quella che pare essere un’esperienza extrasensoriale avuta in cima a Solsbury Hill – ha scritto pure una bellissima ballata, che resterà come uno dei pezzi più amati e radiofonici della sua carriera solista.

Vabbè, erano sempre gli '80.

Nel 1986, con So, ha fatto il botto e si è imposto come mattatore assoluto e pioniere della world music, incollando insieme un patchwork magicamente riuscito di sottigliezza lirica e appeal funkettone, deliri di onnipotenza sessuale visualizzati con il pongo in stop-motion e visioni soprannaturali ispirate all’opera poetica di Anne Sexton, premonizioni apocalittiche dal ritmo accattivante e duetti scioglibudella con Kate Bush.

Last (but not least) In Your Eyes, un canto delle viscere dall’interno verso l’esterno, spennellato d’Africa, perfetto per essere portato dal vivo con scenografie mozzafiato e intere comitive sul palco (e ovviamente Youssou N’Dour – perché chi non vorrebbe portarsi dietro Youssou N’Dour?). Il tutto sostenuto da musicisti fedeli e meravigliosi (e poi, ma quanto cazzo è bello Tony Levin?).

Già, quanto cazzo è bello?

Prendere parte a un album praticamente perfetto, di solito, è una cosa che riesce una volta nella vita: lui era già almeno a due.

Digging in the dirt

Attivista per i diritti umani – uno dei più limpidi, dei meno mitomani e ipocriti fra i musicisti impegnati nel sociale – compositore, performer multimediale oltre che “semplicemente” musicista polistrumentista e songwriter. Aveva pure vinto un Grammy per la colonna sonora di L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese – Passion, altra gemma (stavolta strumentale) di musica del mondo.

Ma se dal di fuori Lucifero sembra splendere come non mai, dentro – nel pozzo di pece dell’interiorità con cui tutti, gente di successo e non, prima o poi fanno i conti – fermentano fango, schifezze, conflitti e crisi: il primo matrimonio si è frantumato e così pure la relazione che forse ha contribuito a farlo naufragare, e con la figlia Melanie non riesce più a comunicare. Peter inizia ad andare in terapia, riavvolge il nastro, ancora una volta si ferma per capire cosa gli sta succedendo intorno, captare e decifrare i nuovi segnali e dare una spiegazione al fatto che il castello della sua vita personale e delle sue relazioni sembra essersi ridotto in macerie.

È da questo brodo primordiale che nasce Us. Perché i titoli lunghi, a lui, non piacciono proprio (ecco più di tre indizi che quindi fanno più di una prova – So, Us, Up, OVO).

Un po' di crisi interiore tipo qui si intuiva.

Us: Consciousness

Questo era il primo titolo pensato per quello che appare come una specie di allegro festival dei talenti: al prezzo di uno, ci trovi i fedelissimi Manu Katché e David Rhodes, Sinéad O’Connor, L. Shankar al violino, Tony Levin (che ricordiamolo, è bellissimo, e a Peter va dato almeno credito di essere riuscito a far fare i balletti sul palco a uno che veniva da quella specie di coacervo di super-automi che sono i King Crimson degli anni Ottanta) e addirittura un cameo di John Paul Jones. Per non parlare della produzione – grezza e sofisticata al tempo stesso, tanto che lo stesso Gabriel se ne dirà molto soddisfatto a distanza di anni – a firma di Daniel Lanois, fresco di Achtung Baby degli U2. Insomma, mica pizza e fichi.

Sì, Tony è proprio bellissimo.

Ma non stiamo parlando di un disco jazz e valutando chi ci suona come se si trattasse di cavalli di razza. Certo, ci fa molto piacere che sia animato dal tocco di musicisti di bravura e sensibilità disumane, che fra l’altro hanno saputo modellarsi in piena sintonia con la vena introspettiva dell’album. Ma il fatto è che questo è niente di più e niente di meno che il mondo di un uomo spogliato del suo guscio, nudo di fronte a sé stesso, ed esposto alla luce. Ed è una cosa disarmante, potente, che tocca delle corde impensate.

Us, noi, cioè io e te. Ma anche noi, cioè noi tutti. Capisci che un’opera è speciale quando riesce a essere enormemente personale ed enormemente universale nello stesso momento. E Us, in questo senso, è come una freccia che trafigge tutti gli strati sotto cui ci nascondiamo, fino ad arrivare al cuore delle cose.

«Words / They climb all over you / 'Til they uncover you / from where you hide».

All the barriers blown away

La totale e umana sincerità della persona che ha concepito quest’album attraversa come un fulmine ogni parola cantata, ruggita, sussurrata con la voce rotta o in tono sensuale, e libera anche chi ascolta da qualsiasi tipo di vergogna di sé e delle sue pulsioni, lasciandolo meravigliato, commosso, scosso nel profondo.

Da subito, su un tappeto di cornamuse, tamburi e canti ancestrali, l’orecchio viene assalito dalla voce di un uomo disperato come un assetato in mezzo al deserto, perché la figlia non gli parla più (Come Talk to Me).

«I can imagine the moment / Breaking out through the silence / All the things that we both might say / And the heart it will not be denied / 'Til we're both on the same damn side / All the barriers blown away».

Lo stesso uomo, però, che parallelamente cerca di tornare indietro per capire (Only Us), ha pure bisogno di vedersi riflesso nell’amore o anche solo nell’attrazione/attenzione di qualcuno (Love to Be Loved).

In this moment / I need to be needed / With this darkness all around me / I like to be liked / In this emptiness and fear / I want to be wanted / 'Cause I love to be loved

O di sedurre e perdersi nel calore (Steam, che fa il paio con Sledgehammer dell’album prima). Il tutto nel quasi disperato, viscerale tentativo di comunicare e aprirsi al femminile e di capire anche sé stesso, per poter finalmente mettere armonia fra i due mondi, come succede – con tanto di surreale matrimonio fra Peter e Sinéad O’Connor nel videoclip – in Blood of Eden, un viaggio sognante tra segni e simboli, immagini e archetipi, dove alla fine i corpi si fondono in una delle più belle e dolci descrizioni sonore possibili di un orgasmo.

Se commissioni gli abiti da cerimonia a un surrealista, poi non ti lamentare.

This time you've gone too far

Entrare nella propria mente non è un viaggio da niente: richiede preparazione, coraggio e un costo molto alto, non fosse altro che per il rischio – una volta abbattute tutte le false certezze – di non riconoscersi più. Nel video macabro e conturbante (e come sempre, immensamente creativo – fra l’altro vinse un Grammy) di Digging in the Dirt, Peter porta tutto alla luce. Mostri, batteri ammorbanti, vermi che divorano il suo stesso cadavere, insetti di ogni tipo che lo percorrono mentre canta sdraiato nell’erba, manco fosse in pieno delirium tremens. Solo alla fine si vedono sbocciare fuori fragole e farfalle: è la ricompensa che si ha quando finalmente il duro lavoro di scavo nel torbido inizia a dare i primi, sudatissimi frutti.

Ma è un processo dal quale si esce inevitabilmente cambiati, con qualche crepa riparata, qualche falla otturata, qualche perdita tamponata malamente, tenendosi insieme – mai trionfanti, perfetti, sicuri, ma solo e soltanto con la consapevolezza che bisogna continuare a vivere in bilico e giocare a fare gli equilibristi. E darsi da soli un nuovo battesimo, lasciando che l’acqua porti via tutto, lavi il proprio mondo interno fin nei recessi che ci faceva più paura portare alla luce.

Comunque, ora l’uomo rinato è pronto: gli manca solo, ironicamente, il bacio di una principessa che gli risvegli i sensi e lo liberi dal suo corpo di ranocchio (Kiss That Frog).

Sweet little princess / Let me introduce His Frogness!
Sexy and I know it.

In our secret world we were colliding

A volte, quando ti guardi intorno, tutto sembra calmo e statico, in superficie. Poi percepisci un piccolo disturbo. E sai per certo che, sotto, è nascosto un qualche altro mondo segreto. (Peter Gabriel)

Il tema dei due mondi – uomo e donna – ritorna nella dimensione live, dove Peter, fin dai tempi dei Genesis, ama scenografare e drammatizzare, anche qui con funzione di rappresentazione catartica e liberatoria più che di semplice spettacolo. E lo fa davvero con gran classe, congiungendo idealmente l’espressione di emozioni dure e potenti con l’intrattenimento nel senso più puro, senza che nessuno dei due aspetti ne esca corrotto.

Un concerto di Peter Gabriel è sempre un’esperienza da ricordare, ma quello che uscì fuori dal tour di Us – da cui vennero tratti un album live e un DVD, chiamati appunto Secret World Live – è qualcosa di molto vicino allo spettacolo perfetto, capace di lasciare letteralmente a bocca aperta: immenso, completo, simbolico, divertente, commovente.

Botole, cabine telefoniche, scenografie alberate, uscite di scena veramente memorabili, il gioco continuo con i musicisti, Paula Cole che non fa rimpiangere la voce eterea di Sinéad O’Connor (né quella dolcissima di Kate Bush in Don’t Give Up, se è per questo), dandone una versione più piena e soul: tutto è al suo posto e si svolge su due palchi, uno quadrato e uno rotondo, che simboleggiano il maschile e il femminile. Ogni coreografia è studiata sul significato, e non è affatto un caso quando Peter, con delicatezza o con arroganza, con allegria spudorata e padrona di sé o spinto da un bisogno improvviso e infantile, invade l’altra metà del cielo. Tutto da riascoltare e riguardare fino allo stremo, perché ogni volta l’esperienza acquista qualcosa di nuovo, e quello che lascia è una voglia di vivere infinita. Del resto, è bello vivere anche perché ci sono i concerti di Peter Gabriel.

Insisto: Tony Levin è di una bellezza sconcertante anche quando esce di scena.

Secret World è anche la traccia che chiude Us, sfumando il lungo e sofferto dialogo interiore in una coda perfetta, dove le timbriche e gli incastri creano un vero miracolo sensoriale, da gustare con gli occhi chiusi dall’inizio alla fine. Le immagini del testo sono come squarci di luce, leggere e penetranti al tempo stesso, e nuotando nei suoni e alternandosi con delicatezza riescono ad andare dove vogliono, scoperchiando tutto quello che c’è da scoperchiare, rievocando esperienze, fallimenti, sensazioni intense che appartengono al vissuto di ogni essere umano.

In this house of make-believe / Divided in two, like Adam and Eve / You put out and I receive / Down by the railway siding / In our secret world we were colliding / In all the places we were hiding love / What was it we were thinking of?

È il mondo nascosto, caotico, fatto di pulsioni ed emozioni senza controllo, che si agita sotto la superficie delle cose, quello che condividiamo con l’altro, intrecciandolo in modo esclusivo – a volte ossessivo e totalizzante – con una persona, oppure percorrendolo come una rete magnetica che unisce tutti quanti sulla faccia del pianeta, e intuendo il mistero indecifrabile che c’è dietro.

Personale e universale: questo è Us, questo è Peter Gabriel, arcangelo caduto che ritrova le chiavi del paradiso (e ce le dona) dopo un lungo viaggio negli inferi.

Lucifero in azione.

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